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Filippo Scarafia: “La mia necessità di ambire” – Intervista esclusiva

Filippo Scarafia
Filippo Scarafia, tra sfide interiori e successi, racconta il suo viaggio dall'amore per la recitazione nato ad Arezzo fino ai palcoscenici internazionali, tra "sì" indimenticabili e "no" che hanno forgiato la sua tenacia, rivelando il delicato equilibrio tra ambizione, autenticità e passione, che lo hanno reso l’uomo e l’attore di oggi.

Il percorso di Filippo Scarafia, attore aretino poliedrico e determinato, si snoda tra l’amore per l’arte, la disciplina sportiva e il continuo interrogarsi su cosa significhi davvero "essere". Fin da giovanissimo, Filippo Scarafia ha trovato una costante fonte di sfida e auto-esplorazione in ogni passo compiuto, dallo studio della recitazione alla competizione agonistica negli sport individuali, fino ai palcoscenici internazionali. La sua carriera si alimenta di uno sforzo costante nel bilanciare la fragilità e la determinazione, la ribellione e la disciplina, ingredienti che, uniti, compongono un’identità professionale e umana complessa.

In questa intervista esclusiva, Filippo Scarafia non parla solo di sé come attore, ma si racconta come uomo. Svela le sfide interiori affrontate per interpretare personaggi sfaccettati come Roberto Landi nella serie tv di Rai 1 Il Paradiso delle Signore, il conflitto di un’anima che cerca di rimanere fedele a sé stessa mentre naviga situazioni intime e complesse (come la relazione che vive con Mario in un’epoca per cui essere gay non era una passeggiata). Dietro ogni scena interpretata c'è uno sguardo attento, un’esplorazione dell'animo umano e delle sue contraddizioni, resa ancor più intensa dalla continua ricerca personale e dal rispetto per la propria storia e le esperienze vissute.

Attraverso un percorso fatto di “sì” e di “no”, di momenti di gloria e di pause forzate, Filippo Scarafia ha appreso il valore della perseveranza, dell’umiltà e della riflessione. New York ha rappresentato per lui un'esperienza di rinascita e consolidamento: come una città in cui le distanze si azzerano e le differenze si sfumano, la "Grande Mela" gli ha insegnato a guardare il mondo e sé stesso con nuovi occhi. E, ancora oggi, quel senso di sfida e curiosità anima la sua carriera e lo rende un interprete autentico e raffinato, pronto a rimettersi in gioco.

Attraverso questo dialogo con noi, Filippo Scarafia invita a guardare oltre il personaggio di Roberto Landi, per scoprire l’uomo che, dietro la macchina da presa, si interroga, cade e si rialza, in un viaggio dove non ci sono piani B, ma solo una profonda passione per il mestiere che ha scelto di intraprendere.

Filippo Scarafia (Press: Francesca Alfano per Aurora TV, gruppo Banijay).
Filippo Scarafia (Press: Francesca Alfano per Aurora TV, gruppo Banijay).

Intervista esclusiva a Filippo Scarafia

“Nell’arco di tutti questi anni in cui ho avuto la fortuna di interpretarlo Roberto Landi ne ha passate molte, soprattutto quando la serie andava in onda in prima serata”, risponde Filippo Scarafia quando gli si chiede quale parte del percorso e dell’evoluzione del personaggio che interpreta nel successo di Rai 1 Il Paradiso delle Signore sia stata più difficile da affrontare.

“Credo che per lui il momento più complicato sia stato quello in cui, sotto consiglio di un sacerdote, intravede come soluzione a ciò che riteneva un problema il fidanzamento con una ragazza. In quel caso, ho provato a immaginarmi cosa sentisse o pensasse, soprattutto quando abbiamo dovuto girare la scena in cui, esasperata dal suo costante allontanamento, lei prova a portarselo a letto”.

“Stava attraversando una sfida difficile non tanto con la società o con la fidanzata ma non se stesso”, continua Filippo Scarafia. “Mi sono chiesto quanto era disposto a cedere di sé pur di arrivare a una risoluzione. Fortunatamente, ha dato subito dei segnali per mostrare che non sarebbe mai sceso a certi compromessi. Lo reputo un punto di svolta chiave nella sua parabola: da quel frangente in poi, anteporrà sempre la felicità e il benessere altrui a qualsiasi altra cosa… avrebbe potuto approfittare della situazione ma, oltre che a soffrirne lui in prima persona, era consapevole di quanto ne avrebbe sofferto anche lei”.

In quella decisione Roberto si confronta con la sua identità, decidendo effettivamente da che parte stare. Filippo, invece, quando ha capito chi era e cosa voleva realmente essere?

Ho capito che volevo recitare relativamente molto presto. Ho avuto la fortuna di avere avuto due genitori che mi hanno in ogni caso aiutato o, perlomeno, stimolato nel perseguire tutto ciò che mi piaceva. In più, sono sempre stati entrambi appassionati di teatro, cinema, lettura e pittura: in qualche modo, l’arte ha sempre fatto parte di me, andavo con loro ad assistere agli spettacoli o a vedere un film.

Quando ho realizzato che ciò che si muoveva sul palco o sullo schermo era in realtà un lavoro e le domande sul mio futuro da grande diventavano insistenti anche da parte di amici e genitori, non ho avuto dubbi sulla strada da intraprendere: già nella mia testa volevo essere quei personaggi che immaginavo… ragione per cui ho cominciato a studiare recitazione da piccolo: avevo 11 o 12 anni.

Ma prima di quel momento ti eri dedicato a livello agonistico a diversi sport, tra cui anche la ginnastica acrobatica.

Lo sport per me è sempre stato importante, tant’è che ancora oggi lo pratico tutto i giorni. Lo trovo una forma di disciplina fondamentale da un punto di vista non soltanto puramente estetico (di cui mi importa fino a un certo punto) ma anche formativo: è una palestra che ci insegna che non tutti i giorni si è in forma, che ci sarà sempre qualcuno migliore di noi, che ci si deve allenare per ottenere un risultato e che quel risultato si può continuamente battere. È però una casualità che non abbia mai praticato attività sportive di squadra: non ho mai ad esempio giocato a pallone, forse non so nemmeno com’è fatto…

Tanto sport: che rapporto hai con il tuo corpo?

Vado abbastanza d’accordo con il mio aspetto fisico: non cambierei nulla né dei miei pregi né dei miei difetti. Lo sport mi ha permesso sicuramente di capire l’importanza che ha il corpo in generale ma non ne ho mai fatto una questione estetica.  Da quel punto di vista, ho sempre fatto quello che mi pareva senza preoccuparmi del giudizio altrui: al liceo, andavo vestito con i mocassini e la camicia, ad esempio, ma solo perché mi piaceva.

Filippo Scarafia nella serie di Rai 1 Il Paradiso delle Signore.
Filippo Scarafia nella serie di Rai 1 Il Paradiso delle Signore.

Sport e recitazione richiedono entrambi ambizione e necessità. Cosa significano per te le due parole e in che misura fanno parte di te?

Nell’ottica comune, le due parole tendono a essere usate con una connotazione negativa, soprattutto “ambizione”. Tutte le volte che la si pronuncia si pensa immediatamente a un contesto di competizione sporca quando, in realtà, una persona ambiziosa è semplicemente una persona che desidera il meglio per se stessa senza necessariamente andare a discapito degli altri. Credo che se non avessi avuto la necessità di ambire sempre a qualcosa di meglio mi sarei fermato tanto tempo fa quando nella mia carriera ho subito un’interruzione importante in ambito lavorativo…

Probabilmente, poiché mi reputo uno sportivo, era dettata dal non essere abbastanza in forma da garantire un certo tipo di risultato a chi avrebbe dovuto guardarmi, selezionarmi o scegliermi. Quel fermo ha portato il Filippo di dodici anni fa a porsi delle domande ma è stata la necessità di continuare a provare a fare questo lavoro che ha spinto la mia ambizione a non fermarsi e a non arrendersi.

Dove hai trovato le risposte alle domande che ti ponevi?

In quel periodo, le cose non andavano benissimo, nonostante avessi già fatto qualche lavoro come attore e ottenuto anche delle soddisfazioni personali che potevano suggerirmi di avercela in qualche modo fatta. Non sono un cocco di mamma e papà ma anche in quel caso sono stati i miei genitori a rivelarsi fondamentali, spingendomi a prendermi un periodo di pausa e a sfruttarlo per “arricchirmi di testa”. E sono sempre stati loro a consigliarmi di andare via per non soffrire il confronto con gli altri, con quegli amici che vedevo crescere, studiare, affermarsi professionalmente o permettersi la prima macchina o il viaggio con la fidanzata mentre io non potevo proprio perché non lavoravo.

Qualcosa dovevo fare… e l’ho fatta. Sono partito per New York, dove ho cominciato a lavorare come cameriere in ristoranti e locali, a conoscere persone e a migliorare ancora di più l’inglese. È vero che viaggiare ti apre inevitabilmente la testa ma New York te la spacca, mettendoti in contatto con numerose realtà e permettendoti di abbattere determinare barriere che tu stesso hai contribuito a costruire negli anni quando vieni da una città di provincia come Arezzo.

Da quell’esperienza, sono rientrato in Italia affamato, tanto che ho ricominciato a lavorare quasi subito: avevo realizzato che era l’attore che volevo fare e che per me non c’erano altre strade. Il mio piano B era diventato far funzionare il piano A, concentrando tutte le mie energie in un’unica direzione.

Nel lasciare Arezzo per New York quali sono state le difficoltà da superare?

A onore del vero, ho viaggiato con un mio amico molto più grande di me. la fortuna ha però voluto che lui non uscisse quasi mai di casa e che io fossi costretto a costruirmi tutta una rete di amicizie e di contatti di cui avrei fatto a meno se fosse stato costantemente al mio fianco… la sua assenza mi costringeva a fare amicizia.

Provenivo da una città in cui tutti non avevo bisogno di dire chi ero: a New York, invece, era necessario che mi mostrassi per quello che ero e per quello che potevo fare. I miei erano stati molto chiari, non avrei vissuto lì da figlio di papà ma avrei dovuto mantenermi da solo. La prima grande sfida era dunque provare a cavarsela da solo in un mondo in cui ero uno dei tanti. Ho allora cominciato la mia ricerca di un lavoro e il primo colloquio rimediato è stato per la posizione di cameriere in un ristorante, un’occupazione che ha salvato la vita di tantissimi artisti: è sempre vero che la ristorazione, grazie a Dio, salva tutti anche in periodi di crisi!

Chiaramente era un lavoro che non avevo mai fatto: non sapevo nemmeno da dove cominciare, non ero in grado di far nulla ma ho mentito, vantando una solida esperienza alle spalle. I gestori avevano capito ma forse hanno voluto premiare la mia audacia e capire di che pasta fossi fatto. Mi hanno messo alla prova (anche duramente), l’ho superata e pian piano mi sono ritrovato con le chiavi in mano del locale e a gestire io stesso il personale.

Dal racconto americano emergono tempra e responsabilità. C’è stato mai un momento in cui ti sei chiesto chi te l’avesse fatto fare?

No. Ho un passato da grande lettore ed estimatore dei manga giapponesi: mi hanno insegnato che nessuno si salva da solo, nemmeno l’eroe che, per quanto forte, ha sempre bisogno di una squadra per essere invincibile. Di mio, avevo sempre avuto un gruppo molto solido di amici su cui contare e, una volta a New York da solo, ho subito sentito l’esigenza di sopperire alla loro mancanza creandomene di nuovi. È stato così che ho scoperto come le persone, se prese in una determinata maniera, siano disposte ad aiutarti e a darti una mano.

A 21 anni, a 8000 km di distanza da casa, da qualche parte nei momenti di difficoltà dovevo pur aggrapparmi. E, nel conoscere gente che proveniva da ogni parte del mondo e con problemi maggiori dei miei, non potevo permettermi io di pensare di essere in difficoltà quando accanto avevo chi faceva il mio stesso lavoro per mandare tre quarti del suo stipendio ai familiari in Polonia: in quel caso, ti vergogni quasi anche a lamentarti… c’era solo da tirarsi su le maniche e andare avanti, anche in una città che di suo non ti regala nulla.

Il Paradiso delle Signore: Roberto Landi - Filippo Scarafia

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Messo alla prova, dicevi prima, come in una sorta di rito di iniziazione… un’espressione che, essendoti diplomato in un liceo socio-pedagogico, dovresti conoscere bene.

Ne ho fatti diversi di licei: mia madre ci tiene molto a sottolineare che li ho frequentati quasi tutti prima di prendere finalmente uno straccio di diploma. E questo perché studiare non era il mio forte: ero una capra cosmica, non aprivo libro perché ero un vagabondo e impegnavo tutto il tempo a disposizione per capire come non fare niente. Se avessi dedicato anche un solo secondo di quel tempo a studiare, probabilmente mi sarei diplomato anche con un anno di anticipo anziché essere anche bocciato! Da adolescente ero abbastanza agitato… mi sono calmato dopo, anche se alla fine un po’ di quell’indole rimane.

Ti ha aiutato la recitazione a canalizzare la tua forma di ribellione?

Tanto, anche perché è stato proprio durante il liceo che si sono concretizzati i miei primi spettacoli. Avevo trovato il mio link: mentre stavo una giornata intera su un libro di storia senza combinarci nulla, in venti minuti potevo leggere una sceneggiatura e saperla. Evidentemente, era quello ciò che mi interessava veramente in quel momento… è stato solo con il tempo che ho poi ripreso a studiare con la consapevolezza che mi interessava anche altro ma allora non lo avevo ancora realizzato.

Cosa hai pensato la prima volta che ti sei trovato davanti a un pubblico che applaudiva per una tua performance?

Ricordo vagamente quale fosse lo spettacolo, si trattava però di qualcosa di molto serio. So però qual è stata l’unica cosa che ho pensato: “Quando si ricomincia?”. Non era tanto il feedback a contare ma il desiderio di rivivere le emozioni provate mentre recitavo e raccontavo una storia a qualcuno che decideva di omaggiarla con un applauso.

Dopo il teatro, è arrivato il cinema: vieni scelto da Emanuele Crialese per il suo Terraferma. Cosa hai provato di fronte a quel “sì” di un certo peso?

È stato il primo provino sostenuto nella mia carriera da professionista: tutto ciò che avevo portato in scena a teatro fino a quel momento proveniva dalla compagnia che frequentavo ad Arezzo, per cui non avevo bisogno di sottopormi a una selezione per prender parte agli spettacoli.

Ero stato escluso dal Centro Sperimentale di Cinematografia  a Roma e avevo trovato da solo un’agente molto giovane che credeva in me: era anche lei quasi alle prime armi e aveva deciso di investire sulle mie potenzialità. Di mio, non sapevo nemmeno come affrontare un provino, anche perché nessuno me lo aveva insegnato.

In quel caso, il provino consisteva in un’improvvisazione tra due attori. Andò bene, mi richiamarono per un callback (di cosa parlassero non avevo idea) e infine per un terzo incontro a Palermo. Dopo qualche giorno, però, mi chiamò il ragazzo che era stato provinato prima di me per dirmi che era stato scelto per il film: era Pierpaolo Spollon, a cui d’istinto feci i miei complimenti prima di realizzare che, avendo scelto lui, non avevano preso me.

Fortunatamente, dopo aver chiuso con lui, mi telefonò la mia agente per dirmi che anch’io avrei girato Terraferma: ero piaciuto talmente tanto che avevano esteso il ruolo a due amici e preso entrambi.

Di sicuro, è stata una delle notizie più incredibili ricevute in vita mia: rifiutato al CSC, avevo ottenuto il mio primo ruolo al primo tentativo! Avevo 19 anni, chiamai i miei e dissi loro che dall’indomani potevano chiamarmi “Marco”: impiegarono qualche minuto prima di capire cosa fosse successo.

In quel caso, è stato un “sì” ma come reagisci di fronte a un “no”?

Malissimo. È a fine giornata mi dico che il no non è alla persona ma solo per convincermi che non è stata colpa mia: la prendo così male che spesso non guardo neanche il progetto per cui sono stato rifiutato. E ciò vuol dire che spesso non guardo la televisione: non riesco a nascondermi dietro la bugia dell’ho imparato che il no non è a me. Penso anche di provare una certa invidia verso quei colleghi che riescono a prendere dei ruoli con una facilità che io non ho… ma è un’invidia sana, competitiva, sportiva, genuina: non porto certo rancore nei confronti di Cristiano Caccamo, Pierpaolo Spollon o Andrea Arcangeli, con cui ho cominciato quasi insieme.

Ma ciò non nasce dal pretendere troppo da se stessi?

Quando si fa un lavoro che si è sempre desiderato, non credo ci sia un limite all’aspirazione o al desiderare troppo per se stessi. Di fronte a un “no”, sarebbe troppo facile dirmi che non ero adatto io: preferisco pensare che avrei dovuto impegnarmi di più per rendere più mio il provino per qualcosa che avrei voluto fare a tutti i costi.

Però un “sì” che non si ha tutti i giorni lo hai portato a casa: quello di Terrence Malick, uno dei più importanti registi al mondo, per il suo ultimo film di prossima uscita su vari episodi della vita di Gesù Cristo, The Way of the Wind.

Uno dei provini che ho sostenuto con maggiore scioltezza finora… si trattava di un self-tape fatto senza alcuna aspettativa per cui ho anche faticato a realizzare di essere stato preso. L’ho forse fatto il primo giorno sul set quando Malick mi ha chiamato per darmi le indicazioni di scena: parlava ma nella mia testa continuavo a pensare che mi aveva chiamato per nome proprio come aveva fatto con Brad Pitt, Cate Blanchett o Colin Farrell in passato. Ero talmente impegnato con i miei pensieri da non sentire nemmeno cosa mi aveva spiegato.

Ovviamente, non avevo capito nulla, tanto che neanche dopo venti secondi di scena è arrivato lo stop. Pensavo che mi avrebbero rispedito a casa ma Malick si è riavvicinato, mi ha rispiegato la scena e ha concluso dicendo “Sei un attore, fallo”. È stato come un “tira in porta e segna”: non potevo sbagliare.

A dimostrazione che non esistono attori di serie A e attori da soap…

La soap e l’impegno quotidiano che richiede equivalgono a un ring in cui sali: devi sempre tenere la guardia alta per garantire un certo risultato. È incredibile ciò che l’esperienza ti restituisce: ti ritrovi ad avere una tecnica da spavento grazie a cui conosci perfettamente quali sono i tempi di alzata di un personaggio, sai dove sono le luci e impari come si muove quella macchina da presa con cui diventi quasi un tutt’uno.

Filippo Scarafia.
Filippo Scarafia.

Ti sei mai chiesto perché Il Paradiso delle Signore piace così tanto al pubblico da battere periodicamente la concorrenza?

In primis, credo che arrivi a casa l’impegno che ci mettiamo tutti quanti nel realizzarla mettendo tutto ciò è nelle nostre capacità dentro ogni scena. Non mi riferiscono solo agli attori ma anche ai registi, agli sceneggiatori, ai costumisti, ai tecnici… il “non ti preoccupare se questo non è venuto bene” non rientra tra le ipotesi.

E, poi, perché fondamentalmente raccontiamo un periodo storico che è molto bello e affascinante. A me piace che il grande magazzino al centro delle vicende sia come un microcosmo nostrano, un’Italia in miniatura in cui è possibile rispecchiarsi. È come se raccontassimo un’Italia chiusa tra quattro pareti, un’opportunità incredibile aiutata da sceneggiature verticali che fanno sì che ogni giorno corrisponda a un giorno effettivo.

Al di là delle linee romantiche, raccontiamo la storia dell’Italia mettendo in atto anche un processo di riconoscimento per cui chiunque può ritrovarsi e rispecchiarsi in qualcosa o prenderne le distanze.

In quale lato del tuo Riccardo non ti riconosci?

Nella vita di tutti i giorni, non ho filtri: se devo dire qualcosa, la dico assumendomi anche il peso delle conseguenze. Citando 007, prima sparo e poi faccio domande… Landi né spara né pone domande: invidio il suo essere un pensatore incredibile. È sicuramente poco impulsivo e ragiona per vari episodi su tutto ciò che ha a che fare con i rapporti personali mentre in campo professionale è più che skillato!

Come vivi il successo?

L’essere riconosciuto è ovviamente piacevole perché, comunque, è indice di apprezzamento nei confronti di ciò che fai: se ti fermano per strada è perché hai comunicato qualcosa alle persone e queste hanno piacere a parlare con te. Ma sono sempre rimasto con i piedi per terra e di ciò devo ringraziare i miei amici aretini: quando una ragazza mi ferma per una foto e mi ringrazia, mi prendono costantemente in giro… per loro, sono io che avrei dovuto ringraziarla per aver fatto una foto con lei!

Filippo Scarafia.
Filippo Scarafia.
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