Francesca Fialdini è il volto della gentilezza in televisione. Con Da noi… a ruota libera, il programma in onda la domenica su Rai 1 alle 17.20, ha riportato in onda qualcosa di semplice che scontato non ora: l’ascolto dell’ospite, il racconto non urlato e, soprattutto, l’empatia. Non è facile riuscire a mettere a proprio agio gli ospiti senza prevaricarli: l’egocentrismo di chi conduce è ad esempio una delle piaghe dei programmi che da un canale all’altro si rincorrono a suon di esclusive o di becero gossip.
Eppure, Francesca Fialdini con eleganza e gentilezza ha nel suo piccolo rivoluzionato quel modo di far televisione. Spesso si tende a pensare che la gentilezza sia un difetto e che il conduttore televisivo debba rifuggirla per questione di share. Ragionamento avulso e sbagliato: la gentilezza è sinonimo di preparazione e attenzione, altruismo e rispetto. Laddove mancano queste caratteristiche manca anche il tocco personale e la capacità di informare, educare e divertire.
Ed è forse dal modello BBC che nasce il modo di far televisione di Francesca Fialdini. Prendiamo ad esempio Da noi… a ruota libera, dove ogni domenica si intrecciano le storie di volti noti dello spettacolo, del cinema e della musica che hanno saputo far girare la ruota nel verso giusto (questa domenica, 29 gennaio, saranno ospiti Sabrina Salerno, Paolo Conticini e Matilde Gioli). Attraverso l’ascolto e il gioco, Francesca Fialdini riesce a mettere l’ospite in condizione di aprirsi senza forzatura o senza l’esigenza di ottenere un titolo da clickbait.
Nel corso del programma si informa e ci si diverte, catturando l’attenzione del pubblico a casa, che ogni domenica sfiora i tre milioni. Ma non manca l’informazione e la veicolazione di temi che, trattati con sensibilità, mirano attraverso le testimonianze di gente comune a capire la realtà che ci circonda. Diversità e inclusività sono passate spesso dal salotto intimo di Francesca Fialdini, così come la violenza di genere, il bullismo e la discriminazione a tutto tondo. Ma senza che Francesca Fialdini cercasse mai la lacrima facile o la via della retorica. Francesca Fialdini ne ha parlato prendendo anche una posizione netta e incontrovertibile, qualcosa che manca in molti e molte dei suoi colleghi.
E la volontà di raccontare gente comune che sta lottando per farcela sta alla base anche di Fame d’amore. Docuserie giunta alla sua quarta edizione (trasmessa da Rai 3 e disponibile su RaiPlay), Fame d’amore punta un enorme faro sulla Generazione Z occupandosi di disturbi del comportamento alimentare e sul disagio giovanile. Un tema sicuramente spinoso che fino a qualche tempo fa nessuno osava trattare per paura di far scappare lo spettatore medio.
Ed è dai due programmi da vero servizio pubblico che parte la nostra lunga intervista in esclusiva a Francesca Fialdini. Siamo partiti dalla Francesca Fialdini presentatrice e giornalista per arrivare, in maniera naturale, alla Francesca Fialdini donna, cresciuta con la madre (Ivana) come modello e con la consapevolezza di essere sempre in costante evoluzione. “Una donna costantemente in discussione”, è la definizione che Francesca Fialdini dà di sé, consapevole di quanto non ci si possa esimere dal considerare il mondo intorno a lei, lo stesso che è intorno a noi.
Intervista esclusiva a Francesca Fialdini
Da noi… a ruota libera è giunto alla sua quinta edizione. E, nel suo piccolo, è un programma che per certi versi ha rivoluzionato la domenica pomeriggio: nasceva infatti in un momento in cui il pomeriggio del giorno di festa era caratterizzato da una concorrenza fatta di esclusive, di gossip, di discussioni e di liti. A tutto ciò, Da noi a ruota libera ha preferito la gentilezza. Qual è stata l’intuizione dietro al ricorso alla gentilezza?
Eh… io sono quella lì. Nel momento in cui mi hanno chiesto di occupare quella fascia oraria mi hanno dato carta bianca: non c’era ancora nulla di scritto né di deciso. Ho dunque pensato di riempire quello spazio con ciò che immaginavo di saper fare.
Per me, è stata anche un po’ una rivoluzione copernicana. Venivo dal mondo dell’informazione, da quella scuola per cui conta più la notizia e non chi la dà. Nel momento in cui ti occupi di intrattenimento per far risaltare gli altri e lo show, devi invece paradossalmente portare al centro della scena te stessa e tutte le tue caratteristiche. E, fra queste, c’è la mia personalità, che si esprime così, con la gentilezza.
Non è stata dunque un’intuizione: credo sia stato semplicemente il corso naturale delle cose che mi abbia portata a costruire uno show che mi somigliasse e che valorizzasse un certo modo di fare. Se proprio dovessi rivendicare delle intuizioni, allora ne rivendicherei due.
La prima è il voler portare un messaggio comunque positivo di riscatto, di rivincita e di coraggio, nonostante le situazioni avverse che incontriamo sulla nostra strada e che spesso ci fanno dire “non ce la faccio o non ce la farò mai”. Per me, far girare la ruota in modo libero significa diventare libero rispetto alle circostanze, agli ostacoli e al giudizio altrui, che alle volte è il più grande ostacolo che possiamo ritrovare sul nostro percorso: ci sono paure mentali e anche sociali che possono impedirci di realizzarci nella vita.
La seconda intuizione è legata all’ascolto. Se l’ospite non si sente ascoltato, non ti restituisce nulla di sé. L’ascolto è la moneta di scambio per portare a casa un risultato ed evitare che si erga un muro di difesa. Cerco di ascoltare molto i miei ospiti e di metterli nella condizione migliore attraverso il gioco o stimoli continui.
Ho voluto portare quel tipo di interviste a quell’ora del pomeriggio della domenica. Interviste con cui abbiamo affrontato anche argomenti meno leggeri. Nel corso del tempo siamo tutti andati incontro a enormi difficoltà: il CoVid prima, la guerra dopo e ora questa situazione di precarietà economica che, bene o male, tocca le tasche di tutti noi e, soprattutto, quelle delle frange più emarginate e dimenticate della società. E anche ciò è risultato vincente: battevamo sempre in termini di ascolto quel tipo di concorrenza a cui facevi riferimento prima e siamo stati riconfermati anno dopo anno.
Chiaramente, dall’altro si sono poi organizzati e ci hanno messo contro il fiore all’occhiello della programmazione del day time, rispetto a cui giochiamo due campionati diversi. Non si può dire che siamo in concorrenza: giochiamo su due piani completamente diversi.
Se l’ospite non si sente ascoltato, non ti restituisce nulla di sé. L’ascolto è la moneta di scambio per portare a casa un risultato ed evitare che si erga un muro di difesa. Cerco di ascoltare molto i miei ospiti e di metterli nella condizione migliore attraverso il gioco o stimoli continui.
Francesca Fialdini
Ti abbiamo vista qualche volta gestire con disinvoltura momenti di imprevisti o dichiarazioni che avrebbero mandato in tilt altri. Come si risolvono quegli attimi?
Dipende dall’imprevisto: in genere, mi diverte. Una delle regole di una buona sceneggiatura per la realizzazione di una commedia è andare a esaltare l’errore: se c’è un errore nella storia, la regola è quella di evidenziarlo. Questo vale anche per un programma di intrattenimento: se c’è un imprevisti, ci si diverte e ci si ride sopra. Lo si prende anche come pretesto per ricordare al pubblico che tutto può accadere in un programma in diretta. Siamo su una ruota che gira liberamente, gli errori possono essere all’ordine del giorno e, se c’è qualcosa di imprevisto, che ben venga!
Ultimamente sono ritornare a Da noi… a ruota libera le storie di persone comuni. In un momento in cui la televisione sembra quasi aver dimenticato la gente comune lasciandone il racconto ai social (a Tik Tok, in particolar modo), il tuo programma va controcorrente. Quanto è importante raccontare esempi di chi ce l’ha fatta o che ce la sta facendo?
Maria De Filippi insegna quanta forza e potenza ci sia nelle storie delle persone comuni. A prescindere dalla condivisione o meno del filone scelto, con C’è posta per te presenta storie in cui ci riconosciamo tuti perché, bene o male, raccontano i sentimenti, qualcosa di universale per cui tutti ci sentiamo chiamati in causa.
In un programma come il mio, lo spettatore, quando trova il volto meno noto, tendenzialmente tende a cambiare il canale: mi dispiace ma non per questo dobbiamo rinunciare a raccontare storie comuni. Abbiamo messo in conto il calo della curva d’ascolto ma la scommessa è quella di continuare a perseverare e portarle avanti. Credo sia fondamentale che ci si riconosca in una storia: “se ce l’ha fatta il vicino di casa, che non è nessuno di speciale rispetto a me, posso farcela anch’io” è il messaggio che vorrei che arrivasse.
Quelle di gente comune, se vogliamo, hanno un sapore motivazionale. Infondono anche coraggio e mai come adesso ne abbiamo bisogno sia per raccontare l’inclusività sia per raccontare storie di donne ai margini che trovano un riscatto attraverso il loro percorso personale e non tramite scorciatoie, come si tende sempre a pensare. O per raccontare storie di giovani che, nonostante la povertà culturale, la mancanza di diritti sociali e l’abbandono, ce la fanno.
Per me è importantissimo non rinunciare a raccontare di loro, nonostante dall’altra parte ci sia un programma più glamour. Non mi piace nemmeno chiamarla concorrenza: c’è posto per tutti in televisione, anche se agli addetti ai lavori piace metterci in competizione e non si capisce nemmeno perché.
Hai appena citato la parola inclusività. E il tuo impegno in tal senso è sotto gli occhi di tutti. Di recente, mi sono occupato di una storia che mostra come tra gli ultimi, disabili e immigrati, ci sia molta più solidarietà di quello che si pensa e un importante ufficio stampa mi ha detto, testuali parole, “piacerebbe molto a Francesca Fialdini”, segno che stai facendo la differenza.
Mi fa molto piacere. Mi hai fatto venire in mente quella volta in cui per lavoro ho finto di essere un clochard, con la telecamera che mi seguiva. Ho ricevuto le manifestazioni più importanti di solidarietà da chi dormiva veramente per strada o dagli immigrati, e non dalle famiglie “perbene”, con il loro atteggiamento altezzoso o i loro strattonare i loro bambini che si fermavano a guardare.
I temi sociali e l’attenzione per i giovani sono anche al centro dell’altro programma televisivo che ti vede protagonista: Fame d’amore su Rai 3. Segui storie di disagio giovanile, anche molto forti. Cosa ti lasciano a livello professionale e personale?
Fame d’amore nasce dalla grande intuizione e dal grande coraggio del regista del progetto, Andrea Casadio, un autore e giornalista eccezionale. Ha un passato da neuro ricercatore negli Stati Uniti, dove si era trasferito per tentare la carriera medica. Dopo diverse vicissitudini personali, ha optato per il giornalismo e già negli anni Novanta, in America, aveva collaborato alla realizzazione di programmi tv che si dedicavano ai giovani e alle dipendenze, portando una novità in quel momento dell’ambito del mainstream. Aveva capito già allora che quella era una strada percorribile: in Italia ci siamo arrivati soltanto tre anni fa.
Andrea ha dovuto aspettare un bel po’ quando ha presentato il progetto da noi: forse non eravamo ancora pronti per sensibilità e per cultura. Io stessa, quando nei miei programmi affrontavo i disturbi del comportamento alimentare (dca), notavo con grande dispiacere come le storie venissero rifiutate dal pubblico. Non ne capivo la ragione e mi sono posta diverse domande. Fortunatamente, negli ultimi tempi, qualcosa è cambiata.
Ed è cambiata per varie motivazioni. Innanzitutto, la narrazione. In passato, il collegamento diretto che si faceva era quello con il mondo della moda: c’era un problema di anoressia, era colpa della moda. Era come se i dca fossero notizie di costume, sottovalutando il problema. Era un modo superficiale per non affrontare la questione e cercare un capro espiatorio per alleggerirsi anche la coscienza: non era un problema nostro, educativo e di relazione, ma era qualcosa che riguardava la cultura dominante e, in quanto tale, la cultura dominante non ha un volto. Rimaneva un fattore esterno anonimo.
Sono molto fiera che Fame d’amore sia stato il primo programma in Italia ad affrontare seriamente i dca. Siamo arrivati un anno prima che il CoVid ci mettesse di fronte allo specchio delle nostre contraddizioni, delle nostre colpe e delle nostre responsabilità: la pandemia ha fatto sì che emergesse tutta la polvere che già c’era sotto, facendo venir fuori come e quanto i nostri ragazzi stiano male, molto male. Il virus ha solo accelerato i tempi di ciò che prima o poi sarebbe scoppiato e si sarebbe reso evidente.
Siamo, come dire, arrivati al momento giusto. C’era un gran lavoro da fare: convincere l’opinione pubblica, conquistarsi una fetta di pubblico ma anche una fetta di attenzione da parte dei colleghi, dei giornalisti e di chi forse si sentiva finalmente toccato al punto da iniziare a raccontare il disagio dei giovani in maniera serie, andando non soltanto a fare il link con la moda ma a scavare in profondità e a portare alla luce la più grande delle domande. Ovvero, cosa genera i disturbi del comportamento alimentare? Dove sbagliamo? Cos’è che crea questi traumi, queste ferite profonde, che spingono un giovane, non trovando le parole per esprimere il dolore, a urlarlo attraverso il male fatto al proprio corpo?
In passato, i dca sembravano quasi un capriccio, si decodificavano in superficie. Oggi invece ce ne chiediamo il perché e lasciamo il racconto ai ragazzi. Parlandone in prima persona, si sentono valorizzati, guardati e nella condizione di poter esprimere senza alcun pregiudizio la fame d’amore che li divora. Perché, in fondo, è quello il tema: l’amore, in tutte le sue declinazioni.
Cosa lasciano in te le storie dei ragazzi?
Quello che vorrei che lasciassero anche al pubblico: un subbuglio tale da rimettermi in discussione. Quando ascolto i loro racconti, mi sento molto rigida: sono lì con loro, raccolgo le loro parole (prima, dopo e durante la registrazione) e non possono mostrarmi troppo la mia sensibilità, la mia commozione e la mia empatia. In quel momento, sono l’adulto che ascolta seriamente le loro storie, devo mostrarmi ferma, pronta ad accoglierli: sono la roccia su cui possono appoggiarsi e trovare sicurezza. Quando, però, mi allontano da loro, ripenso e mi sento colto chiamata in causa: non sono un genitore e non conosco l’angoscia e la pressione che può provare un genitore rispetto al benessere del proprio figlio.
Tuttavia, mi sento genitore sociale. Mi chiedo cosa possa fare io da adulto o da cittadino. Non mi posso escludere dalle loro storie, storie che mi riguardano e che ci riguardano: facciamo parte dello stesso paese e della stessa comunità. Un problema che riguarda i giovani riguarda anche me e noi. Se non indaghiamo, quella sofferenza continuerà a crescere e si espanderà. Mi sento messa in crisi nel mio modo di amare e mi porto costantemente a casa una sola domanda: mi basta raccontare le loro storie?
Devo continuare a lottare per arrivare al fondo del problema? Devo continuare in questa direzione anche per poter chiedere alla politica cosa stiamo facendo dei nostri giovani e per assicurare loro una condizione migliore? Stiamo assistendo a un cambio generazionale in verità molto veloce. Ogni generazione ha avuto difficoltà a parlare con le precedenti ma oggi è come se fosse calato un silenzio assordante.
“Con i genitori non parlo, a loro non frega niente di quello che penso” è ciò che spesso mi dicono i ragazzi: lo trovo agghiacciante. Dove sono gli adulti? Dove sono gli allenatori? E dove sono gli insegnanti? Nessuno vuole che venga messa in discussione la propria capacità di amare ed è questo che ci siamo ripromessi di indagare nella prossima stagione di Fame d’amore. Un genitore prima di accettare di aver probabilmente sbagliato qualcosa nell’educare il figlio o nel rapporto che ha con esso ci mette tanto tempo e, stesso, non accetta di rivedere la propria posizione o la dinamica delle relazioni. E così anche gli altri adulti che con i ragazzi hanno a che fare.
Siamo noi adulti pronti a rimettere in discussione la nostra capacità di amare e a farci mettere in crisi? Forse è questa la grande domanda. Ma sbrighiamoci a trovare una risposta: i ragazzi non hanno più tempo da perdere. È di questi giorni una ricerca in cui si evidenzia come quella dagli psicofarmaci sia diventata la nuova dipendenza dei nostri adolescenti: è impressionante. È troppo alto il numero di farmaci che assumono.
Quando noi adulti eravamo adolescenti forse non avevamo le loro stesse problematiche o, se le avessimo avute, le avremmo affrontato in maniera differente. Anche perché c’era una rete sociale – mi sento boomer a dirlo ma è vero – pronta a sostenerci, dei punti di riferimento su cui contare. C’erano i circoli in cui ritrovarsi e condividere le ideologie politiche, discutere, dibattere ed eventualmente passare all’azione con le manifestazioni o l’occupazione delle scuole. C’erano il dibattito pubblico, le aggregazioni sociali, le parrocchie e l’associazionismo in genere. E c’erano dei valori che orientavano delle scelte e creavano gruppo di appartenenza: laddove non c’era la famiglia, c’era sempre un gruppo di supporto all’interno del quale un giovane trovava casa.
Oggi non c’è più nulla. In tanti casi, i partiti, pensati come un tempo, non esistono quasi più. La politica è diventata un’altra cosa. Le parrocchie hanno perso il loro appeal. E i circoli non funzionano tanto quanto il dibattito sui social, diventati il palcoscenico in cui i giovani si danno appuntamento ma con tutta la fragilità che quel tipo di relazione virtuale comporta. Nel momento in cui si spegne lo smartphone o il computer, quella rete sociale, per quanto fitta, smette di esistere.
Le amicizie virtuali non corrispondono all’idea di amicizia che, sentiamoci vecchi, avevamo noi. Stiamo assistendo a una trasformazione epocale. Ma in questa trasformazione cosa stiamo offrendo ai nostri ragazzi? Nulla. Guardiamo ad esempio alla nuova legge di bilancio e a quanto è stato destinato ai giovani, al disturbo mentale o alle donne. In questo modo non si tratta di sottovalutare il futuro del nostro Paese ma anche, molto banalmente, il nostro presente.
Si destinano però i fondi allo sport. Mandiamo i giovani con dca a far sport, dimenticando che una delle declinazioni dei disturbi alimentari è proprio la vigoressia, una ricerca di perfezione che finisce per escludere dall’avere relazioni sociali e che spesso rappresenta anche un’altra forma di morte pur di inseguire un modello che non è necessariamente quello vincente.
Siamo noi adulti pronti a rimettere in discussione la nostra capacità di amare e a farci mettere in crisi? Forse è questa la grande domanda. Ma sbrighiamoci a trovare una risposta: i ragazzi non hanno più tempo da perdere.
Francesca Fialdini
Hai citato la parola “modello”. Quali sono stati i tuoi modelli?
Mia mamma è stata un modello per me: forse è la prima volta che lo dico. Siamo molto diverse dal punto di vista caratteriale ma lei è una donna che mi ha insegnato a essere una donna libera e indipendente, ad avere un proprio pensiero sul mondo e sugli altri, ad avere senso critico, a leggere qualunque cosa, a non lasciarsi trasportare le correnti ma a farsi un’opinione personale, ad avere rapporti – anche sentimentali – improntati a una forte consapevolezza e a mettere in conto anche l rischio di rimanere scottati.
La mia mamma ha fatto un percorso politico molto chiaro, ha vissuto la sua vita come voleva e si è fatta comunque portatrice delle esigenze che riguardavano le altre donne. Ha lottato per qualcosa di più grande rispetto ai suoi interessi. Sentivo parlare di determinati temi sin da quando ero piccolina. Ho ereditato da lei la forza dell’impegno affinché tutti abbiano un benessere maggiore e credano in qualcosa di più grande e affinché la politica si accorga di chi è meno fortunato.
Ho portato il suo insegnamento nel mio lavoro. Non sono stata ancora abbastanza coraggiosa quanto lei, probabilmente, ma ho senz’altro ereditato il suo modo di vivere. E la ringrazio molto per questo perché mi sento di essere una donna molto contemporanea.
Tra gli affetti della tua vita c’è il tuo gatto, che possiamo vedere tutti in un post su Instagram. È con te da 18 anni. Cosa rappresenta per te?
Mi commuove parlarne. Mirò è in una fase della vita in cui potrei perderlo da un momento all’altro perché ormai è un novantenne. È un vecchietto che gira col bastone a guardare i cantieri nel senso che si perde a guardare l’infinito e a fissare un punto indefinito. Comincia ad avere grandi segnali di senilità, molto forti, ma è un gatto che ha avuto una vita felice, molto combattiva. In termini di autostima ha molto da insegnarmi.
In qualche modo, in lui ho investito il tempo che è passato. Tutti i miei affetti più importanti trovano in Mirò il loro punto di equilibrio e incontro: è il simbolo delle persone e delle creature che amo di più e del tempo che è andato. In Mirò vedo la mia giovinezza, la mia amica Elisabetta, i miei genitori… vedo me bambina, i sogni, il desiderio di casa, il mio bisogno di tornare. Mi restituisce il senso del tempo che passa.
Quando lo guardo negli occhi, con tutti i suoi acciacchi, provo un’infinita tenerezza. La provo per lui ma anche per me, per la nostra storia insieme e per quello che abbiamo vissuto e attraversato, tutti i traslochi fatti e i cambiamenti di vita veloci e repentini, i momenti belli passati ma anche quelli tristi. Mirò rappresenta tutto il mio mondo.
Perché lo hai chiamato Mirò?
Perché smoccica. Da quando è nato, ha un problema al setto nasale. Ha la testa schiacciata e non ha neanche i canali lacrimali. È un difetto congenito per quale è stato rifiutato dalla sua cucciolata, la mamma si rifiutava anche di accudirlo. L’ho chiamato Mirò perché è un grande pittore quando starnutisce! (ride, ndr).
Seppur non destinato alla sopravvivenza per le leggi della natura, Mirò non si è mai arreso. Nonostante tutte le sue disabilità, ha tenuto a bada i cani randagi che sono entrati dentro il cancello di casa, ha fatto lotte con i gatti randagi che volevano entrare nel suo territorio e ha dominato la scena, a casa ha tutti ai suoi piedi. Questa sua capacità di sentirsi sicuro, nonostante tutto, è quella che gli invidio di più.
E Francesca si sente sicura?
Sono una donna che si mette tanto in discussione. Ho i miei punti fermi, alcune regole, ma non mi precludo proprio per non annoiarmi e perché voglio lasciarmi sempre la porta aperta all’imprevedibilità. Perché nell’imprevisto, alle volte, c’è la cosa più bella che ci possa accadere. Un incontro, una conversazione o un fatto inatteso, positivo o negativo, può nascondere delle belle sorprese.
Non do mai giudizi definitivi rispetto a qualcuno o qualcosa e tantomeno su me stessa. Sono sempre pronta a rivedere le mie convinzioni. Voglio pensare di essere sempre in cambiamento ed evoluzione: credo che sia il modo migliore per stare in relazione con gli altri e mai sentirsi su un gradino superiore. A volte, le nostre convinzioni diventano una barriera rispetto al mondo esterno: non voglio mai mettermi in una posizione di sicurezza tale da far diventare il mondo fuori un nemico. È importante essere vulnerabili: la fragilità è la cosa più preziosa che abbiamo.
A volte, le nostre convinzioni diventano una barriera rispetto al mondo esterno: non voglio mai mettermi in una posizione di sicurezza tale da far diventare il mondo fuori un nemico. È importante essere vulnerabili: la fragilità è la cosa più preziosa che abbiamo.
Francesca Fialdini
Eri così anche da bambina o hai definito il tuo carattere crescendo?
Mi rivedo tanto in me bambina. Moltissimo, soprattutto alle elementari. Avevo già una personalità molto definita tanto che avevo il mio gruppetto selezionate di tre amichette. Amavo il confronto con gli altri, con i maschi: non li temevo e non volevo farmi soggiogare dal loro modo di fare. E non mi mettevo nemmeno nel gruppo delle femmine. Ricordo che c’era il gruppo molto compatto di ragazzine e il gruppo di maschi: io stavo per i fatti miei. Probabilmente non volevo essere etichetta ma essere Francesca e basta, libera.
E sognavi già da bambina di diventare giornalista?
Sì, a 8 anni ho iniziato a sognare di fare la foto reporter, girare il mondo e raccontare. L'ho fatto solo per un periodo, come inviata e i miei ricordi più belli sono legati a un reportage in Turchia e Siria. Poi mi hanno proposto di diventare conduttrice e questo ha cambiato la mia traiettoria, ho voluto provare un altro percorso. Mia madre non era d'accordo che da piccola inseguissi questo desiderio, e mi diceva di ripensarci ma poi mi ha lasciato libera perché l'insegnamento che lei mi aveva dato era quello: fare ciò che sentivo.
Ricordi su cosa hai fatto la tesi di laurea?
Ho frequentato Scienze della Comunicazione e ho scelto politica comparata. In quest’ambito, ho portato una tesi dedicata ai giornali di strada. In Italia erano quattro e nascevano sull’onda di The Big Issue, venduto in strada a Londra dai senza fissa dimora. Grazie a quell’attività, questi ultimi avevano un documento di riconoscimento, quindi esistevano agli occhi della società, e percepivano una percentuale in base alle copie vendute, quindi, un minimo di sostentamento: era una forma legalizzata di accoglienza e di lavoro per chi viveva ai margini.
Ho cercato di studiare sia l’effetto sociale (in termini concreti, che tipo di inclusività dava) sia l’effetto politico che aveva quel tipo di comunicazione perché in Italia esistevano quattro giornali di strada molto diversi tra loro: Piazza Grande, Terre di Mezzo (un giornale bellissimo!), Scarp de’ tenis (legato alla realtà ambrosiana e all’Avvenire) e Dire. Si parlava molto di comunicazioni sociali.
Comunicazione sociale… qualcosa che decenni dopo ancora ti accompagna.
C’è tanto lavoro da fare. Tanto. Quando su un giornale leggevo titoli come “si cercano due di nazionalità straniera”, senza ancora saper nulla dei fatti, mi dava molto fastidio. C’era la tendenza a etichettare qualcuno o qualcosa in base al passaporto, all’orientamento sessuale, al genere o altro: è qualcosa che mi ha sempre disturbata molto. Trovavo che non ci fosse rispetto nei confronti delle persone: protagoniste di fatti di cronaca ma comunque persone.
Era un modo spesso indiretto di puntare il dito e marcare la differenza tra un noi condiviso e loro.
Ed è qualcosa che purtroppo ritrovo anche nell’iper velocizzazione del giornalismo online, che parla per slogan e crea polarizzazioni. Invece di fermarci a pensare a cosa stiamo scrivendo, andiamo a sintetizzare ancora di più il concetto e le grandi categorie dentro cui facciamo finire tutti vincono.