Francesco Acquaroli risponde con voce calma e solida al telefono, con un tono che esprime sin da subito qualcosa di profondo e autentico, come il suo modo di essere attore. La sua carriera si sviluppa con un gioco di contrasti, basandosi quasi sulle parole sole, cuore e amore, per citare il film di Daniele Vicari a cui ha preso parte: il sole che illumina il talento e la passione, il cuore che pulsa in ogni ruolo, e l’amore incondizionato per un mestiere che richiede tutto di sé.
Ciò che emerge, fin dai primi scambi, è la sua sensibilità umana, ben lontana dai personaggi sardonici e oscuri che spesso porta sullo schermo. Con Francesco Acquaroli ogni parola, gesto e ruolo diventano una forma di ricerca interiore, un modo per comprendere il mondo e, soprattutto, la complessità dell’animo umano. Ogni interpretazione è, in fondo, un viaggio, una sfida che lo porta a esplorare i confini tra la realtà e la finzione, tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere.
Berlinguer – La grande ambizione, il film appena presentato alla Festa del Cinema di Roma, rappresenta per lui solo un’altra tappa significativa del suo percorso. Interpreta Pietro Ingrao, un personaggio complesso e carico di storia, intriso di ideali e proiettato verso un futuro che ancora oggi riecheggia. "Ingrao era una figura affascinante, un punto di riferimento per i giovani e per i movimenti, un uomo capace di coniugare lotta e speranza in un tempo di grandi cambiamenti. Anche se il film non approfondisce tutto di lui, ho voluto fare ricerche per capire l'uomo dietro il politico", racconta Francesco Acquaroli, quasi a ricordare che, per lui, la preparazione a un ruolo non è solo tecnica ma soprattutto emotiva e intellettuale.
Francesco Acquaroli è un attore che incarna un’idea di dignità artistica sempre meno comune, un rispetto per il palcoscenico che lo ha accompagnato fin dai primi passi nel mondo del teatro. "La scena è il mio luogo d’elezione", afferma con fermezza, "l’unico posto in cui il tempo sembra dilatarsi, permettendomi di dare forma alle emozioni senza fretta, esplorando il personaggio con profondità". Tuttavia, non manca una nota di critica verso la realtà teatrale odierna, dove gli attori si scontrano spesso con l’ingiustizia di un sistema che non sempre riconosce il valore di chi porta avanti questo mestiere con dedizione.
Ma c’è un altro aspetto, altrettanto centrale, che traspare dal dialogo con Francesco Acquaroli, a fine novembre anche coprotagonista del film Sky La coda del diavolo: il costante equilibrio tra finzione e realtà, un ponte tra ciò che appare e ciò che è autentico. "Interpretare un personaggio negativo è un gioco liberatorio", riflette con un sorriso, "ti permette di esplorare lati che, nella vita reale, non toccheresti mai. E, allo stesso tempo, ogni personaggio mi costringe a guardarmi dentro, a sospendere ogni giudizio e a comprendere le ombre che abitano ognuno di noi".
Questo processo di immedesimazione e di sospensione del giudizio si riflette anche nel suo rapporto con i maestri e i registi con cui ha collaborato, da Matteo Garrone a Paolo Sorrentino, passando per Nanni Moretti e Costa-Gavras. "Ogni incontro è stato un gradino in più, un passo verso la conoscenza, perché quando lavori con chi ha grande talento e serenità scopri nuovi confini", racconta con riconoscenza. Sono incontri che gli hanno permesso di crescere come attore e di esplorare nuove dimensioni del proprio essere.
In Francesco Acquaroli, dunque, il sole, il cuore e l’amore per la recitazione convivono in un equilibrio unico, dove ogni personaggio rappresenta un’occasione per scavare più a fondo, per lasciarsi trasformare e per regalare al pubblico un’interpretazione che è, ogni volta, un dono sincero.
Intervista esclusiva a Francesco Acquaroli
“Un po’ triste per un collega che è venuto a mancare, Adamo Dionisi”, risponde Francesco Acquaroli quando gli si chiede come sta. “Ci eravamo conosciuti sul set del film Arance e martello di Diego Bianchi e sin da subito ho visto quanto fosse straordinario e bravissimo”. Francesco Acquaroli, lontano anni luce dai personaggi spesso sardonici che interpreta sullo schermo, mostra immediatamente una sensibilità che colpisce e che emergerà diverse volte nel corso della nostra conversazione. Lo spunto di partenza del nostro incontro è il film Berlinguer – La grande ambizione, nelle sale dal 31 ottobre per Lucky Red, appena presentato alla Festa del Cinema di Roma e valso il premio per la migliore interpretazione maschile ad Elio Germano.
“Il personaggio di Pietro Ingrao è interessantissimo ma, come per i tanti altri che compongono il film, non c’era molto spazio per raccontarlo. Il centro della narrazione rimane la figura di Berlinguer, vista anche all’interno della sua famiglia e non solo attraverso le sue lotte politiche, come quella nei confronti del comunismo sovietico nei confronti del quale aveva preso una sua posizione accogliendo le istanze dei partiti comunisti occidentali”, precisa subito Francesco Acquaroli quando comincia a parlare della sua ultima fatica. “Il tutto si concentra in pochi anni, dal 1973 al 1978, partendo da quello che è stato un vero e proprio attentato nei suoi confronti in Bulgaria per arrivare alla morte di Aldo Moro”.
“Non si è dunque potuto approfondire in scena chi fosse Ingrao ma per approcciarmi alla sua figura ho fatto le mie personali ricerche per capire chi fosse. Ho anche avuto il piacere di conoscere e incontrare le sue figlie che, parlandomi di lui, mi hanno aiutato a entrare nella sua psicologia e realizzare quanto fosse un uomo molto moderno e molto aperto per la sua generazione. Non a caso era il punto di riferimento dei giovani e dei movimenti giovanili, comprendendone e sintetizzandone le istanze. All’epoca ero quindicenne e ricordo come sia stato un grande personaggio”.
Nel delineare la sua figura, lo si ricorda spesso come un uomo proiettato al futuro, con un attenzione verso tematiche contemporanee come l’ambientalismo e il femminismo. Come si colloca Francesco Acquaroli nei confronti di due termini necessari per capire in che direzione sta andando la realtà?
Sono una persona che si interessa molto a ciò che gli accade intorno, non solo da un punto di vista professionale ma anche antropologico per comprendere come ci condizionino le cose che ci circondano, anche quelle che ci piacciono.
Penso, ad esempio, che non mi si possa tacciare di maschilismo. Tuttavia, per quanto io creda di essere totalmente affrancato da certi comportamenti e dai retaggi del patriarcato, una cultura che affonda le sue radici lontano nel tempo e di cui pian piano ci stiamo liberando, mi rendo conto che ci sono ancora scorie che continuano, anche inconsapevolmente, a inficiare i nostri comportamenti. Ne ho avuto la controprova qualche anno fa, quando nel prendere un aereo dagli Stati Uniti per l’Italia, sono rimasto perplesso di fronte a una giovanissima comandante donna.
Istintivamente, mi si è come chiuso lo stomaco al pensiero che potesse essere lei alla guida di quel mastodontico velivolo. Solo riattivando i neuroni mi sono dato del cretino decine e decine di volte, riflettendo su come certi pattern siano talmente interiorizzati da non rendersi conto di quanto ancora ci sia da fare e di quanta attenzione richieda anche il nostro pensiero per liberarsene: quei modelli che rifiutiamo continuano ancora ad essere ancorati da qualche parte in noi e ad agire. Mi sono vergognato come non mai: non bisogna mai dare per scontato che si sia voltato definitivamente pagina e occorre stare sempre all’erta.
Nel periodo raccontato nel film, lo hai ricordato, eri ancora un adolescente. Qual era la tua grande ambizione? Era già la recitazione?
No, la recitazione è arrivata dopo la maturità al liceo. Durante gli anni di scuola, mi vedevo più indirizzato verso l’architettura, che era all’epoca la mia grande passione. Ho capito solo dopo che ciò che mi interessava veramente era la recitazione. Mio padre avvocato e mia madre insegnante avevano la passione per il teatro e da piccolo mi portavano sempre con loro ad assistere agli spettacoli, un’abitudine che senza rendermene conto era germogliata dentro me…
Finite le superiori, infatti, continuavo ad andare a teatro anche da solo: come anche il cinema, mi emozionava e mi rapiva. Ma così tanto che, alla fine di uno spettacolo come di una proiezione, facevo fatica a ritornare alla realtà: avrei voluto rimanere dentro la dimensione del racconto. Ed è stato ciò che mi ha spinto a farmi più di una domanda, fino ad arrivare al momento in cui ho deciso di lasciare la facoltà di architettura…
…o, forse, no dal momento che comunque essere un attore vuol dire anche essere un architetto di anime. Cosa ti ha dato il teatro nel momento in cui lo hai calcato per la prima volta un palco e cosa continua a darti ancora oggi?
È una sensazione difficile da descrivere. Sul palco si prova una sensazione di calma, di grande agio e di dilatazione del tempo e dello spazio, che non vorresti più perdere. È come sentirsi nel proprio posto, l’unico in cui vuoi stare e vorresti stare sempre di più.
Tutto ciò che ci dà qualcosa chiede in cambio qualcos’altro: cosa ti ha tolto?
Appartengo a una generazione di attori che ha visto gli artisti cominciare pian piano a essere messi da parte, tant’è che i teatri sono diventati spesso degli stipendifici per troppi impiegati che, purtroppo, drenano tutti i soldi che dovrebbero invece arrivare in palcoscenico. Gli attori della generazione precedente alla mia erano persone benestanti mentre oggi coloro che fanno solo teatro e non lavorano nell’audiovisivo sono sempre vicini alla soglia di povertà.
L’involuzione a cui è andato incontro il teatro come istituzione ha fatto sì che gli attori fossero considerati come dei bulloni interscambiabili: “se non accetti questa paga, ne trovo altri diecimila al posto tuo”, ci si sente dire ma non è plausibile. È vero che li trovi, verrebbe da rispondere, ma non è vero che siano quelli che andranno bene per quel ruolo.
Tutto ciò per dire che quello che è accaduto ha tolto dignità alla professione stessa di attore. Non recrimino affatto le mie scelte ma ho vissuto una bella lotta interiore negli anni: oramai lavoro quasi esclusivamente con cinema e televisione e, se scelgo il teatro, lo faccio in ben altre condizioni rispetto a chi fa solo quella possibilità e si confronta con tanta, troppa fatica. E trovo ingiusto, ancor prima di sbagliato, che sia così: chi fa teatro oggi lo fa vivendo nell’illusione di ciò che poteva essere il teatro.
La precarietà e la mancanza di un equo compenso non interessano solo il mondo del teatro: sono problemi che i giovani di oggi affrontano in ogni ambito professionale al pari della mancanza di significato che si attribuisce al lavoro. Si è diventati tutti solo numeri da sbandierare in televisione per i politici che si ostinano a dichiarare che non c’è disoccupazione quando invece il problema persiste. Ed è anche di fronte alla possibilità di lavorare tutto il giorno per non guadagnare niente che poi assistiamo nel nostro Paese a un’emorragia di giovani che scelgono l’estero dopo la laurea per affermarsi professionalmente.
Hai mai avuto la tentazione di andare via? Del resto, le sirene dell’America più volte in passato ti hanno richiamato.
No, perché comunque sono a un punto della mia carriera per cui posso lavorare sia in Italia sia all’estero: in questo momento sono impegnato con la lavorazione per la serie tv Disney+ su Amanda Knox (in cui Giuseppe De Domenico interpreta Raffaele Sollecito, ndr). i sembra poi che per l’audiovisivo italiano, in attesa di una nuova legge sul cinema, stia vivendo in generale un buon momento… quindi, nessuna voglia di fuggire ma solo la consapevolezza che tutto il comparto del lavoro, di qualunque campo si stia parlando, andrebbe rinforzato, ristrutturato e ripensato: non si può lavorare per essere poveri, non ha senso.
Sono tanti i maestri, più o meno riconosciuti, che hai incontrato. Se dovessi sceglierne uno che più di altri ha segnato il tuo percorso, chi sarebbe?
Ho recitato nell’ultimo spettacolo (in cui era presente anche Franca Valeri) di Peppino Patroni Griffi… un incontro meraviglioso che purtroppo è arrivato tardi: era un uomo eccezionale e di grande spessore, divertente e facondo di aneddoti sulla sua cricca di Piazza dei Martiri a Napoli nel secondo dopoguerra. Tra l’altro, quel gruppo di giovani ragazzi preparatissimi, tra cui anche Giorgio Napolitano, furono cooptati dalla distrutta Italia per la sua ricostruzione.
Lo stesso Patroni Griffi mi raccontava, anche con grande stupore, di essere diventato capostruttura Rai per la Cultura a 27 anni, qualcosa oggi di impensabile, ritrovandosi a dare ordini persino a Carlo Emilio Gadda, un gigante assoluto della letteratura mondiale assunto come impiegato. Da lì a poco, poi, molte cose sarebbero cambiate e la televisione di Stato avrebbe cominciato quella pratica (forse mai finita) di occupazione di estensori dei politici che avrebbero preso il posto di chi certe posizioni le meritava veramente.
Passando dal teatro all’audiovisivo, quand’è stato il momento in cui Francesco Acquaroli si è detto di avercela fatta?
È una frase che non mi appartiene: non c’è mai un punto di arrivo e il prossimo lavoro sarà sempre il più importante. Sto sempre a pensare a cosa farò dopo ma, se mi guardo indietro, posso constatare che è stato bellissimo fare questo lavoro fino ad adesso. Avrei potuto fare di più? Sì, ma sono un po’ pigro. Quel di più che non ho fatto è dipeso da me e dalla fatica che mi comporta accettare determinate cose.
Ciò che più colpisce del tuo percorso è la varietà di maestri, giovani o anziani, con cui hai lavorato. Da Daniele Vicari a Nanni Moretti, passando per Costa-Gravas, Paolo Sorrentino e Abel Ferrara. È semplice passare da una generazione all’altra di autori rimanendo sempre se stessi?
Sono stato molto fortunato dell’aver fatto incontri che dal mio punto di vista sono stati tutti molto positivi perché mi hanno sempre portato a fare ulteriori passi in avanti. Lavorare con Matteo Garrone in Dogman è stato ad esempio meraviglioso perché è una persona oltre che un artista incredibile, al pari di lavorare con Mariasole Tognazzi per la serie tv Petra 3, in cui ho ritrovato piacevolmente Paola Cortellesi, conosciuta sul set di Gli ultimi saranno gli ultimi.
Ma tutti gli incontri mi hanno lasciato qualcosa, permettendomi di salire un gradino in più in alto, spingendoti anche là dove non pensavi di poter arrivare. È solo quando si lavora con persone che hanno grande talento, grande passione e grande tranquillità, che ci si rende conto di quanto oltre si possa ancora andare.
Berlinguer - La grande ambizione: le foto del film
1 / 18Hai recitato anche in Rocco Schiavone, al fianco di Marco Giallini. Nella serie tv, Schiavone ha una lavagna in cui segna quelle che per lo scrittore Manzini sono le “dieci rotture di coglioni” legate alla risoluzione di un caso. Quali sono, invece, secondo te le principali rotture di scatole per un attore?
La più grande di tutte per me è il trucco, soprattutto quando devi sottoporti a ore e ore di lavoro quando devono ad esempio invecchiarti. Ma anche struccarsi non è da meno: avresti voglia di andartene a casa dopo un giorno di fatica ma devi invece fermarti ancora sul set per levarti tutta quella roba di dosso.
Svegliarsi alle 4 del mattino perché alle 5 vengono a prelevarti per andare sul set non è poi il massimo. Non appartenendo alla categoria di coloro che si alzano all’ultimo minuto, sono in piedi con largo anticipo e farsi la doccia ancor prima che sorga il sole è una gran bella rottura. Si tratta comunque pur sempre di bazzecole…
La fama è una rottura? Recentemente intervistato, Al Pacino ha detto: “Ho cercato il successo ma non volevo la fama”.
La mia fama non è minimamente paragonabile a quella di Pacino per cui non potrei mai dire la stessa cosa: immagino che non sia facile uscire di casa ed essere costantemente fermato dalla gente. Anche se credo che New York, dove vive lui, sia molto simile a Roma per certi versi: come diceva Fellini, che pur adorava la capitale, è una città che ti azzera proprio perché, camminando per le strade, si è abituati da secoli a vedere un po’ tutti, dal Papa in giù.
…e interpretare soprattutto personaggi negativi lo è?
E io solo quelli faccio (ride, ndr). I personaggi positivi sono bellissimi ma quelli negativi hanno un risvolto meraviglioso: puoi per finzione immaginare di fare realmente ciò che nella vita non faresti mai. È un gioco molto liberatorio… Tuttavia, ci sono molti personaggi positivi che mi piacerebbe interpretare ma che, purtroppo, non mi propongono per una debolezza di pensiero, a cui il neorealismo prendendo gli attori dalla strada ha in parte contribuito: si associano con troppa facilità gli interpreti ai personaggi interpretati. Ed è una sciocchezza totale che in altri Paesi, soprattutto anglosassoni, non avviene.
Si tratta di un vulnus che non riguarda solo il pubblico “sprovveduto” ma anche gli addetti ai lavori o gente con una comprovata cultura o formazione: mi sono cimentato da attore molte volte nel crime e ho potuto vedere con i miei occhi anche scrittori con esperienze di magistratura alle spalle avvicinarsi a me con grande cautela per dirmi che non pensavano che fossi così come sono nella vita reale. Ed anche questo è figlio delle scorie della nostra cultura, in cui si vedevano gli attori come figuri che stavano fuori dal consesso della civiltà e venivano seppelliti al di là delle mura. Altrimenti non si spiega come io Francesco possa essere confuso con i loschi individui che spesso porto in scena: mi lascia attonito.
Dimenticano forse che una delle tue prime esperienze televisive è stata con la commedia pura, Casa Vianello…
Esatto. Ma poi ho anche recitato nel 1997 nella serie tv Il rosso e il nero nei panni del Conte d’Altamira, un ruolo bellissimo che era la fusione di ben tre personaggi del romanzo di Stendhal: una specie di nobile che portava nella Parigi bene dell’epoca quel provincialotto di Julien Sorel che era interpretato da Kim Rossi Stuart. Solo dopo sono arrivati i personaggi zozzoni…
…cosa gli zozzoni, come li hai appena definiti, ti hanno permesso di capire?
Che esiste un certo spaccato di società e che ci mette sempre a dura prova. C’era un attore, di cui non faccio il nome perché scomparso, che era fissato nel chiedere ai giovani scritturati se erano per la pena di morte o no per capire come reagivamo all’inciviltà che ci sta accanto o dentro casa. Il tema della violenza è purtroppo sempre attuale perché connaturata all’essere umano. Interpretare certi personaggi ti mette comunque costantemente a confronto con questo qualcosa di oscuro che ti costringe a prendere posizione… non si può fingere che non esista.
Da attore, tuttavia, sei costretto a sospendere il giudizio verso chi si macchia di determinate azioni. Devi fare un po’ come gli avvocati penalisti quando assumono un incarico. Mio padre, che penalista lo era, di fronte alle mie domande da bambino che gli chiedeva come facesse a difendere criminali o assassini, rispondeva sempre che il segreto stava proprio nel non giudicare e nel mettersi nei panni dell’accusato. E per un attore vale lo stesso per rendere un personaggio credibile. Anche perché, se non lo si fa, il risultato è visibile: palcoscenico o set rimangono sempre luoghi di verità in cui, anche se si fine, vien fuori sempre tutto… è il mistero pazzesco della recitazione.
Permette un personaggio negativo di giocare con le proprie ferite?
Sì, ma se hai la fortuna di non avere quelle ferite che potrebbero servirti devi sempre ricorrere all’immaginazione. Devi cercare dentro te di immedesimarti in una situazione simile e di immaginare di fare il peggio di cui potresti essere capace.
Qual è la cosa peggiore che potrebbe accaderti da attore?
Ovviamente sbagliare una scena, soprattutto su un set. Purtroppo, cinema e televisione cristallizzano il momento e rivedere quella cosa che hai fatto male anche a distanza di tempo diventa un tormento!
Sei iper critico nei tuoi confronti?
Non particolarmente. Semmai sono molto cauto nel riguardarmi perché ho avuto un grande maestro, Antonio Pierfederici, che mi ha fatto capire quanto la vanità e il narcisismo siano il vero ostacolo, il vero demone da evitare per un attore. Si tratta di meccanismi anch’essi inconsci e automatici che temo come la peste. Sul set, a meno che non lo richieda il regista per darmi indicazioni, evito di farlo.
Paolo Sorrentino ti ha diretto per uno spot televisivo. Ma non è stata l’unica esperienza per la pubblicità: nel 2018 hai prestato la tua voce a Medici senza frontiere, mostrando forte impegno civile.
Con tutto il rispetto per gli altri, sono quelli come Medici senza frontiere o Emergency gli esempi da seguire. Tra l’altro, quando capita, provo anche un po’ di vergogna: mi sembra di avere un ritorno di immagine grandissimo non facendo praticamente nulla. Però, sono anche consapevole di come metterci la faccia sia cosa buona e giusta se può essere d’aiuto. L’ho fatto con grande piacere, anche se rimango del parere che la beneficenza vada fatta senza dirlo…