Francesco Cavestri, giovane pianista e compositore, torna finalmente a suonare nella sua amata Bologna, la città che lo ha visto nascere e crescere artisticamente. Dopo diversi mesi di lontananza, torna per due importanti eventi: il 26 giugno 2024 suonerà per la 2ª edizione di Un’Estate al Castello a Bentivoglio, mentre il 7 luglio 2024 sarà protagonista a Fienile Fluò per la rassegna Scena Natura di Bologna Estate.
Il ritorno a Bologna è per Francesco Cavestri motivo di grande gioia ed emozione. Questa città, che ogni anno dedica una rassegna esclusivamente alla musica jazz, è per lui un luogo speciale dove ha mosso i primi passi nel mondo della musica e ha sviluppato la sua carriera. Nonostante i lunghi periodi trascorsi lontano, Francesco Cavestri ha sempre trovato in Bologna un ambiente stimolante e ricco di opportunità, grazie anche all'università e ai tanti giovani che animano la città. La sua formazione al Conservatorio di Bologna e l'esperienza al Berklee College of Music di Boston hanno arricchito il suo percorso, permettendogli di crescere sia come musicista che come individuo.
Nonostante gli inevitabili sacrifici richiesti dal suo percorso, come le rinunce a qualche uscita con gli amici per dedicarsi allo studio del pianoforte, Francesco Cavestri non ha mai vissuto questi momenti come privazioni. La passione per la musica è sempre stata il motore che ha guidato le sue scelte, bilanciando lo studio con altre attività e esperienze che hanno contribuito a formare la sua personalità artistica.
Il ritorno a Bologna segna un momento importante nel tour di Francesco Cavestri, che dopo aver registrato il sold out al Blue Note di Milano e aver collaborato con Fabrizio Bosso e Paolo Fresu, continua a portare la sua musica in tutta Italia. La sua capacità di comunicare emozioni attraverso il pianoforte, unita alla passione per la ricerca e lo studio, rendono ogni suo concerto un'esperienza indimenticabile.
Francesco Cavestri è un esempio di come la dedizione e la passione per la musica possano portare a risultati straordinari, superando i confini dei generi musicali e creando qualcosa di veramente unico. Tornare a suonare nella sua città natale, davanti al pubblico che lo ha visto crescere, è per lui un onore e un'emozione che condividerà attraverso la sua musica.
Intervista esclusiva a Francesco Cavestri
Com’è tornare a suonare a Bologna, la città in cui sei nato e cresciuto?
Tornare a suonare a Bologna è molto bello, soprattutto perché mancavo da un po', da novembre 2023. L'ultimo concerto che ho fatto qui è stato in Piazza Maggiore a settembre 2023, durante il Festival La strada del Jazz. Bologna è una città che dedica ogni anno una rassegna esclusivamente alla musica jazz, il che dimostra quanto sia importante questa musica per la città. Tornare qui è sempre emozionante, è la città in cui sono nato e cresciuto, dove ho iniziato a fare i primi concerti e mi sono formato artisticamente: ho studiato al Conservatorio di Bologna.
Ti sei sempre sentito accolto a Bologna?
Sì, devo dire che è sempre stata una città molto stimolante. Non sono mai mancate le opportunità, sia di concerti che di scambi artistici. È una città molto attiva, anche grazie all'università e ai tanti giovani che la frequentano, creando una dimensione di scambio culturale, artistico e personale molto interessante. Ho costruito rapporti personali profondi anche con studenti che venivano da fuori a studiare qui. Per quanto mi riguarda, ho sempre cercato di tenere unire le varie sfere e di costruire legami personali anche laddove quelli professionali erano in predominanza: è una realtà che ho vissuto sia a Bologna sia a Milano.
Quanti anni hai?
21 anni. Ho completato una triennale in pianoforte jazz al Conservatorio di Bologna e ho fatto anche un periodo di studi al Berklee College of Music a Boston, che è stato molto stimolante.
La domanda era funzionale per chiederti quali sacrifici fa un ragazzo che scopre per la prima volta il pianoforte a quattro anni. Quali sono state le rinunce?
Al di là del Conservatorio, ci sono stati anche tanti anni di lezioni da privati e il frequentare le scuole medie musicali, che hanno poi dato una bella accelerazione soprattutto dal punto di vista della passione e del coinvolgimento verso la musica e verso lo strumento. Sicuramente ho rinunciato a qualche uscita e festa per studiare, ma non l'ho mai vissuto come un sacrificio: quando fai qualcosa che ti piace, non ci pensi troppo.
Ho avuto un'adolescenza normale, tra scuola e sport, e ho sempre cercato di bilanciare lo studio del pianoforte con altre attività. Credo che per creare qualcosa di artistico sia fondamentale vivere altre esperienze e avere altri interessi. La differenza, poi, la fa il mettere delle priorità: lo studio diventa quella centrale ma non significa non vivere: la musica deve comunicare le emozioni, quello che vivi e quello che hai vissuto, le esperienze fatte, le emozioni che provi nella vita di tutti i giorni.
Cosa ti spingeva a quattro anni verso il pianoforte? La tua spinta interiore o la volontà dei tuoi genitori che avevano notato una certa propensione?
I miei genitori. Non erano e non sono musicisti, non avevano una sensibilità di un certo tipo ma di sicuro avevano quella da ascoltatori: mi hanno spinto sin da piccolo a intraprendere lo studio delle strumento. Ma di mio ho fatto il salto di qualità capendo che era una passione fortissima e travolgente quando ho frequentato le medie: vivendo in una classe di tutti musicisti, ho sperimentato un bel discorso comunitario che sicuramente mi ha aiutato a considerare la musica come qualcosa di importante. Con il conservatorio, ho avuto modo di approfondirla, proseguendone lo studio in America e tenendo i primi concerti.
La scintilla si è accesa poi definitivamente con la registrazione del mio primo album, Early 17, a diciassette anni, ragione per cui ancora oggi nei concerti eseguo sempre brani tratti da quel lavoro che vantava anche la collaborazione del trombettista Fabrizio Bosso in due tracce. È stata la mia folgorazione sulla via di Damasco.
Quando è stato il momento in cui per la prima volta ti sei detto "bravo" esibendoti in pubblico?
Raramente mi capita di dirmi "bravo": siamo sempre i giudici più severi di noi stessi. Di recente, però, ho fatto un concerto al Blue Note di Milano che mi è rimasto molto impresso e di cui sono stato molto orgoglioso, sia per il clima che si è creato sul palco sia per come è andata la serata.
Anche un altro concerto per Piano City Milano, sotto la pioggia, è stato memorabile. Nonostante il maltempo, il pubblico è rimasto fino alla fine, il che è stato molto emozionante. Ho suonato per un’ora e venti sotto la pioggia da solo e sono entusiasta di come ho gestito una situazione così paradossale: è stato quasi magico vivere il momento in cui mi esibivo in un pezzo dal titolo Un respiro e il pubblico ha capito come tra musica e pioggia ci fosse un legame.
L’incasso del concerto del 26 giugno a Bologna sarà devoluto per intero all'Istituto Ramazzini. Quanto è importante per te unire musica e solidarietà?
È estremamente importante. Così come è estremamente trasparente la beneficenza: non ci saranno pandori, panettoni o uova di Pasqua, per dirlo con una battuta quasi scontata… L’Istituto Ramazzini fa un lavoro straordinario nella ricerca indipendente contro il cancro e le malattie ambientali. Il biglietto del concerto, dal costo di 15 euro, è interamente devoluto a loro. È fondamentale sostenere queste cause, soprattutto in un momento storico come questo, con i cambiamenti climatici che influenzano la nostra salute.
Il concerto si terrà in un luogo meraviglioso: la corte di un castello medievale a 20 minuti di macchina da Bologna. Ci ho suonato già lo scorso anno per la prima edizione del festival che mi ospita e sono l’unico artista a concedere il bis per via del riscontro ottenuto. E sarò lì con il mio gruppo, con Gianluca Pellerito e Riccardo Oliva, due musicisti di altissima levatura con cui ho condiviso l’esperienza al Blue Note e con cui presenteremo brani appartenenti ai miei album.
A proposito di location meravigliose, oltre al concerto del 26 giugno al Castello di Bentivoglio, il 7 luglio sarai a Fienile Fluò per la rassegna Scena Natura.
In un luogo molto speciale, con un palco immerso nei calanchi dei colli bolognesi, con un panorama mozzafiato: devo dire che mi capita spesso di suonare in luoghi dalla bellezza disarmante. In questo caso, però, mi esibirò da solo portando in scena alcuni miei brani originali ma anche reinterpretazioni di pezzi di artisti che hanno letteralmente plasmato la mia formazione e il mio percorso artistico come Ryuichi Sakamoto, i Massive Attack, i Coldplay o i Radiohead. Sono tutti artisti molto differenti tra loro ma da sempre cerco di dimostrare come il jazz possa essere il collante di generi tra loro molto diversi.
Poi il 12 luglio sarò all'AmbriaJazz Festival vicino a Sondrio, e il 18 luglio suonerò sul Lago di Bracciano per il Festival Trevignano Romano. Sono molto contento di queste date, perché ogni luogo ha una sua magia particolare.
Iki – Bellezza ispiratrice, il tuo terzo album in cui hai collaborato anche con Paolo Fresu, è stato influenzato dalla filosofia giapponese. Come si coniuga con la musica?
Iki è un termine della filosofia giapponese che indica una ricerca estetica appassionata e costante. L'album, con le sue tracce molto diverse tra loro, esplora le immense possibilità che la musica può offrire e regalare, dimostrando come il jazz possa dialogare con altri generi come l'elettronica, l'hip hop e il trip hop. È il mio antidoto all’omologazione della proposta musicale che, purtroppo, spesso ci viene propinata in Italia, dove c’è una sorta di standardizzazione che vuole il jazz di nicchia e incapace di comunicare con gli altri generi.
Sono molto ispirato da artisti come Ryuichi Sakamoto, un’icona che ha unito sonorità occidentali ed orientali, creando qualcosa di unico, sin dal suo primo lavoro: per me, non è solo un punto di riferimento musicale ma anche filosofico per il suo modo di porsi e dialogare. Di lui, mi ha fatto innamorare la sua ponderazione, il suo pesare ogni gesto, ogni suono e ogni parola.
Alla mia passione per la filosofia giapponese, ha contribuito anche la lettura di La struttura dell’iki di Kuki Shuzo, un grande filosofo vissuto tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento che nel libro analizzava profondamento il termine iki.
Ricerca e studio sono due termini fondamentali per te. Quanto tempo dedichi loro?
Richiedono un impegno totalizzante. Dedico molto tempo sia allo studio tecnico del pianoforte che alla ricerca artistica e creativa: l’aspetto artistico non deve essere subordinato alla tecnica ma questo non significa che non passi tempo a studiare lo strumento. È fondamentale bilanciare entrambi gli aspetti con la stessa passione e lo stesso trasporto: per come la vedo io, lo studio rinforza ciò che già si è acquisito rispetto al proprio strumento mentre la ricerca è l’esplorazione dell’ignoto per creare qualcosa di nuovo e significativo.
Tu e Francesca Tandoi avete un percorso per certi versi similari. A te è mancata casa quando eri negli USA?
A differenza di Tandoi che è stata molto tempo all’estero, io sono stato oltreoceano diverse volte ma sempre per periodi limitati di tempo. Non mi è dunque mancata casa… forse a me manca l’opposto, lo stare in quei luoghi per periodi più prolungati per rafforzare legami e prospettive artistiche. Non avevo nostalgia di casa, c’era semmai l’adrenalina dello scoprire un mondo nuovo, di creare nuove relazioni e di suonare con musicisti che venivano dall’altra parte del mondo.