Come tutti coloro che usano i social, da Instagram a TikTok, vi sarete di certo imbattuti in Fjona Cakalli e nella sua incontenibile verve mentre vi parla di automobili, prodotti tecnologici o film. Del resto, è impossibile non riconoscerla: ha iniziato prestissimo a cimentarsi in argomenti considerati per stereotipo “maschili”. È stata ad esempio la prima ragazza in Italia ad aprire un blog che parlava di videogiochi: si chiamava Games Princess e lei era davvero la principessa dei videogiochi. Solo che, a differenza di coloro che venivano salvate da un principe o da Super Mario, Fjona Cakalli se la cavava benissimo da sola.
Da allora, di anni ne sono passati. E Fjona Cakalli non si è mai fermata. Dopo i videogiochi, è arrivata la tecnologia e poi ancora è stato il turno delle automobili. Tutti argomenti che, per l’hater di turno, non sono tipici da donna, come se una donna eterosessuale cisgender non possa nutrire passioni che vanno al di là delle Barbie o dei trucchi.
Basta già questa premessa per capire perché abbiamo voluto incontrare Fjona Cakalli e conoscere la sua storia, sin da quando da piccola ha lasciato con i genitori l’Albania per arrivare in Italia, quella terra dove per molti anni si è sentita come sospesa a metà. Oggi Fjona Cakalli è una delle automotive influencer più note d’Italia: proprio a giugno è risultata da una classifica di TikTok come una dei tre content creator che, su tutti, sta contribuendo a far crescere la community auto sulla piattaforma. Ma non solo: anche Facebook e Instagram (per non parlare di YouTube) la danno tra i primi dieci nomi più influenti del settore in Italia.
Fjona Cakalli è anche una giovane ragazza che, con passione e dedizione, ha inseguito il suo sogno senza mollarlo mai, confrontandosi tutti i giorni con centinaia di migliaia di follower che lei ama definire “community”, per via dello scambio continuo che ha a con loro. Ma è anche una donna, una reporter e presentatrice, moderna e contemporanea molto attenta alla sua salute mentale, dopo anni in cui ha faticato a trovare un equilibrio nel rapporto con il suo corpo.
Intervista esclusiva a Fjona Cakalli
“Il primo rappresenta la life bar di Zelda, il mio videogioco preferito”, mi risponde Fjona Cakalli quando le chiedo dei due tatuaggi che vedo durante la nostra intervista in esclusiva. “Sono quattro cuori, tre riempiti per intero e uno per metà: mi ricorda che non sempre siamo al 100%. Il secondo, invece, è un origami, simbolo della mia passione per il Giappone. Ma ce n’è un terzo dietro la mia nuca: una toppa. Abbiamo perso però la chiave, non so come si entra dentro, dove c’è un casino che vorrei sistemare”.
Sei quella che si definisce un automotive influencer. E le classifiche dei tre più importanti social network – Instagram, TikTok e Facebook – ci dicono anche come tu sia l’unica donna tra i primi dieci top automotive influencer. Com’è per te da donna muoverti in un settore che è per definizione maschile?
Ho imparato a combattere gli stereotipi sin da quando ero bambina. Per dare una risposta, devo partire da diverso tempo fa, da quando ero una bambina. I miei genitori erano i primi ballerini dell’Opera di Tirana e per me era normale vedere un uomo che praticava danza. Quando siamo arrivati in Italia, mio padre ha cominciato a insegnare ma nessuno portava i bambini o i ragazzini a far danza perché questa veniva ritenuta una disciplina da femminuccia. Mio padre si è sempre stupito del pregiudizio e ha provato a combatterlo: perché un bambino non può scegliere danza? Qual è la ragione per cui deve per forza praticare calcio?
Accadeva venticinque anni fa ma è allora che ho imparato la più grande delle lezioni: se qualcosa ti fa star bene, falla e fregatene dei giudizi altrui. Una lezione che ho fatto mia quando ho scoperto che mi piacevano i videogiochi. Per me non erano una roba né da uomini né da donne. Mi piacevano e basta: solo dopo ho realizzato che venivano considerati da maschi e ho capito perché nessuna delle mie compagnette a scuola ci giocava. Non ne aveva idea nemmeno mio padre quando mi ha regalato il primo: lo aveva fatto semplicemente per divertirsi in famiglia.
È stato allora che ho realizzato di non amare gli schemi prestabiliti: mi piaceva muovermi tra le “anomalie”. Mi divertivo per certi versi anche a stupire gli altri e a rompere le loro convinzioni: si aspettavano da me che fossi in un determinato modo e poi ero sia quello sia altro. Dopo i videogiochi, è arrivata la passione per la tecnologia e oggi anche quella per le macchine: non mi sono mai state indotte da nessuno, mi affascinavano di mio. Ricordo, ad esempio, come viaggiassi tanto in automobile con i miei e di come mi attaccassi al finestrino per guardare tutte le macchine che passavano.
La passione per le automobili è nata un po’ per sfida. Il piacere dell’infanzia nell’osservarle mi ha portata inconsciamente a esplorarne il mondo da sola. Essere oggi in quelle classifiche è un motivo di orgoglio per me: è sinonimo di quanto io non sia abituata a seguire degli schemi. Seguo solo quello che mi piace fare, imparando a non aver più paura di sbagliare. Ed è qualcosa che il pubblico percepisce.
Rompendo anche quello stereotipo patriarcale e maschilista per cui “donne e motori, gioie e dolori”…
I commenti maschilisti sui vari social sono ancora all’ordine del giorno: “ma perché non vai a farti le unghie?”, “che ci fai qui?”. Non capisco che problemi hanno: posso anche andare a farmi le unghie ma nulla mi vieta di continuare a fare ciò che voglio. Mi si chiede spesso perché danno a me certe macchine da guidare o chi sia io per farlo e parlarne: “perché non dovrei?”, mi chiedo.
Ho sviluppato negli anni una mia credibilità e a volte capita che risponda. Non tanto per me, non mi tocca più di tanto, ma lo faccio per le altre ragazze che magari si cimentano in qualcosa anche di piccolo trovando a combattere ostacoli che derivano da una cultura maschilista sbagliata. Mi sento responsabile per loro: quando si hanno le capacità per fare qualcosa, non importa quale sia il sesso biologico che ti è stato assegnato alla nascita. Non esistono attività o argomenti tabù.
Solitamente da piccoli si viene attirati dalla professione dei genitori. A te la danza non diceva nulla?
La danza mi attira tuttora ma il mio fisico non si adattava al 100% al tipo di danza che avrei voluto fare, la classica. Il mio corpo non rispondeva esattamente ai canoni richiesti e quello della danza classica è un mondo che, ancora molto legato alla tradizione, non si è aperto ai corpi un po’ differenti. Avrei potuto insegnare o praticare danza moderna o contemporanea ma non erano ciò che volevo: a me piaceva la danza classica.
Ma intorno ai 17 o 18 anni è arrivata la rottura definitiva: non avevo idea di cosa avrei fatto della mia vita. Forse l’interprete (mi sono sempre piaciute le lingue) ma la voglia di indipendenza mi ha portato verso i primi lavoretti, facendomi scoprire di cavarmela anche abbastanza bene. Ed è stato in quel momento che ho iniziato a credere un po’ più in me stessa e a valutare seriamente cosa avrei potuto fare.
All’epoca, funzionavano tantissimo i blog, ragione per cui ho aperto il mio primo blog sui videogiochi. L’idea era quella di proporre qualcosa di diverso da quello che facevano gli altri: ho lasciato le recensioni a coloro che erano più bravi di me e ho cominciato a parlar di notizie, anche culturali, legate al mondo del Giappone, trovando una piccola nicchia. Il blog si chiamava Games Princess ma non ero la principessa che voleva farsi salvare: ero quella che pian piano si salvava da sola elaborando il suo piano. Scrivevo delle cose che oggi rileggo anche con molta tenerezza.
Pian piano, hanno poi cominciato a scrivermi ragazze a cui sarebbe piaciuto tantissimo collaborare con il blog. Tutte sostenevano che a loro quello sembrava un porto sicuro e libero dai pregiudizi: avevano provato a bussare alle porte di alcuni magazine online di videogiochi ma si erano viste mandare via senza troppi complimenti. E così il blog ha preso una strada inaspettata…
Facendoti diventare quella che definisco una self made woman: dal blog, è nata successivamente una società (oggi TechDream) che almeno in un primo momento dava lavoro a sole donne.
Il punto di svolta è stata la nascita di Tech Princess. Non si poteva vivere di soli videogiochi, c’era anche la parte economica con cui dover fare i conti. Gli investimenti nel settore dei videogiochi non erano (e non sono) tantissimi; quindi, ho ampliato alla tecnologia il raggio delle mie passioni. E la prima piccola grande vittoria è arrivata quando hanno cominciato a contattarmi anche dei ragazzi che, colpiti da come trattavamo gli argomenti, volevano far parte della nostra squadra: da quello che era un porto sicuro per sole ragazze si sono così poste le basi per una community senza distinzione di sesso, in cui ognuno poteva parlare di ciò che più gli piaceva. Avevo trasformato in una solida realtà ciò per cui tutti prima mi deridevano.
Mi lusinga essere definita una self made woman: dietro al successo dei blog, c’è stato un grandissimo lavoro di squadra. Credo nel lavoro di chi mi circonda e dei miei soci: senza una varietà e pluralità di visioni, non potrebbe mai funzionare nulla. È grazie alle passioni e alla diversità di chi lavora con me che nascono le idee, a dimostrazione che è sempre la diversità la chiave che fa la differenza.
Parlare oggi di automobili comporta una grossa responsabilità. Quanto è difficile per te approcciarti alla descrizione delle caratteristiche di un’automobile se questa non rispecchia determinati valori, come ad esempio l’ecosostenibilità?
Non è solo difficile ma anche complesso. Spesso le case automobilistiche propongono modelli con caratteristiche in cui non credono nemmeno loro perché disorientate da decisioni che piovono dall’alto. Anche i nostri racconti, di conseguenza, sono disorientati: scopriamo aspetti con cui non ci eravamo mai confrontati prima. Il nostro è dunque un lavoro continuo di scoperta e di studio e la responsabilità diventa grande. Nel mio caso, non mi sento soltanto un’influencer che viene pagata per il suo lavoro perché ho un animo giornalistico, anche non essendo una professionista, che mi porta a pormi molte domande.
Mi chiedo ad esempio chi ha deciso per un’innovazione, risalgo alle fonti dei “virgolettati” e provo ad avere un approccio differente rispetto a chi si limita alle note delle case automobilistiche. Provo a raccogliere molte più informazioni possibili per poi restituire un racconto che mescoli informazione e intrattenimento. Non ho nulla da insegnare a nessuno, imparo anch’io sul campo ma cerco di accendere la curiosità su un modello.
Non voglio essere un punto di riferimento del settore ma un punto di partenza: parlo di un “prodotto” che, se ti interessa, vai a cercare altrove… il mio compito è fartelo scoprire, il tuo da spettatore di esplorarlo se ne hai voglia. Purtroppo, però, oggi capita che il pubblico si fermi al primo step, senza approfondire: è un po’ triste ma è la conseguenza del calo dell’attenzione generata anche dall’uso che facciamo dei social media. Siamo costantemente bombardati di contenuti e lo switch è la nostra arma di difesa.
Parlare di automobili sui social, tuttavia, fa subito tornare alla mente un recente caso di cronaca che, lungi dal fare un processo sommario, è comunque frutto di disattenzione.
Prima di proporre un mio video sui social, c’è tutta una filiera di controllo che parte sin dall’ideazione dello stesso. Ci chiediamo cosa è lecito ed etico fare: se sono su strada (in pista è diverso, ci sono tutte le condizioni di sicurezza possibili), ci tengo che vengano rispettati segnali, limiti e norme del codice stradale. Anche perché il mio è un pubblico molto attento e si accorgerebbe subito dell’infrazione: non ho rispettato una volta uno stop (ma perché la visuale era chiara e si vedeva che non c’era nessun altro) e sono stata subissata di commenti. L’obiettivo è quello di fare tutto in sicurezza e di promuovere la stessa.
Purtroppo, oggi si tende a spettacolizzare sui social i comportamenti più estremi: non so cosa si provi oggi a far determinate cazzate ma abbiamo la responsabilità di trasmettere agli altri anche il buon senso, l’empatia e la gentilezza. Saranno recepiti e a sua volta replicati.
Sei di origine albanese. Questa è stato un agosto strano per l’Albania: da un lato, ricorreva l’anniversario dell’arrivo al porto di Bari della Vlora mentre dall’altro lato s’è parlato del boom turistico italiano che la nazione sta vivendo. Per molti anni, l’essere albanese era legato a uno stigma sociale poco lusinghiero: albanese era sinonimo di povertà o di criminalità. Quanto è stato complicato per te convivere con le tue origini?
Che sia stato complicato me ne sono resa conto adesso che sono diventata grande e non da piccola. Sono arrivata in Italia all’età di quattro anni, parlavo già correttamente l’italiano (forse grazie ai cartoni animati) e considero il primo giorno di scuola elementare il mio primo accesso in società (non avevo mai avuto chissà quali contatti con i bambini italiani prima di allora). Le maestre erano stupite dal mio italiano, mi sentivo come tutti quanti e non avevo chissà quali difficoltà. Il problema si poneva quando, di fronte a uno screzio o a qualcosa che accadeva, venivo apostrofata come “albanese di merda”: ciò mi faceva capire che qualcosa non quadrava.
Pian piano, mi rendevo conto di non essere come gli altri, ero un’altra cosa. Mio padre mi diceva sempre di non dimenticare mai di mostrare il mio valore: a scuola ero dunque una secchiona, mi comportavo benissimo e rasentavo la perfezione perché dovevo dimostrare di valere tanto quanto gli altri. E da piccola non mi faceva impressione: era la mia normalità crescere sapendo di essere straniera e di non essere in casa mia. Ricordo ancora quando in geografia stavamo per studiare le nazioni d’Europa la mia euforia nel poter finalmente parlare del mio Paese e come sono rimasta delusa dal vedere nel mio sussidiario come venisse liquidato in mezzo paragrafo: “l’Albania è il paese più povero d’Europa”…
Crescendo, però, qualcosa è cambiato. Alle superiori, non mi sentivo né albanese (ero andata via da piccola) né italiana (proprio perché gli altri rimarcavano da dove provenissi). La crisi identitaria è stata forte ma è culminata lasciando in me il desiderio e la curiosità di scoprire qualsiasi cultura diversa dalla mia.
Di recente, ad esempio, mi è venuta voglia di riscoprire le mie radici. E ho iniziato a fare viaggi con la mia community (non mi piace chiamarli follower perché ho con tutti un rapporto di scambio quotidiano). Il primo è stato sei mesi fa e nessuno immaginava che l’Albania fosse un posto così bello: lo stereotipo dell’albanese brutto, sporco e cattivo è ancora forte ma la realtà è ben diversa. Ragione per cui definisco i miei viaggi in Albania come viaggi d’integrazione, di incontri, di esperienze e di cuore.
Siamo stati un po’ precursori di quanto è avvenuto ad agosto con il boom turistico in Albania, dove si va principalmente al mare alla ricerca di prezzi più bassi rispetto alla costa balcanica o a quella italiana. Non so quanto il Paese fosse preparato ai turisti: viene da una sorta di buco durato quarant’anni e all’improvviso si ritrova proiettato nel futuro. C’è stata e c’è la corsa a organizzarsi e a essere accoglienti, anche se l’accoglienza e l’ospitalità sono caratteristiche che da sempre il popolo albanese ha.
Un tuo recente post su Instagram ha sollevato una questione di cui non avevi mai parlato prima: il tuo rapporto con il tuo corpo. A che punto è la vostra relazione complicata?
È una relazione che va coltivata giorno dopo giorno: come si devono continuare a coltivare i diritti acquisiti, così non si devono mai dare per scontati i nostri achievement interni. Sto iniziando a far pace con il mio corpo: è come se avessimo firmato un trattato che ora deve essere mantenuto. E non è facile.
Ho sempre sofferto per il mio essere molto femminile, prosperosa. Non mi piace l’idea di essere sessualizzata: ho paura che guardando i miei video la gente si soffermi sul mio fisico e non sul contenuto. Ed è una paura fondata: le poche volte che ho indossato una canottiera, i commenti si concentrano su come appaio o sull’oggetto sessuale che in quel momento rappresento. Per me che sono cresciuta con la voglia di dimostrare di saper fare, non è il massimo. C’è a chi piace essere guardata e a chi no, anche se negli ultimi sto provando a fare qualche passo in avanti per capire in primis come reagisco io e dopo come reagiscono gli altri.
Cerco di far pace anche con i cambiamenti che sono intercorsi. Oggi non ho lo stesso fisico di quando avevo vent’anni, sono passata da una small a una medium: prima me ne facevo un cruccio, ora ho imparato ad accettarlo. Sono ingrassata e non mi viene più niente? Vado in negozio a prendere una misura più taglia più grande. Accettarsi e accettare i cambiamenti è un lavoro lungo, mi sta costando energie ma mi sta aiutando anche ad affrontare le cose in maniera diversa, anche meglio.
Il corpo è la nostra casa: se lo giudichiamo, perde di consistenza. Ed io non voglio più sentirmi a obbligata a dover apparire in un certo modo: tuta o paillettes, devo essere io a decidere e non la libido degli altri. Ora al mattino provo ad ascoltarmi, qualcosa che nessuno di noi è più abituato a fare, e in base a come mi sento esco di casa. Esploro: non so se è la strada giusta ma è quello che mi va di fare.
So che è difficile per tutti ma lo è ancora di più per chi come me lavora con la propria immagine e si specchia in video che guardano in migliaia di altre persone. Ogni lavoro ha le sue difficoltà e non ne sminuisco nessuno ma vorrei che si capisse che anche il nostro non è una passeggiata: certo, non lavoro in miniera ma esistono anche altri tipi di fatica, soprattutto psicologica e mentale. Alla fine della giornata, si arriva svuotati e con il bisogno di recuperare le energie perse: ecco perché cerco sempre di prendermi del tempo per riposare, leggere qualcosa e ascoltarmi.
Chi è Fjona Cakalli nel momento in cui riesce a spegnere smartphone e computer?
È una persona molto introversa. Lo so che sembra un paradosso per una che sta sempre davanti a una telecamera ma dentro mi sento spesso come una bambina di otto anni di cui prendersi cura. Mi piace anche ballare per casa, sdraiarmi per terra e iniziare a cantare… leggere un libro, mettere in ordine e imitare le vocine dei cartoni animati. Quando ho bisogno di sentire ciò che dentro di me, vado a fare lunghe passeggiate: cammino per ore senza nulla alle orecchie per ascoltare la natura ed è lì che mi vengono le idee. Ultimamente leggo anche molti saggi: anche il tempo libero deve insegnarmi qualcosa e regalarmi nutrimento per l’anima.
In altre parole, Fjona lontano dalle telecamere è una persona introversa che ama tanto stare da sola e tenersi la mano da sola: ogni tanto mi sento a disagio anche a stare in mezzo a molta gente. Amo i rapporti one to one: io devo parlare con le persone, farmi raccontare tutto di loro e sapere ogni cosa, anche di chi dice di avere una vita assolutamente ordinaria. Sono sicura che anche loro abbiano qualcosa di speciale da raccontarmi.