Dopo aver diretto il film Punta Sacra, disponibile in esclusiva su RaiPlay, Francesca Mazzoleni viene considerata a ragione una delle registe italiane da tenere d’occhio. Non è un caso se colossi come Sky e Netflix abbiano pensato a lei per prodotti di punta come Romulus o SuperSex, l’attesa serie tv su Rocco Siffredi.
Come scrive Giona A. Nazzaro su FilmTv, “Nel raccontare la vita delle famiglie che popolano l’Idroscalo di Ostia, la giovanissima regista adotta in Punta Sacra un registro empatico, che le permette di mettersi all’ascolto delle storie che le sono offerte. Nell’organizzare il racconto, però, non commette l’errore di adottare una forma estranea alle persone incontrate (quindi cambiando posizione e riaffermando la sua autorità), ma crea una moltitudine di voci che restituisce l’energia orale delle testimonianze come una ballata popolare o un rap di periferia”.
Classe 1989, nata a Catania ma cresciuta a Roma, Francesca Mazzoleni in Punta Sacra racconta la vita all’Idroscalo di Ostia, un luogo che da sempre è considerato tabù: lembo di terra in cui lo Stato non si addentra, quartiere in cui è stato ritrovato il cadavere di Pier Paolo Pasolini, west romano in cui prevale la legge non scritta. Ma lo sguardo di Francesca Mazzoleni non si ferma al pregiudizio. Là dove la foce del Tevere incontra il mare, Francesca Mazzoleni ha intravisto la forza, l’energia, la resilienza e la resistenza di gente che, ancorata a valori ancestrali, chiede rispetto e dignità per lottare sia contro la forza distruttrice della natura sia contro gli interessi commerciali.
Abitata ormai da solo cinquecento famiglie, legate indissolubilmente a quella fetta di territorio, Punta Sacra, dal 29 ottobre in prima visione Rai su RaiPlay, descrive storie al limite condite da racconti intensissimi. Su tutte queste storie c’è quella di Franca, a capo di una famiglia completamente al femminile e voce narrante del documentario. È lei che mostra lo spirito della comunità, sviscerando un racconto che intreccia realismo e proiezioni nell’immaginario, nostalgia ed inevitabile pragmatismo, tenendo fermo un unico punto: quel luogo è la casa di tutti loro.
Lontana dai cliché di un certo tipo di documentario a tesi, Francesca Mazzoleni ha saputo cogliere lo spirito che anima Punta Sacra entrando nella vita del territorio e di coloro che lo abitano. Soprattutto, delle donne: madri, figli e sorelle chiamate a organizzare la quotidianità, la comunità ma anche la lotta. E il risultato è sotto gli occhi di tutti e i premi non si contano: Best Feature Film a Visions du Rèel 2020, Prix de la Meilleure Réalisation ad Annecy Cinema Italien 2020, Premio Speciale della Giuria ad Alice nella Città 2020, Premio Valentina Pedicini ai Nastri d'Argento e nomination al Miglior documentario ai David di Donatello.
Di Punta Sacra abbiamo parlato con Francesca Mazzoleni. Nel corso della nostra intervista non abbiamo potuto fare a meno di ricordare l’impegno della produzione di Morel Film (la stessa di Life is (Not) a Game, altro straordinario film sulla street artist Laika), le difficoltà legate alla realizzazione di un documentario non a tesi e la magia dell’imprevisto. Ma non solo. A lei, abbiamo posto una questione che riteniamo di fondamentale importanza: perché lo sguardo femminile, negli ultimi anni, si è dimostrato capace di cogliere aspetti che l’occhio maschile non vedeva?
Intervista esclusiva a Francesca Mazzoleni
Punta sacra è un progetto che ti ha cambiato la vita. Avevi esordito con Succede, l’adattamento del romanzo di Sofia Viscardi, che era stato accolto tiepidamente.
Il film dalla critica era stato accolto abbastanza bene. L’elemento critico è stato il pubblico: era rivolto a una fascia di super giovani, abbiamo tentato di riportarli al cinema ma è stato complicatissimo.
Con Punta Sacra offri uno spaccato inedito e cinematograficamente inusuale dell’Idroscalo, alla periferia di Roma. Sei nata a Catania ma definisci Roma come la tua città. Come mai?
Sono divisa tra due mondi. Sono cresciuta a Roma sin da piccola e questo è il motivo per cui la considero la mia città: è quella dove ho messo le mie radici, emotive e professionali. Però, sono sempre legata all’altra città, quella col vulcano, che in realtà mi parla a un livello probabilmente molto inconscio. Ho trascorso a Catania tutte le estati della mia vita, che sono i periodi più liberi e in cui siamo più connessi con noi stessi.
Per chi non lo sapesse, a Catania, il vulcano (l’Etna) è donna. La sua energia è la stessa che tu hai sprigionato in Punta Sacra, un progetto che nasce dopo quasi otto anni di osservazione e che non è stato dettato dal colpo di fulmine del momento.
Il film è nato dopo tanti anni di osservazione ma è stato poi realizzato in una maniera estremamente veloce: amo questo contrasto perché c’è stata un’assimilazione molto lunga e non finalizzata, oltretutto, al documentario. Semplicemente, mi sono innamorata delle persone che ho incontrato all’Idroscalo e, quindi, si è creata una specie di dipendenza: ogni anno dovevo tornare da loro. Punta Sacra era uno dei pochi luoghi al mondo in cui mi ritrovavo: trovare una comunità con quel tipo di accoglienza, dignità e ironia era come fare un viaggio lontanissimo. Anche se poi ero ad Ostia: uno strano contrasto. Ho frequentato la comunità per otto anni finché insieme alle famiglie non abbiamo deciso di realizzare il film.
Il contrasto emerge anche dalla narrazione. Ostia e l’Idroscalo in particolare sono da sempre legati a un pregiudizio culturale: è terra di criminalità, abitata da ultimi, ed è lo stesso luogo in cui è stato rinvenuto il cadavere di Pier Paolo Pasolini. Dal tuo film emerge invece una terra fatta di valori che sono quasi ancestrali e di ideali molto forti. Penso ad esempio alla casa, alla famiglia, alla resilienza e alla sorellanza. C’è una bellissima sequenza in cui una madre e una figlia litigano sul futuro della seconda. Quanto è stato difficile per te andare oltre il pregiudizio?
Il pregiudizio è stato proprio il motore di tutto il documentario: ciò che vedevo davanti ai miei occhi era profondamente diverso dall’immagine che avevo sempre percepito leggendo o vedendo rappresentazioni del luogo. Quando mi sono resa conto che esisteva un problema di rappresentazione della realtà, ho sentito l’esigenza di fare un lavoro che restituisse un punto di vista diverso. Per me è stato molto facile: gli ultimi sono sempre i primi.
È vero ciò che hai sottolineato sulle scene e sulle situazioni archetipiche nel luogo: è qualcosa che ho ricercato speso. Uno dei mezzi più potenti del cinema è quello di potersi immedesimare in mondi paradossalmente lontani che invece sono vicinissimi. La situazione tra madre e figlia che citi è uguale in ogni parte del mondo, chiunque può rivedersi. Il cinema è un mezzo anche un po’ politico per abbattere barriere e pregiudizi.
Punta Sacra porta appunto avanti la visione di un mondo periferico che può estendersi a tutte le periferie del mondo, di solito additate come la summa di tutti i mali. È facile prendersela con le periferie piuttosto che cercare la causa dei problemi che affliggono le nostre società e a pagare è sempre la povera gente, quella che non ha mai voce in capitolo. Nel tuo film, dai invece molta voce alla gente. E gran parte delle voci sono femminili. Sono quelle di madri, figlie, sorelle, amiche… Cosa hai portato o che cosa hai visto in quelle donne del tuo sguardo femminile?
Ho trovato una forza potentissima, a proposito del vulcano femmina di cui parlavamo prima, in tutte le donne che avevo davanti. Ma anche una grande capacità organizzativa e di mediazione, che ritengo una peculiarità anche molto femminile: là dove lo Stato è assente sanno organizzarsi come comunità. È sempre tutto in mano alle donne e il perché è abbastanza palese: quella dell’Idroscalo è una comunità in cui gli uomini sono spesso al lavoro.
Le donne sono chiamate a gestire le questioni più complesse, dai rapporti politici a quelli con le istituzioni. Si è quindi creato una sorta di Stato autonomo che, gestito da nuclei femminili, mi ha affascinato subito tantissimo. Ma ho amato anche il fatto che le nipoti e le ragazze più giovani fossero sempre coinvolte nella gestione delle questioni della comunità: sempre attive e mai isolate, una condizione che spesso è difficile trovare in altri contesti.
Una domanda che non ti sarai mai sentita porgere: i protagonisti hanno avvertito il peso della camera che li filmava?
All’inizio, sì. Ma dopo un po’ no. Ma spiego anche il motivo: abbiamo deciso di fare tutto il percorso insieme. Quindi, ho cercato il più possibile di stare in ascolto, di chiedere e di farmi guidare sul modo migliore per rappresentare tutti quanti. Ad esempio, quando ho lanciato l’argomento Pasolini (su cui si scontrano due amiche, Franca e Danila, ndr), l’ho fatto perché sapevo che avevano molta voglia di confrontarsi sulla figura del poeta e dell’uomo: lo facevano spesso e, quindi, era già qualcosa che vibrava tra di loro.
Collaborare e creare insieme qualcosa faceva dimenticare che ci fosse una regista che si imponeva: era a tutti gli effetti un lavoro collettivo. Seguivo il metodo del documentario di osservazione, che funziona avendo molta calma, facendo dei ciak molto lunghi e avendo la pazienza di saper aspettare. Un metodo che nel cinema più “organizzato” è difficile da tenere.
Cinema più organizzato che conosci ovviamente bene. Oltre a Succede, hai diretto episodi della serie tv Romulus 2 per Sky e stai codirigendo Supersex, la serie Netflix incentrata su Rocco Siffredi. Quali sono le differenze che incontri tra il cinema di finzione e il cinema del reale?
C’è una profonda differenza, anche se io cerco di non pensarci e di contaminare il più possibile i due linguaggi: penso che sia in generale una ricchezza per tutti i registi che hanno voglia di passare dall’uno all’altro. In Punta Sacra mi sono portata tutti gli strumenti del cinema di finzione. È un documentario che per i puristi del genere è abbastanza scioccante: ho usato ad esempio tantissima musica o scrittura, mezzi del cinema narrativo.
Quando lavoro nel cinema di finzione, invece, cerco sempre di fare tantissima ricerca e di guardare tanto alla realtà, anche se è una realtà lontanissima come quella di Romulus e di SuperSex. C’è sempre la volontà di lavorare col vero e di non essere astratti. Mi porto appresso l’approccio documentaristico anche con gli attori: lavoro tanto di improvvisazione e ascoltando. Cambio spesso anche il testo: non mi piace essere rigida, occorre sempre farsi stupire dalla vita e dall’inatteso anche quando si gira un film di finzione. Che poi è il motivo per cui faccio questo lavoro che non mi annoia mai.
Quanto girato hai realizzato per Punta Sacra?
È una domanda che ogni tanto mi fanno e la risposta è sempre la stessa: non ne ho idea. Ricordo che ho girato per 32 giorni. Però, c’erano giorni in cui non accendevo mai la camera e altri in cui giravo ininterrottamente. Non ricordo quanto ho girato, però ho tagliato un po’ di scene a cui tenevo, purtroppo.
Immagino quanto complesso possa essere stato il montaggio.
Il montaggio è stato uno dei momenti più istintivi che ho vissuto insieme alla montatrice Elisabetta Abrami, con cui mi sono diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia e con cui siamo molto amiche. Abbiamo portato avanti un lavoro di sperimentazione pura: quando ho steso tutto il materiale, non avevamo la più pallida idea di ciò che stessimo facendo. Per un mese intero, ci siamo chieste come organizzarlo, che forma dargli… fino a quando, a un certo punto, non ci siamo rese conto che c’erano dei temi che emergevano da soli. Ed erano temi che avevano a che fare soprattutto con l’appartenenza alla terra, con le proprie radici e spesso con la famiglia. Della salienza di alcuni momenti ero anche consapevole: mentre giravo, da spettatrice ero stupita da ciò che avevo davanti.
E quanto è stato importante il sostegno della produzione di Morel Film? Quanto Alessandro Greco ha creduto nel progetto?
Con Alessandro ci siamo fomentati da subito a vicenda. È stato una spalla, un braccio destro che ha lasciata sempre fare tutto ciò che volevo. Il suo sguardo era sempre presente quando gli chiedevo il suo punto di vista. Ed è stato abbastanza visionario. All’inizio non sapevamo dove saremmo arrivati però di una cosa eravamo sicuri: non volevamo realizzare qualcosa che rimanesse chiuso in un cassetto.
Quando abbiamo visto il primo montato, abbiamo capito di avere tra le mani un prodotto che poteva essere un po’ dinamite. Dopo la presentazione al Visions du Réel, abbiamo continuato a stupirci ogni giorno dei risultati che abbiamo raccolto. Ma il nostro punto di forza è stato quello di non esser partiti con l’ansia di arrivare chissà dove. Volevamo solo fare un lavoro sincero.
Eppure, Punta Sacra è a oggi uno dei film italiani più apprezzati e premiati al mondo. Come ci si sente a essere una delle documentariste più riconosciute del momento?
Mi fa strano. Innanzitutto, mi fa strano “documentarista” perché nella vita non ho mai pensato di fare la… documentarista! Non ho mai visto, come ti dicevo prima, la netta differenza tra cinema del reale e cinema di finzione. I riconoscimenti e i riscontri però mi hanno dato maggior forza per proteggere quelle storie, quei film e quei progetti che su carta sembrano un po’ più deboli o meno potenti: sono quelli che alla fine arrivano più avanti. Mi hanno dato molta energia anche sui progetti del futuro. Per me è iniziato tutto adesso e vorrei avere sette vite per fare tutte le cose che ho in mente. È tutto così caotico, controverso, ma bello.
Il documentario, soprattutto femminile, sta vivendo un periodo particolarmente fortunato. Penso ai circuiti festivalieri: all’ultima Biennale il Leone d’Oro è andato a una documentarista. Cos’ha lo sguardo femminile più di quello maschile?
Non tendo, in generale, a pensarci troppo. Quando per la prima volta mi hanno chiesto cosa vuol dire essere “registe donne”, io non mi ero nemmeno accorta che ero regista e donna: avevo solo tantissima voglia di fare. Però, oggi, devo ammettere che nel documentario c’è differenza di sguardo. Noi donne abbiamo grande voglia e capacità di stare in ascolto e di essere vicine a realtà anche molto lontane da noi. Abbiamo uno spirito esplorativo diverso e molta più calma: caratteristiche femminili che funzionano molto bene nel documentario.
Abbiamo la capacità di osservare, ascoltare ed entrare in empatia in una maniera estremamente delicata: serve per il documentario ma anche per la finzione. In noi c’è la voglia di armonizzare il gruppo, la troupe, gli attori: vogliamo un clima sano in cui tutti possono dare il meglio. Ed è qualcosa che le donne ricercano spesso e che in un prodotto come il documentario può fare la differenza.
È come se gli uomini fossero più portati a mandare avanti il loro lavoro senza farsi stupire o travolgere da ciò che accade intorno.
È un po’ il discorso che facevo prima sul metodo: quando lasci aperte le maglie della narrazione, puoi cogliere in ogni imprevisto qualcosa, per me, di vitale. Altrimenti, non ci sarebbe proprio ragione di fare questo lavoro.
E tu hai sempre voluto fare questo lavoro?
Sembrerò banale come risposta ma sì. Però, c’è stato un piccolo momento della mia vita in cui avrei voluto fare la rockstar. Poi ho capito che sarebbe stata una sofferenza per chi mi ascoltava e ho ripiegato su qualcosa che potesse coniugare le mie tante passioni e il mio desiderio di esplorare il mondo. Come persona, sono molto curiosa: scrivere e dirigere mi aiuta a soddisfare la smania di curiosità.
Curiosità che ti porta oggi a cimentarti con un argomento che per convenzione sociale difficilmente è associato alle donne: il sesso. Ovvero, la storia del sesso fatta persona, Rocco Siffredi. In SuperSex si racconterà della sua parabola personale e dei suoi demoni interiori. Cosa ti ha portata ad accettare questa nuova sfida?
Ciò che dicevo prima: andare con l’arte nei luoghi in cui si è andato poco. Il racconto della sessualità è qualcosa che avevo in programma di portare avanti da tempo. Ero alla ricerca di una storia che potesse raccontare del desiderio e della sessualità proprio non se ne parla spesso, soprattutto in Italia. Quindi, quando mi è capitato un racconto del genere, oltretutto scritto in maniera incredibile, non potevo non accettare.
C’è una sorta di continuità con il lavoro fatto con Punta Sacra: ogni volta che c’è un tabù o un luogo non sondato (o sondato poco) per me è stimolante addentrarcisi. Non ci possono accettare solo lavori comodi o che intrattengono: occorre anche spendere tempo in opere che possano creare dibattito, sono più stimolanti. Una storia come quella di Rocco Siffredi riguarda tutti: il sesso è un tabù ma paradossalmente è anche l’energia che muove il mondo e che fa da comune denominatore anche sociale. È l’unica cosa che ci unisce tutti!
È il denominatore che muove il mondo e che, se allarghiamo gli orizzonti, sta anche all’origine dell’uomo stesso. Il sesso è un tabù al pari della morte: riguarda tutti ma fatichiamo a parlarne. Riflettevo che ad esempio i francesi chiamano l’orgasmo la petit mort.
Non posso per ovvie ragioni parlarne ancora. Però, posso dire una piccola cosa: sesso e morte in SuperSex sono profondamente collegati. Ma non solo. Sorrido al tuo paragone. Sto lavorando a diversi progetti in questo periodo, sia documentaristici sia di finzione. E uno di questi ha come tema proprio la morte. Lo faccio anche e soprattutto per me: non si hanno tante occasioni di riflettere su temi così importanti. Non capita di parlarne spesso con gli altri. Quindi, quando c’è un progetto che ti permette di passarci con la testa mese se non anni sopra è una grande fortuna.
E in SuperSex trovi come protagonista Alessandro Borghi, attore che all’Idroscalo ha anche girato. È un po’ come se si chiudesse un cerchio su Punta Sacra.
Oltretutto, Alessandro Borghi è stato ospite al PuntaSacra Film Fest, evento che abbiamo organizzato in collaborazione con Alice nella Città all’Idroscalo per portare uno schermo nel luogo in cui abbiamo girato il film. Stavamo iniziando la lavorazione della serie e la sensazione è stata proprio quella di chiusura del cerchio: penso che certe anime siano destinate a incontrarsi a un certo punto. Ed è stata una grande fortuna incontrare Alessandro.
Come hanno reagito gli abitanti dell’Idroscalo rivedendosi sullo schermo?
Avevo già fatto con loro una proiezione prima che il documentario uscisse perché ero terrorizzata dalla loro reazione. E invece è stata una grande festa, anche perché si sono divertiti nel rivedere i diversi momenti di ironia di cui erano protagonisti. Hanno trovato nel film uno strumento in cui potevano riconoscersi e che potevano mostrare in giro non solo come un film, appunto, ma anche come mezzo politico: potevano portarselo appresso per le loro battaglie. Di fronte alle perplessità che potevano nutrire, hanno capito che il film era il punto d’arrivo più politico che potevano raggiungere: chiunque si sarebbe immedesimato in loro.
C’è nel film una sequenza in cui le ragazze devono preparare uno spettacolo natalizio cantando la versione italiana di Allellujah di Leonard Cohen. Sei credente?
No, non sono credente. Però, credo che tantissime cose che non trattiamo come tali siano sacre. Ho un grande senso mistico, se così lo vogliamo chiamare, ma devo ancora dargli una forma.
C’è però un capitolo di Punta Sacra che si chiama Fede.
Sì ma con il prete che dice che la fede secondo lui è anche un’altra cosa. E infatti il capitolo si è capovolto in festa. È quella per me la loro fede più bella: l’accoglienza e lo spirito di comunità. A volte è facile predicare principi che, profondamente cristiani, vengono dimenticati: ho trovato molto più profondo e stupendo quel tipo di purezza, di rispetto di Dio e di accoglienza che avevano loro rispetto a tante altre parole.