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Francesco Panella: “Dedizione e costanza: la mia Little Big Italy” – Intervista esclusiva

francesco panella
Tornato a condurci tra i ristoranti italiani in giro per il mondo, Francesco Panella racconta a The Wom le ragioni dietro a un successo come Little Big Italy. Ma l’occasione ci fornisce lo spunto per approfondire la storia della sua attività di famiglia, ormai secolare, e il suo percorso imprenditoriale, fatto di dedizione e costanza, soprattutto nei momenti più difficili.
Nell'articolo:

Dallo scorso lunedì 15 gennaio Francesco Panella è tornato al timone su Nove di Little Big Italy, programma ormai di culto giunto alla sua sesta edizione. Format che è cresciuto di stagione in stagione, lunedì 22 gennaio Little Big Italy ha fatto segnare il suo storico record d’ascolto in una serata altamente competitiva, in cui Rai 1 e Canale 5 calavano assi come La Storia e la Super Coppa Italiana.

Siamo partiti da quel dato di ascolto per chiedere a Francesco Panella quali siano secondo lui le ragioni di un successo che di puntata in puntata scala la classifica dell’Auditel sia in prima serata sia in seconda con le repliche, permettendo alla produzione firmata Banijay Italia per Warner Bros. Discovery di portare Nove tra le reti più viste.

La risposta che ci dà Francesco Panella è la più semplice di tutte: la verità, una verità di cui lui stesso ci svela il perché. Tutti di sicuro siamo affascinati dalla sua ricerca in giro per il mondo dei migliori ristoranti italiani all’estero in grado di offrire gli autentici sapori di casa nostra. Nelle puntate della sesta edizione, vediamo Francesco Panella muoversi tra le vie di Ibiza, Copenaghen, Amburgo, Lione e Varsavia, guidato come sempre da tre expats, italiani che vivono all’estero, alla scoperta dei loro ristoranti del cuore.

Conosciamo così storie e vissuti con cui lo stesso Francesco Panella, mai dimentico della sua competenza, empatizza e solidarizza. E forse la chiave del successo sta proprio in lui, in un conduttore che non si erige a deus ex machina e che crea con correnti e ristorati un clima di convivialità unico. Perché il cibo è convivialità, senza distinzione alcuna tra chi sa e chi sbaglia.

Francesco Panella (foto di Alex Alberton).
Francesco Panella (foto di Alex Alberton).

Intervista esclusiva a Francesco Panella

Lo scorso lunedì Little Big Italy ha fatto segnare un importante record di ascolti sebbene su un’altra rete ci fosse una partita di calcio da oltre 7 milioni di ascolto e su un’altra ancora una serie tv osannata dalla critica. Ti sei mai chiesto le ragioni del successo del tuo programma?

Siamo arrivati alla sesta stagione ma, da quando è partita, questa ha fatto registrare un crescendo di pubblico rispetto alle precedenti, seguendo un trend per cui ogni nuova stagione proposta da dei risultati sempre maggiori. E ciò è motivo di grande orgoglio: vuol dire che il bacino di utenza si sta allargando, arriva tanta gente che prima non conosceva il programma. Più si va avanti, più riusciamo a verticalizzare gli ascolti e ad attirare l’attenzione del pubblico. Il risultato di lunedì scorso è straordinario ed è molto importante: il merito è di tutta la squadra che lavora con me e, in primis, di Warner Bros Discovery che crede nel progetto.

La ragione del successo, secondo me, è molto semplice: Little Big Italy è un programma che non ha schemi. Segue l’andamento di ciò che accade senza alcuna programmazione: l’abilità è riuscire da parte mia e degli autori ad avere una grande concentrazione nel realizzare una puntata che in realtà è come se fosse in diretta. Il pubblico da casa intuisce che è tutto reale e lo apprezza.

Sin dalla sua prima puntata, Little Big Italy si è distanziato da tanti programmi simili perché restituiva tale sensazione: nulla sembra pianificato a tavolino.

È il sentimento che fa la differenza. Si parla di sentimenti, di problemi, di cose felici, dell’orgoglio di essere italiani… e al pubblico arriva. La gente recepisce che abbiamo in qualche modo cambiato il linguaggio televisivo sul cibo e sul racconto dell’Italia.

È cambiato il linguaggio ma anche il modo di condurre: l’empatia fa la differenza. In Little Big Italy vediamo compartecipazione tra te, il presentatore, e i partecipanti. C’è un innegabile clima di convivialità.

Gli expats non sono dei professionisti: sono comunque persone che vivono all’estero, che hanno tante cosa da fare e da dire, e che non sono abituate a certe dinamiche. Per tre giorni vengono trasportate in un’altra dimensione e non si può non creare sintonia con loro, unione. La condivisione è fondamentale: a me riesce facile perché ascolto molto. Mi piace molto stare in ascolto e cerco sempre, ascoltando, di tornare a casa dagli incontri con qualcosa di positivo: ho con me sempre un mio notes in cui appunto ciò che mi piace della giornata o qualcosa che mi viene detto, sono pensieri che porto con me.

Agli expats arriva l’empatia di chi come me non si mette su un piedistallo. Ed è necessario che sia così: sono una persona molto semplice, serena e senza grandi pretese. Non riesco a fare la star e non ci riuscirei nemmeno: credo nell’italianità vera e in due valori fondamentali, la competenza e l’umiltà. Essere umile e competente non significa non avere grinta, essere compassionevole o accettare tutto: vuol dire semmai sapere ciò che si è in grado di fare cercando di non farlo notare agli altri mettendoli in difficoltà.

A volte la parola ‘umiltà’ è sinonimo dell’essere dimesso o ‘sfigatello’ quando invece in realtà è l’esatto opposto: l’umile competente non si mette in mostra ma ascolta. Si chiama anche leadership, se vogliamo: con grande semplicità, sebbene gli altri siano consapevoli della tua competenza, devi stare allo stesso piano loro per metterli in condizione di star bene. Ma è qualcosa che fa parte dell’indole di una persona: o sei così come persona o non lo sei, non puoi fingere…

Francesco Panella (foto di Alex Alberton).
Francesco Panella (foto di Alex Alberton).

Uno degli aspetti positivi di un programma come Little Big Italy è che le critiche mosse sono sempre costruttive e poste con eleganza, in un quadro televisivo in cui il linguaggio urlato ha invece quasi sempre il sopravvento. Anche quando un piatto non restituisce il sapore che ci si aspetta, lo fai notare con raffinatezza.

I piatti non sono fatti solamente di sapori: sono composti anche da emozioni. Quando un piatto che solitamente mangi a casa tua, non viene preparato alla perfezione da tua nonna, da tua madre o dal ristorante sotto casa perché quel giorno si sbaglia qualcosa, non esageri con la critica. Magari fai notare l’errore, glielo dici con carineria. Anche se hai pagato per quel piatto, devi sempre ricordare che tutti commettiamo degli errori, specialmente quando siamo sotto pressione.

Nel commentare un piatto entrano in gioco competenza e sensibilità. Quando vedi le facce di chi lo ha preparato, come ti rispondono, come prendono una padella in mano o come preparano la pasta in casa, non puoi mettere da parte la sensibilità.

Sei edizioni di Little Big Italy significano anche tanti incontri. Ce n’è uno di cui conserverai sempre il ricordo?

Nella prima edizione, ho incontrato i signori Manducati, che hanno un ristorante a New York e che hanno fatto un viaggio di mesi per arrivarci quando sono partiti dall’Italia. Mentre li intervistavo, si prendevano per mano: avevano 90 e 82 anni e avevano aperto il ristorante sessant’anni prima. Quei sessant’anni si vedevano tutti nel ristorante, fermo nel tempo anche in cucina: hanno preparato una pasta cacio e pepe che non era all’altezza o, comunque, poco contemporanea.

Tuttavia, il sapore che aveva quella pasta era molto particolare. Ci ho ritrovato dentro tutto l’amore e la passione di due persone che credono nel loro progetto e di quelle due mani che si stringevano durante l’intervista. Era talmente forte che, mentre mangiavo la pasta, non sono più riuscito a leggere il disastro che avevano combinato: quel piatto aveva assunto un sapore del tutto diverso, conteneva tutto ciò che mi avevano raccontato ed era talmente tanta la loro sofferenza per aver lasciato l’Italia che mi è sembrato io dei più buoni che io abbia mai mangiato.

Francesco Panella (foto di Alex Alberton).
Francesco Panella (foto di Alex Alberton).

Sarà anche perché hai avvertito qualcosa di familiare nella loro storia?

Assolutamente sì: la fatica, la dedizione, la costanza. Quando si chiede a qualcuno perché fa il proprio mestiere, il 99% delle persone risponde tirando in ballo sempre la passione. Ed è la passione che ti fa entrare nella sfericità delle cose belle e ti spinge a fare anche cose incredibili solo perché sei felice di farle. Se si fa lo stesso lavoro da sessant’anni o da 104 come nel caso della mia famiglia, però, la sola passione non basta.

Non si può avere solo quella per superare le giornate no (le ho avute io, le hanno avute i miei genitori e le hanno avute i miei nonni), due guerre, tre pandemie e diversi momenti brutti e difficili. In quelle circostanze, la passione non sai nemmeno cos’è, non la cerchi e non la puoi trovare. Ti servono semmai la dedizione e la costanza. La dedizione è difficile da trovare e mantenere: devi essere dedito a qualcosa e per farlo serve una grande costanza. Sono queste due skills che insieme fanno la vera differenza e ti permettono di affrontare le difficoltà: quando si è felici è tutto facile… è quando non lo sei che le cose diventano difficili.

Quindi, quando sento qualcuno citare la sola passione per un’attività che va avanti da lungo tempo, intravedo un po’ di leggerezza nella risposta.

Dedizione e costanza che, come hai dichiarato in altre occasioni, ti portano anche a lavorare diciotto ore di fila.

Sono un po’ rigido con me stesso. So che non è un bene ma le difficoltà che ho incontrato mi hanno portato a esserlo. Cito sempre le difficoltà perché per me sono il vero metro di differenza non solo nell’attività imprenditoriale ma anche nella vita: quando tutto scorre liscio, non sai poi come affrontare un problema quando si presenta. Quando invece sei abituato alla difficoltà o la vai anche a cercare uscendo dalla tua comfort zone, sei più allenato a fronteggiare un problema. Cerco, quindi, di spingere me stesso sempre verso qualcosa di nuovo e di diverso e di affrontare le difficoltà con uno spirito positivo: più problemi hai, più avrai la possibilità di risolverli.

Ed è per questo che tra le prove da superare nel programma hai aggiunto la voglia fuori menù?

La voglia fuori menù è un tentativo per mettere alla prova i ristoratori italiani all’estero e per capire se riescono a cimentarsi in un qualcosa anche un po’ divertente. Declina molto il programma e lo identifica: abbiamo poi talmente tante ricette in Italia che è un peccato non mostrarle a chi è a casa, che magari non le ha mai nemmeno sentite nominare, per far venire anche voglia di prepararle il giorno dopo.

Tra l’altro, la voglia fuori menù spesso dimostra come la ricetta sulla carta più facile nasconda molto più insidie di quella all’apparenza complessa. Come scegli il piatto da far preparare?

Sul momento. Quando entro nelle cucine dei locali, osservo le strutture che ho davanti e ascolto le risposte che i ristoratori mi danno sui menù che hanno elaborato. Cerco sempre di capire chi ho davanti e quali potenzialità hanno. Dipende dunque tutto dall’intervista: più si esaltano e mostrano di essere dei fenomeni, più li metto alla prova facendoli, a volte, cadere nel baratro. Non c’è quindi astuzia dietro.

Non ti dà fastidio che per realizzare la voglia fuori menù si cerchi la ricetta su internet?

Ma no (ride, ndr). C’è anche un po’ di intelligenza nel farlo: quando ci si mette in discussione, non si fa i fenomeni… è molto meglio avere una giuda anziché provarci alla cieca. Ed è un comportamento che sinceramente apprezzo.

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Abbiamo citato l’attività di ristoratori della tua famiglia che va avanti da 104 anni. Ricordi la prima volta in cui da bambino sei entrato all’Antica Pesa, il vostro locale romano?

Era un po’ come andare a casa. Tanti anni fa, le osterie erano vissute come case (mentre oggi sono più aziende). Quindi, mi ricordo perfetta il clima e l’atmosfera familiare: c’erano i parenti che arrivavano, con la zia che si metteva a cucinare e la nonna che faceva le sue cose.

Qual era il piatto a cui non riuscivi a dire di no?

Mia nonna mi preparava con la rosetta con le polpette e la cicoria passata in padella. Toglieva il ‘bottone’ centrale della rosetta e la riempiva. Tra l’altro, era la merenda che portavo con me anche a scuola quando la mattina passando davanti al ristorante mi chiamava… i professori mi dicevano spesso di portare qualche panino in più anche per loro (ride, ndr).

L'Antica Pesa

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Tu ovviamente non sei un cuoco ma un imprenditore. Non ti è mai venuta la voglia di metterti dietro ai fornelli?

A casa nostra ognuno ha avuto e ha la propria dimensione. Ho la fortuna di avere mio fratello Simone che è un grandissimo chef: è molto più bravo di me, ho lasciato a lui i fornelli ma ho sempre assaggiato e mangiato. È così che ho imparato molto sulla cucina, mi sono allenato e conosco tutti quei sapori che riesco a individuare immediatamente.

L’Antica Pesa da osteria di famiglia si è trasformata in azienda in grado di superare i confini nazionali, arrivando a New York, in Corsica e a Doah. Cosa credi che cerchino i clienti che varcano la soglia dei vari locali?

Una cucina sincera, spontanea, con sapori riconoscibili e tanta, tanta tradizione. Ovviamente hanno delle aspettative e noi siamo sempre pronti ad ascoltarli, cercando di dare il miglior servizio possibile attraverso i piatti della tradizione, provando anche a far luce su tante mistificazioni.

Qual è per te il piatto per eccellenza della vostra tradizione?

La cacio e pepe.

Francesco Panella al Quintalino (Foto Maxii Studio).
Francesco Panella al Quintalino (Foto Maxii Studio).

A Milano, invece, la tua attività imprenditoriale ha assunto una variante diversa: insieme ad Alessandro Cattelan e Vittorio De Rosa hai aperto nel 2023 Quintalino, la nuova frontiera dell’hamburger. Perché tanta differenziazione?

Il desiderio era quello di creare un hamburger di buon gusto ma che non costasse tanto. Insieme a Dario Cecchini per la carne e ad Antonio Follador per il pane, siamo riusciti a creare un buon prodotto che è socialmente spendibile per tutti. Abbiamo intuito che c’era spazio nel mercato del fast food anche per la buona qualità cercando di non far spendere molto alla gente e provando a qualificare un prodotto che spesso viene considerato come junk food.

L’hamburger che proponiamo è tutto italiano: Cecchini e Follador forniscono carne e pane, le salse sono prodotte da artigiani italiani e il risultato è un panino che ha una visione estremamente italiana, a partire dal modo in cui lo si ordina con il gesto. Volutamente, per merito del nostro direttore creativo Alessandro Cattelan, i panini alla cassa non hanno un nome, si ordinano con un gesto e la gestualità è importante per un concept all’insegna dell’italianità.

L’italianità è anche quella caratteristica che in Little Big Italy viene premiata con il tuo gettone speciale. Come la definisci?

L’italianità è semplicemente uno stile di vita in cui al centro del tuo progetto (di vita) metti la tua cultura enogastronomica. È sinonimo di garbatezza, di non arroganza, di rispetto per il prossimo, di conoscenza delle proprie radici e di aiuto: sono questi i valori che contraddistinguono gli Italiani da sempre.

È stato facile per te trasmettere la tua italianità?

Cerco di fare del mio meglio al di fuori dei nostri confini e cerco di farlo con i miei figli tutti i giorni. Mi sento super italiano.

L’Antica Pesa a Brooklyn è spesso frequentata da grandi star. I clienti, dalle recensioni, sono più che soddisfatti ma manca quello che per tutti è il riconoscimento ufficiale: la famosa stella da parte di una delle guide più seguite del settore. Fa male tale mancanza?

Si punta alla stella Michelin quando si ha un progetto da raccontare che risponde a determinati standard di ristorazione. La nostra cucina ha sempre raccontato una cucina molto popolare e vicina alla gente. Non offriamo prodotti di nicchia come quelli che la cucina stellata – fantastica, meravigliosa e da me molto apprezzata – propone. Parliamo di progetti con ambizioni diverse.

Alessandro Cattelan, Francesco Panella e Vittorio De Rosa al Quintalino (Foto Maxii Studio).
Alessandro Cattelan, Francesco Panella e Vittorio De Rosa al Quintalino (Foto Maxii Studio).

Sei padre di tre figli: Rebecca, Pietro e Filippo. Chi dei tre si avvicina di più al tuo mondo?

Pietro sta facendo già un grande percorso. Non vedo Rebecca molto orientata verso questo tipo di lavoro mentre Filippo, secondo me, ha delle grandi potenzialità per seguire questo mestiere: deve ancora studiare ma ha già una sua visione.

Hanno mai sentito di riflesso la popolarità del padre?

No, anche perché il padre non fa nulla per fargliela loro pesare. Io non so nemmeno se sono popolare e non sono interessato a quel tipo di percorso, è lontanissimo da me. Tra l’altro, stando negli Stati Uniti, non mi riconosce nessuno e non vivo il riflesso del successo del programma. Ma ribadisco che non ho alcun tipo di vicinanza con il desiderio di essere popolare o di considerarmi una star. Non inseguo modelli e non mi adopero per esserlo, curando maniacalmente l’aspetto, il modo di vestire o di presentarmi solo per catturare l’attenzione. Mi bastano una camicia bianca e un paio di jeans per essere me stesso anche nel programma e nessuno riuscirà mai a cambiarmi. Non perché sia restio ai cambiamenti ma semplicemente perché mi interessano solo quelli che mi portano a cose che a me piacciono.

Dopo la pandemia, hai condotto un format che si chiamava Riaccendiamo i fuochi. Che peso ha avuto la pandemia nel tuo lavoro da imprenditore?

Sembrerà strano ma a livello esperienziale l’ho vissuta con grande serenità. È stato un momento in cui ho fatto tante cose secondo me interessanti e molto belle. Sono stato molto felice per aver utilizzato il mio tempo per occuparmi di attività che forse mai avrei mai pensato di poter fare. Lo ricordo con grande serenità, al di là delle difficoltà che tutti abbiamo attraversato. Mi ha caricato molto: ho scritto ad esempio un libro in cui ho raccontato tutto quello che pensavo della cucina americana proponendo racconti aspirazionali fantastici sugli Stati Uniti, ho tenuto dei corsi ai ragazzi di due università e mi sono rimesso in discussione. Ho anche inventato quel format televisivo salvando cinque ristoranti e ho speso tantissimo tempo con i miei figli.

Francesco Panella (foto di Alex Alberton).
Francesco Panella (foto di Alex Alberton).
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