“La vivo con la giusta dose di ansia ma con molta felicità”, risponde Filippo Tirabassi quando gli si chiede come viva l’attesa dell’arrivo nelle sale di Amici per caso, il film di cui è protagonista insieme a Filippo Contri. "Siamo molto soddisfatti del risultato e, di conseguenza, aspettiamo l’uscita con molta eccitazione."
Amici per caso, diretto da Max Nardari e distribuito da Adler Entertainment, è una commedia che esplora le dinamiche tra due coinquilini molto diversi: Pietro, un giovane omofobo interpretato da Filippo Contri, e Omero, un ragazzo gay riservato e raffinato interpretato da Filippo Tirabassi. Il film affronta temi importanti come l'inclusività e la diversità, con un tono leggero e divertente, portando il pubblico a riflettere sulle possibilità di amicizia e crescita personale che possono nascere dalla convivenza forzata tra persone con visioni del mondo opposte.
Nel corso dell'intervista, Filippo Tirabassi ci offre una visione profonda del suo personaggio, Omero. Descrivendolo come una persona riservata e abituata a un certo tipo di educazione, Tirabassi sottolinea le differenze fondamentali tra Omero e Pietro, che sono cresciuti in contesti molto diversi. Queste differenze, però, diventano il terreno fertile per una serie di situazioni comiche che evidenziano i contrasti tra i due personaggi, rendendo la commedia ancora più avvincente.
Quando gli si chiede se è stato complicato calarsi nei panni di un ragazzo omosessuale, Filippo Tirabassi risponde con grande sincerità. “In tutta onestà, no. Ho approcciato il personaggio di Omero come farei con qualsiasi altro, cercando di evitare stereotipi o cliché”, afferma, spiegando che, insieme al regista Max Nardari, ha lavorato per rendere Omero un personaggio tridimensionale e autentico, non definito solo dal suo orientamento sessuale.
L'intervista prosegue esplorando il rapporto di Filippo Tirabassi con il collega Filippo Contri, con cui ha sviluppato una forte amicizia anche fuori dal set, e con Rocco Fasano, che interpreta il fidanzato di Omero nel film. Tirabassi racconta come la sintonia con i suoi colleghi abbia contribuito a creare un ambiente di lavoro positivo e collaborativo, fondamentale per le scene più delicate del film.
Filippo Tirabassi parla anche del rapporto con i suoi genitori, in particolare con il padre, l'attore Giorgio Tirabassi, e di come questo abbia influenzato la sua carriera. “Senza ombra di dubbio, sì”, dice riferendosi all'influenza del padre sulla sua scelta di intraprendere la carriera di attore, ricordando con affetto il suo primo esordio sul palco a otto anni. Nonostante il peso del confronto con una figura così nota, Filippo spiega di non aver mai vissuto negativamente questa eredità, ma anzi di aver trovato supporto e ispirazione.
Amici per caso rappresenta per Filippo Tirabassi un importante passo nella sua carriera, un'opportunità per dimostrare la sua versatilità come attore e per esplorare temi sociali rilevanti con sensibilità e umorismo. In attesa di rivederlo presto in La casa degli sguardi, primo film diretto da Luca Zingaretti.
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Intervista esclusiva a Filippo Tirabassi
Chi è Omero, il personaggio che interpreti, dal tuo punto di vista?
Omero è una persona riservata, un ragazzo di buona famiglia che è abituato a un certo tipo di educazione. Ha le sue abitudini ed è dal suo modo di essere che scattano le differenze con Pietro, il giovane a cui ha affitta una stanza della sua casa: sono cresciuti in due mondi totalmente diversi.
…e con uno sguardo all’inclusività sicuramente differente.
Al di là degli orientamenti sessuali e delle questioni sentimentali che vivono, tra Pietro e Omero a generare maggiore distanza è la maniera diversa con cui stanno al mondo. La commedia esaspera situazioni che sottolineano come abbiano un approccio contrastante alla vita.
A proposito di orientamento sessuale, è stato per te complicato calarti nei panni del ragazzo omosessuale o pensare di nutrire sentimenti nei confronti di un altro uomo?
In tutta onestà, no. Ho approcciato il personaggio di Omero come farei con qualsiasi altro, cercando di evitare stereotipi o cliché. D’accordo con il regista Max Nardari, nessuno di noi ha mai pensato di dover rendere l’orientamento sessuale ciò che definiva Omero, un ragazzo che, come tanti altri, ha le sue difficoltà. In generale, sul set ci siamo divertiti perché eravamo tutti molto liberi di far quello che volevamo.
E la tua risposta sottolinea quanto per un attore sia comunque stimolante calarsi nei panni dell’altro da sé.
Più un personaggio è lontano da te, più ci si diverte nell’interpretarlo, cercando i punti di contatto o di lontananza da te stesso. Con Filippo Contri, ad esempio, ci siamo resi conto di quanto, pur non volendo, i nostri due personaggi ci somigliassero: mi sono ritrovato ad esempio nella riservatezza e nell’educazione di Omero. Ma tifo Roma, a differenza del mio personaggio!
Com’è stato lavorare con Contri e con Rocco Fasano, che impersona il fidanzato di Omero?
Con Filippo siamo diventati amici abbastanza presto: sono bastate due ore insieme per far nascere un bel legame. Con Rocco mi sono trovato benissimo: è sempre un piacere lavorare con attori bravi come lui. Insieme, avevamo anche delle scene non difficili ma delicate da girare in cui dovevamo essere anche affettuosi, e quindi era importante che si fosse della sintonia.
Il tuo Omero ha una mamma molto particolare, interpretata da Marina Suma. Il rapporto con un genitore come lei “invasivo” è qualcosa che in qualche modo ti appartiene: tuo padre, Giorgio, è un attore molto noto e amato. Hai dovuto in qualche modo distanziarti da lui per affermare chi eri?
Per fortuna, rispetto a Omero, ho un bellissimo rapporto con i miei genitori. Per quanto riguarda mio padre, non so se ho preso le distanze da lui o se lo sto realmente facendo: più volte, abbiamo “rischiato” di far qualcosa insieme ma, per una ragione o per un’altra, non è ancora successo. Non credo però che cercherò di allontanarmi da papà, anzi… mi piacerebbe un giorno lavorarci assieme.
Ti è pesato l’essere il figlio di Giorgio Tirabassi?
Mai. Anche se, quando sono stato preso al Centro Sperimentale di Cinematografia, per un periodo ho pensato che potesse causarmi un po’ di problemi. Quando poi negli anni successivi, ho avuto le mie rassicurazioni, ho smesso di sentirne il peso. E, comunque, la risposta rimane no perché papà è sempre stato il primo a vivere la sua popolarità, anche quando è esplosa con la serie tv Distretto di polizia, in maniera giusta e sana.
Ha influito il suo essere un attore a portarti verso la recitazione?
Senza ombra di dubbio, sì. Avevo otto anni quando mi ha fatto esordire con lui su un palco durante uno spettacolo a Oslo, con una particina al cospetto dell’ambasciatore italiano. Lo reputo un po’ il responsabile del mio amore verso il cinema e il teatro.
Amici per caso: Le foto del film
1 / 24Cosa hai provato la prima volta che hai recitato?
A otto anni l’ho vissuta come un gioco: l’emozione non è stata paragonabile a quella che ho provato quando ho poi scelto di fare questo lavoro. Ragione per cui considero la mia prima professionale quella al Teatro dell’Orologio nel 2011, qualcosa che ricordo come un’esperienza fortissima, un misto tra terrore ed emozione.
Paura di sbagliare o della reazione del pubblico?
Di tutto: di sbagliare, del pubblico o dell’imprevisto. In quei casi, cominci a pensare a tutto quello che può andare male o per il verso sbagliato, anche che ti possa cascare, nella peggiore delle ipotesi, una trave in testa.
Vale anche per la prima volta in cui si accende la luce della macchina da presa?
Avevo 13 anni quando sempre papà mi ha fatto debuttare in televisione con un piccolo ruolo in Distretto. Ero sì emozionato ma anche in questo caso ho dovuto attendere il primo set da professionista per capire cosa significasse. Ed è arrivato con l’opera seconda di Laura Morante, Assolo, in cui interpretavo suo figlio. Ricordo ancora la scena di dialogo in cui eravamo io e lei seduti a tavola: due pagine di copione. Appena uscito dal CSC, ero più che carico.
Nessuna ansia in quel caso?
Anche. Ma molte erano assopite dagli anni di studio. Il CSC può avere anche tanti difetti ma ti insegna cosa vuol dire interpretare un ruolo, cos’è un set e quali sono le dinamiche in atto. Quindi, quando poi arrivi sul set, conoscendo già cosa ti aspetta, hai un grande vantaggio rispetto a chi viene distratto da ciò che non conosce.
Provenendo da una famiglia che poteva in qualche modo darti una mano, perché hai scelto di studiare al CSC?
Perché senza lo studio è difficile concludere qualunque cosa nella vita. Già prima del CSC, avevo studiato regia a Londra, dove sono stato quasi due anni. Il cinema mi ha sempre interessato e volevo una formazione che mi permettesse di affrontare quello che per altri è un lavoro “strano e pericoloso” con la giusta formazione. Sono convinto che non basti semplicemente aver voglia di lavorare per affermarsi.
Perché Londra? Come ti sentivi da romano in Inghilterra?
Londra perché volevo anche suonare il basso: mi sembrava la città giusta almeno per provarci. Quei due anni sono stati abbastanza impegnativi: non trovando una dimensione professionale, è difficile sopravvivere da quelle parti. Dopo un po’ mi sono anche mancati il sole, le persone che sorridevano e un certo modo di vivere le relazioni e il quotidiano. La sofferenza quindi mi ha spinto a tornare… e, nonostante avessi potuto cominciare un percorso di assistente alla regia su dei set, ho preferito iscrivermi al CSC.
Hai poi smesso di suonare?
Suono ancora, anche se a livello amatoriale. Faccio parte di un quartetto jazz, suono il contrabbasso e ci vediamo settimanalmente. Un po’ come per tanti il calcetto è impegno fisso della settimana da tanti anni.
Essere un attore significa anche confrontarsi con se stessi. Cosa ti ha permesso la recitazione di capire o scoprire di te stesso?
La recitazione è un lavoro che ti mette di fronte a te stesso per un numero infinito di motivi. Hai comunque a che fare con la tua immagini ma anche con quello che rappresenti agli occhi degli altri o con l’idea che gli altri si fanno sul tuo conto. E ciò rischia di essere molto pericoloso, soprattutto durante gli anni di studio quando sei chiamato a metterti molto in discussione anche su aspetti microscopici che normalmente non staresti nemmeno a guardare. E devi risolvere subito ciò che percepito come un difetto accentandoti per come sei e fidandoti di te stesso, altrimenti il tutto diventa complicato.
E in che relazione sei oggi ad esempio con il tuo corpo?
In ottima relazione. Sono molto sereno e non ho mai avuto problemi legati alla mia fisicità. È chiaro che, senza essere ossessivo, tengo alla mia forma fisica e cerco di prendermene cura in maniera sana, senza minare la mia salute mentale.
Quand’è stata la prima volta che guardandoti allo specchio ti sei detto “sono un attore”?
Non so identificare un momento specifico in cui è avvenuto. Forse è stato un giorno al CSC, in cui comunque si passa dal nulla all’improvvisazione di un lavoro. Oppure sul set del film di Laura Morante: prima del ciak, mi sudavano persino le mani per l’emozione: “ecco, ci siamo”.
E quando l’hai fatto scrivere sulla carta di identità?
Non c’è scritto, non l’ho ancora fatto. L’unica volta in cui avrei potuto farlo è stato durante un colloquio in banca ma anche in quella circostanza non è stato possibile farlo scrivere: mi avevano chiesto la professione ma non risultava tra quelle nel loro database. Ho dovuto far mettere “fotografo” perché era il mestiere più prossimo. Segno di quanto spesso il lavoro di attore sia molto poco riconosciuto.
…poco riconosciuto, soprattutto se sei giovane e non sei ancora quello che viene definito un “nome”. Ti sei mai sentito dire “no” a un provino solo perché non eri ritenuto tale.
Personalmente, non mi è mai stato detto apertamente ma sono comunque ragionamenti che vengono fatti. Non tanto oggi sul “nome” ma sul numero di followers che hai sui social, mezzi che oggi uso più in maniera lavorativa che personale. Non uso più un profilo Facebook e mi hanno quasi “costretto” ad aprirne uno Instagram, che non ho quasi mai l’istinto di aprire.
Dai sicuramente più valore sociale alla recitazione…
Ci credo molto. Cinema e teatro sono alcuni degli strumenti più potenti che ci siano al mondo per esprimere molto di ciò che ci circonda. Da attore, faccio un lavoro stupendo di cui sono contento anche quando non sono sul set o su un palcoscenico.
Come si digeriscono i “no”?
Digerendoli, appunto (ride, ndr). Di fronte a un “no”, ci sono situazioni in cui cerchi di capire il perché e le motivazioni per cui non sei stato il “sì” e altre in cui ci si risponde semplicemente “ok”. Anche perché il nostro lavoro è per il 99% un “no”, per cui occorre anche imparare a farseli andare bene.
Quand’eri bambino o adolescente, ti riconoscevi o ti sentivi raccontato da quello che vedevi o guardavi?
Ero un bambino atipico: a sei anni guardavo già film di guerra come Il giorno più lungo, un tipo di cinema che mi affascinava. Da adolescente, invece, ho cominciato a ricercare quei prodotti che potessero raccontare la mia generazione, da Stand by Me a I Goonies, mettendo in atto quei meccanismi di sostituzione che fornivano risposte anche ai miei problemi.
Che problemi aveva Filippo Tirabassi da bambino?
Il principale era rappresentato dal mio balbettare, un problema di cui non ho mai capito l’origine e che con il tempo ho risolto. Sono cresciuto in un contesto molto sereno tra famiglia e scuola, ma per finire una frase ci mettevo anche un quarto d’ora. È durato fino a quando all’incirca undici anni ma poi, forse complice la logopedia, è andato via da solo.
Ti faceva sentire diverso in qualche modo?
No, più che altro mi faceva arrabbiare molto perché perdevo tutti i tempi di entrata in una conversazione. Mi creava molta frustrazione ma mi sentivo come tutti gli altri, nonostante il problema. Per fortuna, ho fatto parte di una classe alle elementari molto unita per cui non ho sofferto di atti di bullismo. Curiosamente, non ero il solo a balbettare: anche un altro compagno aveva lo stesso problema. Quando capitava che andassimo a dormire uno a casa dell’altro, ci mettevamo anche due ore solo per dirci “buonanotte” (ride, ndr)!
A oggi hai lavorato con alcuni dei nomi più interessanti del panorama italiano: Gabriele Muccino, Laura Morante, Francesca Archibugi, Walter Veltroni e presto Luca Zingaretti. Cosa ti restituisce il loro credere nelle tue potenzialità?
Rafforza l’idea che posso continuare a fare questo lavoro. Soprattutto, nei momenti in cui passano settimane, mesi o anni, in cui non arriva niente… il mettere insieme questi piccoli traguardi, mi permette di acquisire maggiore tranquillità per il futuro.
Hai mai considerato un piano B?
Ancora no. Chiaramente, come speculazione mentale, sì. Ma non a livello pratico e concreto. Nei periodi di lunga attesa, comincio a pensare che non posso trascorrere tutta la vita ad aspettare e che forse potrei provare a scrivere per il teatro o per dei cortometraggi.
Se stessi in questo momento facendo un self-tape per convincere un regista a sceglierti, quale sarebbe il valore aggiunto che apporteresti?
La spontaneità, il giocarsela tutta senza cercare sovrastrutture che non mi appartengono. Per me, è importante essere veri e provare a presentarsi per quello che si è.
E chi è Filippo?
Un ragazzo che prova a far l’attore al meglio, che sorride, che coltiva degli interessi anche al fuori di cinema e teatro, che ha una relazione di cui è contento e che sta attraversando una bella fase della sua vita.