In un momento di riflessione e tranquillità, Francesco Maria Mancarella apre le porte del suo mondo, condividendo il suo percorso di crescita personale e artistica. "Sto molto bene," esordisce con un tono pacato e sereno, segno di un periodo positivo della sua vita, caratterizzato da una consapevole messa in ordine delle esperienze vissute nell'ultimo anno e mezzo. Questo processo di riorganizzazione personale non è solo un modo per fare i conti con il passato, ma anche per prepararsi a ciò che il futuro ha in serbo.
Il viaggio di Francesco Maria Mancarella negli ultimi diciotto mesi è stato ricco e variegato, iniziando con un sogno realizzato: esibirsi negli Stati Uniti. La chiamata del Consolato Italiano per organizzare un concerto a Miami alla Steinway Hall Gallery ha aperto le porte a un'esperienza indimenticabile, fatta non solo di successi lavorativi ma anche di incontri significativi che lo hanno fatto sentire "a casa" lontano da casa.
La svolta professionale arriva con una telefonata inaspettata da Alessandra Amoroso, consolidando un'amicizia di lunga data e prospettando nuovi orizzonti. La proposta di diventare il direttore d'orchestra per la sua partecipazione a Sanremo 2024 si trasforma da semplice ipotesi a realtà concreta, segnando l'inizio di un'avventura che andrà a influenzare profondamente non solo la carriera di Francesco Maria Mancarella ma anche il suo percorso personale.
Nei diciotto mesi, Francesco Maria Mancarella trova il tempo di dedicarsi a un progetto discografico dal forte impatto emotivo: la registrazione del suo terzo album solista, Nord (Sony Music Italia), in Islanda. Questo viaggio si rivela un'esperienza trasformativa, offrendo non solo uno sfondo magico per la sua musica ma anche l'opportunità di connessione profonda con sé stesso e con il suo team di collaboratori.
L'intervista si addentra poi nelle origini della sua passione per la musica, toccando temi quali l'innovazione artistica rappresentata dal suo "pianoforte che dipinge", l'impegno verso la musica come via di vita piuttosto che come semplice professione, e la relazione speciale con il mare, fonte di ispirazione e serenità.
Attraverso questa conversazione, emerge il ritratto di un artista completo, capace di navigare tra successi internazionali e progetti personali con umiltà e determinazione. La partecipazione a Sanremo 2024 con Alessandra Amoroso non rappresenta solo un traguardo professionale, ma un capitolo fondamentale di un viaggio artistico e umano ancora tutto da scrivere.
Intervista esclusiva a Francesco Maria Mancarella
“Sto molto bene”, mi risponde Francesco Maria Mancarella con un tono di voce pacato e sereno. “È un bel periodo della mia vita: sto cominciando a mettere un po’ in ordine ciò che mi è successo nell’ultimo anno e mezzo. E, quando metti in ordine, è sempre qualcosa di buono: vuol dire che puoi far pace con i tuoi eventuali errori e capire cosa in aspetta in futuro”.
E cominciamo proprio da quest’ultimo anno e mezzo della tua vita. Cosa è successo?
Tutto parte da un concerto che ho tenuto a Miami. Era da tanti anni che volevo esibirmi negli USA e portare lì il progetto del pianoforte che dipinge, sogno che si è concretizzato quando sono stato chiamato dal Consolato Italiano e ho avuto la possibilità di organizzare un concerto alla Steinway Hall Gallery. Ho trascorso lì quindici giorni meravigliosi: al di là dell’aspetto lavorativo in sé, ho incontrato e conosciuto delle bellissime persone che mi ha fatto sentire a casa.
E, mentre mi trovato in Florida, ho ricevuto una telefonata di Alessandra Amoroso, con cui ho uno splendido rapporto di amicizia da tempo. Si trovava a Los Angeles per un suo progetto e mi esprimeva il desiderio di venire a vedere il mio concerto americano. Ed è così che abbiamo passato del tempo insieme e che durante una delle nostre cene, parlando delle rispettive prospettive per il futuro, con una battuta mi ha detto che se un giorno fosse mai andata a Sanremo avrebbe voluto me come direttore d’orchestra. Un’ipotesi che poi tra fine ottobre e i primi di novembre ha cominciato a trasformarsi in realtà: Alessandra avrebbe presentato un brano…
Iniziava così quel percorso che in qualche modo mi avrebbe anche cambiato la vita non tanto dal punto di vista professionale ma delle esperienze personali. Ho sempre cercato di cogliere tutto ciò che mi avrebbe arricchito e di svolgere tutti i compiti che mi erano affidati senza farmi trovare impreparato: in un certo senso, ero pronto a farlo anche questa volta.
Ma hai trovato anche il tempo in quest’anno e mezzo di andare in Islanda per registrare le due parti del tuo progetto discografico, Nord.
Si è trattato di un viaggio nato per registrare il disco in una terra magica che permette di trovare anche se stessi. Si trattava del mio terzo disco da solista ma del primo che usciva con una major: di fronte all’importanza del progetto, volevo andare in un posto in cui potevo perdere tutta quella velocità che caratterizza la vita di tutti i giorni e trovare la piacevole lentezza di mettermi al pianoforte per restituire le emozioni che nel frattempo vivevo.
Ho scelto come compagni di viaggio tre persone per me fondamentali non solo per la mia vita ma anche per il mio progetto: Serena, Michele e Martina, che si sono poi occupati della gestione e della realizzazione dei contenuti che sarebbero finiti sulle mie pagine o per la promozione. Ci siamo anche molto divertiti, oltre che sorpresi: lo scatto di copertina non è altro che una foto che coglie il momento in cui rimaniamo sbalorditi dalla visione per la prima volta dell’aurora boreale e della sua luce, qualcosa che chi come me viene da Lecce non è abituato di certo a vedere tutti i giorni.
Quell’attimo è stato quasi come un insegnamento da portare sempre con noi: occorre essere sempre sorpresi da ciò che la vita riserva e non aspettarsi mai nulla. Solo così ci si può godere a pieno qualsiasi cosa di bello arrivi.
Ti affascinava l’idea che l’Islanda fosse la terra dei Sigur Ros?
Più che altro, l’ho sempre vista come la terra di Bjork. Provengo da una famiglia di musicisti (porto avanti lo stesso lavoro di mio nonno, mio padre e mio fratello) e sono cresciuto in una sorta di bolla sonora che mi ha permesso di ascoltare tantissima musica anche non convenzionale. Ricordo ancora quando mio padre mi fece sentire i primi dischi di quest’artista così poco etichettabile: rimasi affascinato dal suo non avere forma e non rispondere a standard predefiniti.
Di conseguenza, associandola all’Islanda, ho sempre considerato quel paesaggio come qualcosa di unico dove poteva succedere di tutto. E così è: sembra di essere in una terra aliena in cui non ci sono alberi, gli agenti atmosferici sono differenti e la concezione del mare è totalmente differente dalla nostra… lo si guarda ad esempio con timore: la gente non fa il bagno per paura di essere inghiottito dalla potenza delle onde. È diverso anche il modo che le persone hanno per relazionarsi con gli altri.
Per uno come me che è molto attaccato alla sua terra ha voluto dire molto. Ho cercato di mettere insieme il mio mondo con quello che avevo davanti, tanto che nella seconda parte di Nord c’è un brano intitolato Beddha ci dormi, che attinge a una canzone popolare della tradizione salentina. Mi piace portare la mia musica popolare ovunque io vada: l’ho fatto anche a Miami ed è un modo per far conoscere il posto, bellissimo, da cui vengo, quella culla magica e unica del Mediterraneo che nei secoli ha abbracciato tanti popoli differenti.
Al mare tu sei particolarmente legato…
In questi ultimi anni ho fatto una scelta di vita molto particolare: vivo sei mesi al mare e sei mesi in città. Vivere al mare mi aiuta a concentrare le idee, a capire quello che devo fare e a realizzare i miei quadri con il pianoforte. Avevo prima un laboratorio in cui farli ma per due anni non sono riuscito a dipingere nulla in quel contesto, forse perché non c’erano finestre: pagavo l’affitto inutilmente. Quando poi ho deciso di portare il pianoforte nella casa al mare è cambiato tutto: vedo il giardino, sento il profumo delle onde, scorgo animali che in città solitamente rifuggono alla vista…
Come ben racconta un libro bellissimo che si chiama Il paesaggio sonoro, tutto ciò che vediamo o sentiamo influenza chi siamo e cosa facciamo. Ed ecco perché casa al mare è diventata ormai il mio posto del cuore: mi permette di cogliere realtà che in città mi sfuggono, per certi versi il silenzio diventa ancora più assordante del rumore.
Cosa ti ha spinto a 23 anni a dare vita al pianoforte che dipinge, un progetto unico e inedito.
Ci sono due differenti spiegazioni, una più ufficiale e l’altra meno, che non ho mai raccontato prima perché nessuno me l’ha chiesto. Sono di mio una persona molto creativa e la curiosità mi ha salvato da tante cose perché mi ha aiutato a guardare il mondo con occhi diversi e a fare scelte diverse.
In quegli anni, avevo come vicino di casa un collezionista d’arte contemporanea che acquistava le opere all’asta. Un giorno, sono andato a trovarlo a casa sua per dirgli che mi dispiaceva del furto d’auto che aveva subito: la sua risposta mi ha particolarmente colpito… “Lascia perdere perché ho appena acquistato un quadro che voglio farti vedere”: da persona non ricca, avrebbe potuto usare quel denaro speso per acquistare una nuova auto ma non l’ha fatto, ha preferito un quadro. E dal suo sorriso ho percepito quanto importante fosse stato per lui farlo: ciò che agli occhi degli altri poteva sembrare follia o incoscienza, era bellezza ai suoi.
Ma ho anche pensato, in quell’occasione, fino a che punto può spingersi l’egoismo dell’essere umano: il collezionista non fa altro che togliere un’opera d’arte dallo sguardo degli altri. E se anch’io avessi potuto avere una musica solo per me per poi donarla agli altri sotto forma nuova e in maniera unica? Ed è in quella stessa notte che è nato il pianoforte che dipinge o, meglio, il suo funzionamento sulla carta. Le difficoltà sono arrivate quando poi dovevo farlo capire agli altri… ci sono voluti ben due ingegneri per creare il brevetto. Come spesso accade, la difficoltà non sta nel creare qualcosa ma nel portarla a compimento.
C’è tanta gente che è creativa e ha giornalmente delle intuizioni che non sempre vengono portate a termine. A fare la differenza è la cocciutaggine, quella forma di testardaggine che nel mio caso avevo perché necessitavo di scommettere su qualcosa che fosse solamente mio. Mio padre è sulla scena musicale pugliese da parecchi anni, a detta di tutti è una persona molto in gamba e ha alle spalle collaborazioni eccellenti: facendo il suo stesso lavoro, era lui il mio metro di paragone. Avevo bisogno di una mia identità.
L’hai mai sofferta come condizione?
No, sia chiaro: è qualcosa che racconto anche con serenità e gioia. Sono fiero del percorso che ho fatto e, se l’ho potuto fare, è stato grazie a mio padre, colui che per me è stato tutto non solo un maestro. Parlavo di identità perché, fondamentalmente, non mi sono mai sentito solo un pianista: la composizione mi ha aiutato a capire che peso avesse per me il momento creativo e come indirizzare tutte le mie esperienze verso la creatività. Oggi è per me limitante pensarmi solo come pianista: il pianoforte è sì quello strumento che mi permette di arrivare alla gente ma non è solo quello, ha molto altro dietro.
Qui si aprirebbe anche una parentesi su come al conservatorio insegnino a diventare esecutori e non compositori…
Sono entrato in conservatorio quando avevo otto anni ma ho vissuto molto male l’aspetto legato alla musica classica… ma così male da non voler più suonare. Sono riuscito a diplomarmi in pianoforte jazz grazie al mio ultimo maestro, colui che mi ha lasciato la libertà estrema di fare e di essere cosa o chi volevo io: Luigi Bubbico. Nella prima parte del mio percorso, ho preferito abbandonare il Conservatorio per continuare a suonare musica pop: è stato mio padre a insegnarmi tutto ciò che so, con la scuola di musica, L’Arca del Blues a Lecce, che gestiva e che oggi gestiamo io e mio fratello.
Stavo in mezzo a bambini più piccoli di me e ciò forse mi ha spinto anche a volermi preparare al meglio, vivendo una sana competizione con chi con meno anni di me avrebbe potuto superarmi. È stata una palestra incredibile che mi ha riavvicinato allo studio. Tanto che, dopo il diploma in pianoforte jazz, ho voluto studiare composizione con un'altra figura per me importante, il maestro Giuseppe Gigante. Da lui ho appreso le tecniche di composizione, come si scrive per un’orchestra o come si imposta una partitura…
Oltre alla scuola di musica, tu e tuo fratello avete anche uno studio di registrazione e produzione, dove mettete al servizio dei ragazzi che provano a trasformare una passione in lavoro, tutta la vostra esperienza.
Non è facile vivere di musica e mi piacerebbe che i giovani lo capissero: non tutti sono così fortunati da riuscirci. Ho anche scritto un libro che si chiama Come vivere di musica (Progetti Sonori Editore, ndr) in cui racconto la mia storia e spiego ai ragazzi che la ricerca del tutto e subito qui e ora non porta da nessuna parte. Non si fa musica per un obiettivo finale ma solo per se stessi: almeno così è stato me. Tutto quello che è venuto dopo è stato quasi accessorio, è sempre stata la musica il mio punto di riferimento importante.
E lo hanno capito anche gli altri, a partire dalla stessa Alessandra Amoroso: mi ha voluto come direttore d’orchestra, nonostante non l’avessi mai fatto, perché sapeva che avrei ricoperto quel ruolo nei migliore dei modi per l’amore che ho nei confronti della musica. Lo dico anche con grande orgoglio: non avrei potuto fare altro nella vita. Quella di impegnarsi al 100% solo con la musica è stata una scelta precisa, limitante ma precisa, baciata da un pizzico di fortuna… ma la fortuna da sola non servirebbe se dietro non ci fosse la scelta di non mollare mai, neanche di fronte ai sacrifici.
Considerando il rispetto che hai per la musica, non ti dà fastidio tutto il contorno che spesso si porta sul piatto di Sanremo? Penso ad esempio alla deriva che ha preso quello che era nato come un gioco innocente, il FantaSanremo…
Sinceramente? No. L’importante è che non si perda il rispetto nei confronti di un professionista che sta eseguendo ciò che c’è scritto in una partitura (anche se nel mio caso, la conoscevo a memoria!). Dal mio punto di vista, era anche necessario avere l’abito giusto e porgere il sorriso alla telecamera: stavo facendo qualcosa di molto bello ed era giusto che chi era a casa mi vedesse felice di essere lì… felice di dirigere un’orchestra di sessanta persone che mettono il cuore in quello che fanno, che per un mese lasciano a casa le loro famiglie e che si sottopongono a un lavoro abnorme.
Il resto ci può anche stare: un professionista è obbligato a dare il meglio di sé nelle condizioni in cui viene messo. E io ho avuto la possibilità di far suonare tutta l’orchestra (il brano si prestava molto), di valorizzare al meglio la performance dell’artista sul palco e di curare anche un medley musicalmente complicato. Non perché fossero complicate le canzoni in sé ma per vie dei tanti stacchi e cambi di cui la partitura doveva tenere conto: il direttore d’orchestra è il punto di riferimento di tutti quanti, colui che rende gli altri ancora più sicuri della loro prova.
Sicurezza che non sembra essere mancata ad Alessandra Amoroso. Sotto molti punti di vista, è una macchina da guerra.
Non so se avrei accettato se sul palco ci fosse stato qualcun altro. Alessandra è una professionista instancabile che non si tira mai indietro di fronte a nulla. Ha lavorato in maniera attiva alla composizione del brano, non lo ha solo cantato ma ha contribuito sia al testo sia all’orchestrazione. E lavorare con chi ti vuol bene e dispensa sorrisi ha sempre un valore aggiunto.
Quando hai capito che stavi “baciando il vento” (tanto per citare il titolo di una delle tue composizioni?
È accaduto durante la seconda o terza prova generale con l’orchestra. Sono subito dopo uscito dall’Ariston per tornare a Roma ed è stato lì che ho pensato a come mi fossi emozionato nel capire di avere scritto una partitura che era stata resa al 100% da tutti. Per Alessandra, ero una scommessa: ha sempre creduto nei giovani e nelle persone del suo territorio che reputa validi. Vincerla, è stato il mio modo per ringraziarla.
Quand’è che invece nella vita ti sei dato da solo una pacca sulla spalla?
Il pianoforte che dipinge è stato una bella pacca sulla spalla. Non ci credeva nessuno e non avevo i soldi per realizzarlo. Non volevo chiederli a casa perché da sempre ho cercato di fare tutto da solo e, con le spalle al muro, chiamai un mio amico, colui che poi è diventato ed è ancora il produttore esecutivo del progetto, Antonio Greco. Mi diede tutti i risparmi che aveva e grazie a quella cifra abbiamo costruito il pianoforte che dipinge…
Ci diede poi mia nonna una stanza di casa sua dove suonare ma rimaneva da pagare il pianoforte acquistato da un commerciante: era un esemplare rotto che non avrebbe mai più potuto suonare e per pagarlo gli diedi in cambio uno specchio bellissimo che stava in casa… era di mia zia e valeva almeno dieci volte quel pianoforte! Però, ricordo ancora la gioia negli occhi di tutta la mia famiglia la prima volta che sono venuti a un’esibizione aperta ai familiari…
La musica non è niente se tu non hai vissuto, recita il titolo di una canzone. Ti ha mai privato di qualcosa la musica?
Mi ha dato ma mi ha tolto tutto il resto. A un certo punto della mia vita è come se mi fossi alienato dal mondo e, quando me ne sono reso conto, un po’ me ne è dispiaciuto. Ma non si può sempre avere tutto, qualcosa la si perde sempre per strada, un po’ come in amore.
E in amore?
Ho la grande fortuna di avere al mio fianco una compagna con cui sto da 12 anni, da quando è cominciato questo mio percorso di vita. Mi ha aiutato e, soprattutto, capito, comprendendo anche i momenti in cui necessitavo di stare concentrato solo sulla musica. Ma non poteva essere diversamente: è stata proprio la musica la nostra base comune.