Federico Spinas ha fatto uscire il suo primo EP Tempo (Epic Records/Sony Music Italy) lo scorso 8 settembre. Perché abbia deciso per il suo percorso musicale di chiamarsi con il solo cognome, Spinas, ce lo spiegherà lui stesso nel corso di quest’intima intervista in esclusiva che ci ha rilasciato, tra uno shooting e l’altro. La parola shooting non è usata a caso: per i pochi che non lo sapessero, Federico Spinas è uno dei modelli italiani più ricercati dai grandi marchi. Da Dolce & Gabbana a Off-White, da Versace a MSGM, non c’è stato brand che non abbia voluto il suo volto a rappresentarli sia in passerella sia sulle più prestigiose riviste del settore.
Tempo e la musica rappresentano per Federico Spinas una parte di vita importante. Il suo primo singolo è uscito il 3 dicembre 2021 ma le sette note hanno da sempre accompagnato la sua crescita, sin da quando bambino scorrazzava in macchina con la mamma per la sua Sardegna. La madre, oggi rinomata fotografa ma un tempo una delle super top model degli anni Ottanta (Francesca Manca di Villahermosa), gli faceva ascoltare di tutto, dai Red Hot Chili Peppers in poi.
Era dunque pressoché un bambino quando già Federico Spinas sognava di esibirsi con una rock band, tanto che ha iniziato presto a suonare la chitarra, iscrivendosi mentre frequentava le scuole medie al conservatorio dove per quattro anni ha studiato clarinetto e sassofono. All’impostazione classica, ha poi accompagnato durante gli anni del liceo la produzione di musica elettronica insieme a quello che era il suo migliore amico dei tempi. Ma poi agli anni delle serate come dj e delle partecipazioni ai festival è seguito il mondo dell’alta moda, senza però che Federico Spinas dimenticasse l’amore per la musica.
E il risultato è oggi Tempo, un EP di sette tracce che si muove tra sonorità hip hop e R&B avvalendosi delle collaborazioni di importanti artisti italiani e internazionali (tra cui 2ND Roof, il rapper londinese Octavian, Paryo del collettivo di producer statunitensi Internet Money, oltre a Jonnywood, Cryptic, Wizzle e molti altri). E in Tempo Federico Spinas ci mette di fronte alla sua anima più profonda, girando intorno alle sue due anime: brano dopo brano, è come se scorgessimo due suoi lati diversi, due posti agli antipodi che cercano uno spazio per comunicare.
Di Tempo e non solo lasciamo che a parlarcene sia lui con l’ausilio di barre tratte dai suoi stessi brani. Esperto responsabile di salti nel vuoto, come l’abbiamo definito fuori intervista, Federico Spinas saprà conquistarvi parola dopo parola, rivelando anche l’inquietudine di un giovane ragazzo che, nato nel 1995, è ancora alla ricerca della sua stabilità.
Intervista esclusiva a Federico Spinas
“Molto bene, un po’ stanco perché sono rientrato dopo aver fatto un po’ di giri tra Milano per la presentazione del disco, la Svizzera per uno shooting e Cagliari per qualche giorno”, mi risponde Federico Spinas quando gli chiedo come sta.
Shooting in Svizzera? Mi sembra di capire che a quella di cantautore continui ad affiancare l’attività di modello.
In realtà, ormai, anche ciò che faccio nella moda è in funzione anche della musica. I progetti che sto scattando in questo periodo sono di moda ma relativi all’uscita dell’EP: ho unito un po’ i due mondi.
Tempo è il tuo primo EP. Perché hai voluto chiamarlo così?
Ho deciso di chiamare l’EP Tempo per tutta una serie di motivi. Primo, perché la musica ha sempre fatto parte della mia vita: era ciò che volevo fare ancor prima della moda. Sin da piccolo ho studiato musica classica, ho poi prodotto musica elettronica e circa due anni fa ho ripreso in mano il mio percorso da cantautore.
Con la tracklist già pronta e il progetto finito all’80%, il concept che univa tutti i pezzi c’era già. Il titolo Tempo è arrivato quasi per caso da me. Mi trovavo a Barcellona, a casa di un’amica e nel salone di casa sua ho aperto a casa un libro di illustrazioni: c’era l’immagine di un albero diviso a metà, con da un lato luna e la notte e dall’altro lato il sole e il giorno e sotto la breve descrizione del tempo. Leggendola, ho ritrovato un bel po’ di dualismi che già erano all’interno delle mie tracce, come il giorno e la notte, il brutto e il bello, la tristezza e la felicità, lo yin e lo yang. Ed è stato quello il momento in cui ho deciso allora di chiamare tutto il progetto tempo.
E, infine, non dimentichiamo che Tempo, musicalmente parlando, è una parola internazionale usata per definire il bpm di un brano e, come tale, comprensibile anche al di fuori dell’Italia.
Lo hai appena ricordato: hai cominciato a studiare al conservatorio già in tenera età. Leggenda vuole che tu lo abbia fatto per inseguire una ragazza che poi ti ha mollato una sola.
Come fai a saperlo? È vero, anche se solo per metà. Volevo già studiare musica di mio e dedicarmi alla chitarra e alle percussioni. Erano i due strumenti che avevo scelto per il mio percorso al conservatorio e che avevo preparato per l’esame di ammissione. Il corso di percussioni non si è però più fatto perché non si era raggiunto il numero minimo di partecipanti mentre a quello di chitarra, che volevano un po’ far tutti i candidati, non sono stato preso.
Ho optato allora per altri corsi, clarinetto e sassofono. Ho scelto il clarinetto per via di quella ragazza, riservandomi la possibilità di cambiarlo strada facendo… e, invece, l’ho portato a termine, amandolo e odiandolo al tempo stesso. Al contrario, il sassofono mi è piaciuto parecchio: mi ha dato le basi della musica, basi che adesso mi stanno tornando utili anche se faccio un genere musicale completamente diverso.
Al di là di quella ragazza, c’è stata un’altra figura femminile che si è rivelata determinante per il tuo amore per la musica: tua madre. Era durante i vostri viaggi in macchina, quand’eri bambino, che ti faceva ascoltare un po’ di tutto.
Mia madre ha plasmato i miei gusti musicali sin da quando ero piccolo. Grazie a lei, ho sempre ascoltato tanta musica e, soprattutto, tanti dischi di generi diversi. Mia madre aveva e ha un ottimo gusto musicale… nella mia vita ci sono state tante donne che hanno influenzato le scelto che ho preso.
Papà, invece, come ha preso oggi il tuo percorso musicale? Non era molto d’accordo con la tua scelta di provarci con il mondo della moda. E con la musica come è andata?
Papà mi è sempre stato di supporto in tutto ciò che ho fatto. In famiglia abbiamo un’educazione per cui bisogna essere autonomi e autosufficienti, non diamo mai nulla per scontato e siamo molto inquadrati mentalmente. Ma, al di là di tale logica, mio padre mi ha supportato parecchio, ascolta la musica che scrivo, ama i miei pezzi e mi chiede spesso quando potrà ascoltare nuova musica, interessandosi alle mie uscite e seguendo il mio lavoro pari passo.
Mentre mamma è oggi un’affermata fotografa dopo essere stata una super model, che lavoro fa tuo padre?
È un dentista, professore universitario. È l’unico in famiglia che non ha seguito le aspirazioni artistiche, anche se quando era giovane disegnava.
Un po’ come la tua bisnonna materna, affermata ritrattista…
Come fai a sapere anche questo? Lavori per caso per la CIA? (ride, ndr).
In un’intervista di qualche tempo fa, raccontavi che per te cantare è un po’ come andare dallo psicologo. Mi piace che tu attribuisca tale valore terapeutico alla musica.
Più che al cantare, attribuisco tale valenza alla registrazione, alla produzione e alla scrittura dei brani. Anche se non tutti possono capire, in alcune delle canzoni dico che cose che magari non avrei mai detto a nessun altro. Considero quello il mio spazio per sfogarmi: ho scritto negli anni centinaia e centinaia di brani, molti dei quali non usciranno mai proprio perché affronto questioni e temi molto personali: è il mio modo per scaricarmi di dosso e tirar fuori aspetti di me che mai rivelerei a qualcuno.
Dai brani che compongono Tempo, si evince come Federico Spinas sia un ragazzo che abbia una doppia anima. È come se esistesse un Federico di giorno e un Federico di notte.
Diciamo pure che vado a periodi. Ci sono fasi in cui sono più notturno, durante le quali mi piace far musica di notte, soprattutto quando sto da solo per molto tempo. Sono un po’ iper attivo e la notte è il momento in cui mi calmo, inizio a pensare di più e mi vengono le idee. E poi ci sono fasi in cui ho bisogno di godermi la mattina e di vivere il più possibile la giornata, stando all’esterno e a contatto con la natura. Dipende tutto dal mood.
E il mood è anche quello che ti porta a dire in Benedizione/Noia che il dolore ti fa sentire vivo?
A volte ho bisogno di stare scomodo, a disagio, per sentirmi vivo. I momenti negativi o i periodi difficili sono quelli che mi fanno tirare fuori i risultati migliori. Ad esempio, da dicembre sono tornato single dopo la fine di una relazione importante: è stato difficile e sono stato male ma ho trasformato tutto in canzoni.
Difficile è il contrario di Facile, titolo di un altro dei tuoi brani, l’unico brano dell’EP che sembra cantare d’amore in senso tout stretto. Racconta di una storia d’amore che poi tanto facile non era, nonostante si provasse a tenere “lo scheletro dentro l’armadio”.
Nel momento in cui si vive una relazione, stando anche da soli e in silenzio, non ci si deve preoccupare di niente. È bene lasciare gli scheletri dentro l’armadio proprio perché nelle relazioni, per quanto ci si possa amare, ci sono sempre delle difficoltà che emergono. La buona riuscita del rapporto dipende da come le si gestiscono: a volte, per andare avanti conviene non dare troppo peso agli scheletri. Se ci si ama realmente, lo si fa mentre, se l’amore viene a mancare, si cominciano a tirare fuori tutti quanti.
“Se cadi, ti rialzi” è una delle barre di Moon. Quante volte sei caduto e ti sei rialzato durante il tuo percorso di vita?
Cadere e rialzarmi è una costante: ogni giorno cado e ogni giorno mi rialzo. La vita, alla fine, è un po’ come un rollercoaster, è fatta di equilibri: più in alto vai, più ti fai male quando cadi. So da sempre che quando mi ritrovo a vivere un momento in cui metaforicamente tocco l’apice, il down sarà direttamente proporzionale. Quel down è il prezzo da pagare per ciò che di positivo mi è precedentemente accaduto. È dunque tutto una giostra della quale occorre trovare un equilibrio, uno spazio di tempo tra i due opposti.
Trovare uno spazio di tempo tra due opposti significa anche giocarsi bene le proprie chance. In Comeza/Tempo, sostieni di non potere sbagliare perché hai solo una chance. Beh, detto tra noi, a me sembra che tu ne abbia avuta qualcuna in più.
Beh, sì. Quella barra è un po’ metaforica e non si basa sul momento attuale. Fa più che altro riferimento all’attimo in cui ti rendi conto che ti è arrivata un’opportunità da non sprecare. Molte persone non se ne rendono neanche conto: stanno lì ad aspettare che arrivi qualcosa senza capire che quel qualcosa è già arrivato. È un po’ come ribadire l’urgenza di dare sempre il massimo in ogni cosa che si fa, soprattutto nelle proprie passioni, senza pensare al percorso degli altri. Nel mondo di stereotipi in cui viviamo, ci ritroviamo spesso a paragonare la nostra strada con quella degli altri senza realizzare quanto diverso sia il cammino di ognuno di noi.
Il carpe diem, il godersi il presente senza pensare troppo al futuro, è un concetto che ritorna fortissimo in Via di qua. Personalmente, sei riuscito a goderti il presente mentre lo vivevi?
Sto imparando a farlo negli ultimi anni. In passato, soprattutto quand’ero più piccolo, vivevo sempre proiettato al futuro. Accadeva anche con il lavoro che facevo nella moda: scatti oggi per campagne promozionali che usciranno dopo sei o otto mesi e ciò non fa che rimandarti a quello che verrà. Nel frattempo, però, accadono tante altre cose belle che non ti godi.
Con la musica, sto imparando a vivere senza pensare troppo a quello che sarà il risultato, ai numeri e a tutti gli altri diktat dell’industria discografica. Guardo semmai il presente: sto facendo quello che sognavo di fare da bambino, non pensando a quello che accadrà nei prossimi mesi.
Il tuo “senza badare ai numeri” fa inevitabilmente pensare ai tuoi numeri sui social. Solo su Instagram conti più di 100 mila followers: senti delle responsabilità sulle spalle nel comunicare a così tante persone?
Sui social ho sempre condiviso la mia vita e ciò che facevo per il piacere di farlo, interagendo con quasi tutti coloro che mi scrivono in privato. Rispondo all’80% dei DM: mi sfugge un 20% perché magari non lo vedo, lo dimentico perché impegnato in altro o si tratta di insulti a cui non vale la pena controbattere. Preferisco che la gente mi apprezzi per la persona che sono e non per il personaggio che “dovrei essere”. È chiaro che sento la responsabilità ma non sono né un professore né un educatore. Detto ciò, non penso di poter influenzare negativamente nessuno: sono nello squilibrio una persona abbastanza equilibrata.
Centomila persona sono sicuramente un numero enorme se rapportato a quanto sostieni in White Tee: “non posto foto con i friends, non ne ho mai avuti”.
Di amici, da ragazzino, ne avevo veramente pochi. Sono cresciuto a Cagliari: è la città più grande della Sardegna ma è pur sempre una città che con i suoi max 200 mila abitanti può definirsi “piccola”. E come tutte le piccole città è interessata dalle dinamiche dei gruppetti, da cui si può essere accolti o respinti. Non facevo di sicuro parte di quelli che chiamavano CCC, la Cagliari che conta, fatta di ragazzi che uscivano tutti insieme, si invitavano ai compleanni o partecipavano alle feste.
Avevo solo un miglior amico al liceo. Trascorrevo tutti i giorni in sua compagnia, a far musica e a praticare sport. Poi ho giocato anche a basket ma di amici stretti ne ho avuti veramente pochi: Antonio, il compagno del liceo, e qualcun altro con cui andavo a fare surf. Per il resto, non sono mai stato un ragazzino a cui importava la maniera in cui si vestiva o che cercava di uniformarsi agli altri. Il mio outfit di tutti i giorni era scarpe da ginnastica, jeans bucati (li bucavo costantemente!) e una maglietta a caso. Ero abbastanza “outsider”.
Poi quando ho cominciato a viaggiare e a fare il modello sono apparse tante persone. E quando compaiono le persone dopo è sempre importante ricordarsi chi c’era già da prima. Ma non per questo sono uno stronzo: sono abbastanza gentile con tutti.
Sull’essere Outsider ci hai anche scritto un’intera canzone.
È una parola a cui in verità attribuisco un valore positivo. In molti potrebbero interpretarlo come una lamentela, un pianto: per me, invece, è un punto di forza esserlo perché significa essere diversi, speciali e particolari a nostro modo. I ragazzi con cui lavoro in ambito musicale sono tutti simili a me da questo punto di vista: siamo cresciuti in posti diversi dell’Europa o comunque del mondo ma condividiamo il fatto di aver vissuto tutti un’infanzia simile.
Torno al testo di White Tee per un’ulteriore curiosità: quali porte non ti hanno aperto o ti hanno chiuso in faccia?
Chi vuole intraprendere una carriera nell’arte, nella moda, nella musica ma anche nell’80% di qualsiasi altro ambito lavorativo, si troverà davanti più porte chiuse che aperte. Ci si interfaccia con tante persone e ogni singola giornata è fatta di sì e di no… e solitamente sono più i no che i sì ricevuti. A me i no sono serviti a darmi ulteriore motivazione e spinta a far meglio. Con una frase da outsider, sostengo che c’è bisogno di porte chiuse nella vita per tirare fuori il lato migliore di se stessi.
Che a ribadire il valore delle porte chiuse sia tu assume anche maggior peso. Sei diventato un modello richiestissimo solo con i tuoi mezzi e senza far leva sul passato di tua madre. Addirittura, prima di partire per Milano, tuo padre ti aveva dato un ultimatum: “tre giorni e rientri a casa se non trovi nulla”.
Tre giorni che poi sono diventati due mesi… non è successo tutto così da un giorno all’altro. Sono del parere che occorre meritarsi di raggiungere un risultato senza far leva sui rapporti familiari: ho sempre odiato il nepotismo, non ha mai fatto per me. Prima dei famosi tre giorni e a proposito delle porte chiuse in faccia, ero già stato a Milano quando frequentavo il quarto anno di liceo e avevo firmato con un’altra agenzia che dopo due mesi mi aveva licenziato dicendomi in poche parole che non funzionavo e che avrei dovuto fare altro nella vita.
Ero rientrato ovviamente in Sardegna, ho finito il liceo e avevo in mente di iscrivermi a Economia per studiare Management. Ma, dopo il diploma, mi sono rasato i capelli a zero e ho messo l’apparecchio ai denti… e paradossalmente quello è stato il look che mi ha aperto le porte della moda.
E hai trovato quella stabilità che sempre in White Tee sostieni di non avere?
La sto ritrovando. Mi sto circondando di amici e di persone positive. Anche la relazione che si è chiusa a cui accennavo prima in realtà è stata super positiva: continuo a voler tanto bene a quella persona… ha giocato un ruolo super positivo nella mia vita e mi ha stimolato molto anche per quanto riguarda la musica. Non considero la fine del rapporto come un capitolo negativo della mia vita ma come una fase necessaria per poter adesso dedicare un periodo a me stesso e al mio futuro, anche se non so ancora quale sarà: sono una persona abbastanza lunatica.
Ribelle per indole. Lo sei ancora?
Totalmente. Ho sempre voluto sentirmi libero. Anche quando non sapevo cosa avrei fatto, l’unica cosa che ricercavo era la libertà.
Perché hai scelto per il tuo percorso musicale di chiamarti solo Spinas mettendo da parte il tuo cognome?
Innanzitutto, è pur sempre il mio cognome, ne vado fiero e mi piaceva portarmelo dietro in questo mio percorso… Ma c’è anche un altro aneddoto che non ho mai raccontato. Al liceo, giocavo a basket: i professori mi chiamavano Spinas solamente quando dovevano rimproverarmi per qualcosa, richiamarmi o rompermi le scatole. Ho dunque scelto il solo Spinas per ribaltare un po’ il ricordo e trasformarlo da negativo in positivo: da oggi quando mi chiameranno Spinas sarà soltanto perché ascoltano la mia musica o mi hanno scelto.