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Francesco Patanè: “Certezze poche, dubbi tantissimi” – Intervista esclusiva

Francesco Patanè è al fianco di Elodie in Ti mangio il cuore ma in questi giorni è anche su Netflix nella serie tv La legge di Lidia Poet. Quello di attore è un mestiere che ha imparato a conoscere presto, sin da quando a sette anni comincia a frequentare nella sua Genova la prima scuola di recitazione. E da lì siamo partiti per la nostra intervista in esclusiva.
Nell'articolo:

Classe 1996, Francesco Patanè di anni ne ha soli 27, venti dei quali passati su un palco. Recita infatti da di anni quando ne aveva sette, dal momento in cui ha deciso di capire cosa si celasse dietro quella passione che gli faceva guardare i film e imparare a memoria le battute. La madre ha allora assecondato la sua attitudine e gli ha permesso di frequentare la scuola di recitazione per ragazzi La quinta praticabile nella loro Genova.

Ed è a Genova che in questi giorni Francesco Patanè debutta al Teatro Nazionale con uno spettacolo nuovo di zecca, Quel che resta del fuoco, in cui si racconta agli studenti delle scuole medie e dei licei cos’è stato il G8 e quali conseguenze ha lasciato in tutti noi. È dedicato a chi nel 2001 non era ancora nato per parlare di lotta, sogno e utopia, tre parole dietro alle quali si cela non solo il presente ma anche il futuro.

Ma il teatro non è l’unico posto in cui è possibile vedere Francesco Patanè. Su Netflix, ad esempio lo si può ammirare nel primo episodio della serie tv La legge di Lidia Poet, in cui interpreta Pietro, un giovane ingiustamente accusato dell’omicidio della donna amata. Ma è agli spettatori di Paramount+ che il nome di Francesco Patanè risulterà più familiare: è il protagonista insieme a Elodie del sorprendente Ti mangio il cuore, dove impersona Andrea Malatesta, il giovane chiamato a prendere le redini della sua famiglia mafiosa a discapito della passione con l’amata Marilena.

Sul set di Ti mangio il cuore, Francesco Patanè è arrivato quasi a digiuno di recitazione cinematografica. Era reduce dall’interessante Il cattivo poeta e la sfida era quella di dar corpo a un uomo che, spinto dalla famiglia e dalla madre, mette da parte se stesso e le sue priorità per mostrarsi all’altezza delle aspettative degli altri. E con Francesco Patanè abbiamo parlato nel corso di quest’intervista esclusiva di aspettative e del peso che hanno nel suo percorso ma anche di sogni, passioni, gioco e paure. E quello che emerge è il ritratto di un giovane uomo dei nostri temi che non ha paura di mettersi in discussione e di cercare l’altro da sé.

Francesco Patanè.
Francesco Patanè.

Intervista esclusiva a Francesco Patanè

Cominciamo dal tuo cognome: Patané, tipicamente siculo.

È sicilianissimo anche se sono stato solo una volta in Sicilia perché sono nato e cresciuto a Genova. Il mio bisnonno era un pescatore di Aci Trezza, la terra dei Malavoglia…

Malavoglia, quindi Pirandello e teatro. Dove ti trovi adesso?

Sono a Genova, in scena al Teatro Nazionale con Quel che resta del fuoco, uno spettacolo sul G8 legato a quei giorni del 2001. Lo definirei un discorso sull’umano e sul potere intorno ai fatti del G8 per i giovani: è un modo per ricordare ai ragazzi quello che è accaduto: è come se si fosse lì…

Ai ragazzi, come se tu avessi chissà poi quanti anni. Sei nato nel 1996.

È indirizzato ai ragazzi del liceo e delle medie: rispetto a loro, io c’ero al G8 mentre loro non erano ancora nati.

Ricordi quei giorni?

Avevo cinque anni. Ricordo che mia madre sarebbe dovuta andare alla manifestazione portandomi con sé ma mia nonna l’ha invitata a non farlo perché la situazione era tesa e violenta. E meno male che non è andata: quel giorno si è trasformato in uno dei tanti momenti caldi, sarebbe stato un casino soprattutto avendo un bambino con sé. Ricordo la paura: è stato un momento molto, molto, molto nero. Lo è stato anche dopo: è stato faticoso cercare di capire cosa fosse successo e come mai si era arrivati a tanto. Ed è ancora faticoso ricostruire da che parte stanno le colpe e fare pace con quei giorni.

Il sentimento di paura è qualcosa che i genovesi hanno anche vissuto pi di recente per via del crollo del Ponte Morandi. Cosa ha rappresentato per te che sei di Genova quel giorno?

Mi trovavo a Catania per uno spettacolo, l’Antigone. Ero a casa di una mia amica e non avevo la ricarica sul telefono: non capivo cosa stesse accadendo e non potevo comunicare con i miei. È stato un momento di grande panico, anche perché i miei abitano tra l’altro vicino al ponte: avrebbero potuto esserci anche loro lì sopra. Le immagini che vedevo in tv sembravano surreali: mentre a Catania era una giornata meravigliosa di caldo e di sole, a Genova c’era vento e pioggia. Sembrava quasi che tutto stesse accadendo in un altro mondo, lontano. Ho provato un’angoscia surreale.

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La paura è anche qualcosa con cui ti sei ritrovato spesso a confrontarti anche per lavoro. Ti vediamo in questi giorni nel primo episodio di La legge di Lidia Poet, la serie tv Netflix, nei panni di Pietro, ingiustamente incarcerato per l’omicidio della donna che ama. Ma ti abbiamo visto anche come Andrea, il protagonista di Ti mangio il cuore, film in cui la paura fa da sfondo all’intera narrazione. Cos’è per te la paura?

Sia per Pietro sia per Andrea è sempre una paura relativa ai fatti. Galimberti distingue la paura dall’angoscia. L’angoscia è quando si ha timore o inquietudine per qualcosa che non è reale, non è concreta. La paura invece è rivolta a qualcosa che succede veramente, è successa o sta per succedere.

Per Pietro, la paura è l’imminente esecuzione a cui sta per andare incontro per un omicidio che non ha commesso. Per Andrea, la paura è legata a quello che accadrà a lui e alla sua famiglia se non riesce a prendere in mano le redini degli affari di famiglia. Nel loro caso, la paura è qualcosa che ha sempre a che fare anche con la responsabilità: è paura di una situazione reale imminente. Cosa posso fare io per evitare la catastrofe che si profila all’orizzonte? È la domanda che si pongono. La paura è questa: una sensazione fisica e orribile che si trasforma quasi in malattia.

È andando avanti, quando paura e responsabilità si intrecciano e la recitazione diventa una scelta di vita, che si ha paura di non farcela.

Francesco Patanè

 E tu hai avuto paura quando a sette anni hai cominciato la tua prima scuola di recitazione?

In realtà, no. La paura è venuta dopo. Finché era un gioco, il gioco non faceva paura. Sì, c’era la timidezza da vincere ma era più forte la voglia di giocare e di esplorare situazioni che ancora non conoscevo. È andando avanti, quando paura e responsabilità si intrecciano e la recitazione diventa una scelta di vita, che si ha paura di non farcela. Quando si viene selezionati per lavori grossi, si ha paura di non essere all’altezza del ruolo. Che poi è quello che succede, anche se diversamente, ad Andrea Malatesta: ha paura di non essere all’altezza di un ruolo che gli viene affidato, che gli viene in qualche modo appioppato. È una paura diversa.

Cos’è che ti ha spinto così piccolo a cominciare la scuola di teatro?

Un mio desiderio che mia madre ha assecondato. Mi piaceva vedere e rivedere i film finché non conoscevo a memoria tutte le battute e le ripetevo. Nel vedermi, mi è stato chiesto se volessi provare a frequentare una scuola di recitazione e ho detto sì. Zero pressione da parte della famiglia: è stato un “vabbè, dai, vediamo cosa potrebbe essere giocare in quel senso”. Una volta iniziata la scuola, è stata tutta una discesa: non ho più avuto voglia di smettere e, fondamentalmente, dai sette anni in poi è stato sempre un giocare in contesti diversi. Bisogna sempre ricordarsi di giocare, anche se alle volte lo si dimentica o te lo fanno dimenticare.

Cos’è o chi ti fa dimenticare di giocare?

Un concorso di colpe, direi. Ci si dimentica di giocare a causa della prestazione: in qualche modo, senti dentro di dover performare, di dover prestare e di arrivare a soddisfare un tuo parametro, un tuo giudizio, una tua esigenza. E al tempo stesso devi soddisfare anche le esigenze di chi ti seleziona o di chi ti sta provinando: devi essere all’altezza del ruolo e del progetto. E in quei momenti ti dimentichi di giocare e sbagli.

Ma non è un po’ la sindrome dell’impostore?

Beh, anche. Se non hai quella sindrome, è solo un gioco più difficile e un po’ più teso ma rimane un gioco. Se hai invece la sindrome dell’impostore, diventa un gioco al massacro perché tra e te ti chiedi: “Ma veramente lo stai facendo? Lo puoi fare? Chi ci crede? Tu ci credi ancora?”. Si trasforma in un gioco su vari livelli, pericoloso.

E le conferme non aiutano? Già da piccolissimo, recitavi a fianco di mostri sacri della prosa come Regina Bianchi…

Effettivamente, col tempo le conferme aiutano soprattutto quando ti dimentichi di ciò che hai fatto. Leggi il curriculum e pensi: “Ah, cazzo! Ho fatto questo ma anche quello”. Un po’ ti rafforzano.

Francesco Patanè.
Francesco Patanè.

Cominciare a un’età così precoce non ti ha mai dato la sensazione di aver dovuto rinunciare a qualcosa per guadagnare qualcos’altro?

Per assurdo, no. Avendo cominciato da bambino, per me è come se fosse stato qualcosa di naturale continuare quel percorso: non ho mai preso in considerazione altre possibilità di vita. Anche se il mondo del teatro che pratichi a sette anni e diverso dal mondo del cinema a cui arrivi a ventidue anni, la recitazione è sempre stata il mio mondo: si rinuncia o non si considera tutto ciò che sta fuori dalla bolla in cui sei. È più facile andare in una direzione quando ci sei già dentro e non pensare a quello a cui rinunci: non lo conosci e quindi non ti interessa.

Se a 18 anni, finito il liceo, avessi dovuto scegliere tra un futuro da avvocato, per qualche secondo ci ho pensato, o da medico, non sarei partito da una condizione di neutralità. Avrei dovuto azzerare dieci anni di ciò che avevo fatto.

Quindi, hai valutato anche se per poco l’ipotesi di diventare avvocato?

Si, mi sarebbe piaciuto. Mi piace battermi a parole: dei monologhi mi piace l’idea di portare avanti situazioni e opinioni solo attraverso le parole.

Come scegli oggi i ruoli da interpretare?

Da spettatore, mi nutro di quello che vedo, ascolto e leggo. Quindi, mi piace pensare, stando dall’altro lato, di far l’attore in progetti che mi piacerebbe vedere per motivi diversi. Può essere il dramma storico ispirato a fatti realmente accaduti, uno spettacolo o un film di denuncia o anche una commedia brillante. Molto banalmente scelgo in base a quello che mi piacerebbe vedere da spettatore, altrimenti preferisco dire di no.

Tuttavia, nel campo dell’audiovisivo in generale, non puoi mai sapere quale sarà il prodotto finale di ciò in cui stai recitando. È brutto definirlo un prodotto, però di fatto quello è. Si accetta un ruolo a scatola chiusa, cercando di capire come sarà il tutto dalla sceneggiatura, ma non potrai mai sapere a priori cosa verrà fuori. Se pensiamo al cinema o alla serialità, toccherà al montaggio la riscrittura finale del progetto. Quindi, è difficile sapere in anticipo quello che si vedrà.

In Ti mangio il cuore, ti sei ritrovato sullo stesso set con una gamma di attori dalla consolidata esperienza, da Michele Placido a Lidia Vitale. Ma hai anche avuto una compagna di scena che era a digiuno di qualsiasi lavoro nel campo della recitazione: Elodie. Com’è stato ritrovarsi a lavorare con qualcuno che veniva da un mondo così lontano dal tuo?

Credo che la recitazione sia fondamentalmente ascolto e accadimento. Sul set con Pippo Mezzapesa erano le dinamiche che contavano: tutto è dipeso da quanto sia io sia Elodie eravamo disposti ad ascoltarci e a far accadere quello che dovevamo mettere in scena. Il nostro è stato un incontro felice: c’è stata una grande esigenza di ascolto da parte di entrambi. Per lei era il primo film, per me il secondo: ogni cosa, dinamica o scena, era unica e nuova per tutti e due. Stavamo a vedere cosa succedesse, ci ascoltavamo e lasciavamo accadere le cose: è stato un incontro che ha funzionato.

Andrea, il tuo personaggio in Ti mangio il cuore, è forse anche vittima del complesso di Edipo: ha un rapporto abbastanza complesso con la madre. Anche tu sei ovviamente figlio. Quindi, quando hai affrontato il personaggio, quanto ti sei dovuto dissociare da esso o quanto lo hai sentito simile?

Seppur con le dovute differenze, come Andrea sento il confronto con l’essere maschio nella società in cui vivo. Di aspettative ce ne sono tante, dal punto di vista sia umano sia professionale. Andrea si è un po’ nutrito di Francesco e della sua sensazione di dover dimostrare qualcosa, di dover essere all’altezza. Nel caso di Andrea, era la madre a pretendere che il figlio fosse all’altezza della situazione: io, fortunatamente, non ho una madre come la sua, una che si aspetta tanto dal figlio e che pretende un risultato.

Da uomo che comunque vive in rapporto con le donne, alle volte mi rendo conto che in una coppia si finisce, soprattutto quando non si ha ben chiaro chi si è, per cercare di soddisfare le aspettative altrui. Si creano dinamiche in cui al cospetto di una donna forte si cerca di soddisfare quella che è l’aspettativa della donna. Non saprei darti un episodio specifico ma è una realtà che conosco quella di cercare di soddisfare ciò che una donna si aspetta che tu uomo faccia, mostrandoti anche diverso da quello che sei. Ma ciò, oltre a creare una sfida, genera anche la frustrazione della sfida.

Un’altra differenza tra me e Andrea era dovuta al background in cui il personaggio si muove. È talmente lontano antropologicamente e culturalmente da quello in cui sono cresciuto che ho dovuto ricostruire e inventare quel tipo di vissuto animale e quelle attitudini umane lontane dalle mie.

La passione è quella roba che, per quanto tu possa cercare di ostacolare o razionalizzare, vince lei: è una corda che tira più forte di qualsiasi altra pulsione.

Francesco Patanè.

Andrea era animale nel senso puro del termine: istintivo e mosso da passione. Cos’è per te la passione?

La passione è quella cosa che ti chiama a sé. Forse la confondo con il desiderare "alla maniera delle stelle": è qualcosa che ti seduce e conduce a sé. La passione è quella roba che, per quanto tu possa cercare di ostacolare o razionalizzare, vince lei: è una corda che tira più forte di qualsiasi altra pulsione.

La parola passione viene però dal verbo patire. Cos’è che patisce Francesco?

Patisce ciò che la passione chiede in cambio di se stesso, i ritmi e i sacrifici che impone. A volte, li vivi come limiti, rinunce o sacrifici, a volte no. Ma di fatto la passione ti impone una direzione che può farti patire sia nel guidarti a sé sia nel costringerti a un certo tipo di sfide che magari non accetteresti per non esporti.

Se cerchiamo il tuo nome su Google, per prima cosa vien fuori un tuo omonimo pittore e subito dopo ci si chiede se sei fidanzato oppure no. Cos’è per te l’amore?

Ah, che bello l’amore! È quel qualcosa di totalizzante che ti succede. Può essere una persona, un luogo, un’attività… ma sempre così forte da far andare in dissolvenza tutto il resto. E, comunque, no: sono single, soddisfo così la curiosità! (ride, ndr).

A parte il teatro, dove ti rivedremo?

Ho appena finito di girare da protagonista una puntata di Imma Tataranni, la serie tv molto carina con Vanessa Scalera diretta da Francesco Amato. Non mi ha richiesto un grande impegno a livello di tempo ma è stata una bella esperienza in un bel progetto. Poi, sono in attesa di risposte per altro. Come al solito, si aspetta risposte.

Imma Tataranni è un altro progetto a cui prendi parte con un forte personaggio femminile al centro. Quello delle donne forti sembra un fil rouge che ti accompagna…

Anche la regista dello spettacolo teatrale sul G8 è una donna incredibile e stupenda, Elena Dragonetti. Trovo molto interessante lavorare con una dona perché ha dei modi che l’uomo, per quanto cerchi dentro di sé la sua parte femminile, non ha. La donna è sempre un mondo altro, a partire dalle soluzioni che trova- Lavorando con una donna si scoprono sempre tanti aspetti nuovi: potresti vivere anche sei vite ma ha un certo modus anche operandi a cui un uomo non arriverebbe mai.

E tu hai mai cercato il tuo lato femminile?

Eh, sì, per uno spettacolo a Genova che si chiamava Sangue matto. Era una storia ambientata in una scuola di periferia, in cui una professoressa arrivava a costringere i suoi studenti a mettere in scena I Masnadieri di Schiller. Interpretavo un ragazzo, probabilmente omosessuale ma mai dichiarato nemmeno a se stesso, che portava in scena Amalia, la moglie del masnadiero. Ho quindi fatto una bella esplorazione della femminilità perché quello del personaggio era comunque un viaggio verso il femminile.

E cosa hai scoperto?

Intanto, il divertimento dell’essere femmina. Mi sono divertito ad andare in zone nuove come la scioltezza e la liquidità dell’essere donna. Mi rifaccio all’acqua come elemento per indicare quella freschezza sinuosa come la seta che invece, senza giudizio ma anche con, l’essere maschio in una società come la nostra tante volte porta a negarti. Invece, è molto piacevole potersela concedere.

Francesco Patanè.
Francesco Patanè.

Se ti dico diversità, a te cosa viene in mente?

La possibilità dell’altro, di incontrare l’altro. Senza diversità, sarebbe una palla mostruosa: io sono sempre alla ricerca di più diversità possibile sia nella mia vita sia nel mio lavoro. L’essere diversi da se stessi è fondamentale per l’attore perché porta anche a una narrazione diversa di sé.

Hai finora interpretato tantissimi ruoli barcamenandoti tra testi classici e contemporanei. Ma se dovessi scegliere un personaggio da portare in scena per tutta la vita quale sarebbe?

Per tutta la vita, non so: tutto ciò che si inizia va finito. Ma se dovessi scegliere sarebbe il protagonista di uno spettacolo portato in scena anni fa che si chiamava BU 21. Interpretavo un giovane banchiere che aveva appena perso la fidanzata e il migliore amico: erano morti insieme durante un rapporto sessuale, ovviamente alle sue spalle, in un incidente aereo. È stato interessante raccontare quel personaggio perché era pieno di incertezze sullo sfondo di un mondo concreto, fatto di numeri e di soldi.

Si ritrovava a dover improvvisamente fronteggiare in un colpo solo il lutto e il tradimento, un tradimento che non poteva essere giustificato o scusato: le cause erano morte insieme. Si metteva in moto un processo di presa di coscienza e di elaborazione del dolore legato continuamento a ciò e il protagonista non voleva salvarsi, non cercava la salvezza. Era molto cinico e molto duro con i personaggi che lo circondavano durante le sedute in un gruppo di sostegno che frequentava: sfotteva continuamente i parenti delle vittime della tragedia: era il suo modo, patetico, per elaborare il lutto. Mentre tutti gli altri cercavano una catarsi, lui no.

Tu invece hai certezze?

Sempre meno. Ho certezze ma sono veramente poche. Dubbi, invece, tantissimi. Sono sempre alla ricerca di qualcosa: per carattere, tendo ad affezionarmi poco ai momenti di risoluzione e di certezze. Non che le certezze non siano fondamentali ma per carattere tendo a rimetterle in discussione dopo pochi giorni. Anche la cosa più certa viene intaccata dal dubbio che si insinua: se è vera, anche il suo contrario potrebbe esserlo. Non a caso sono molto attaccato alla carta del diavolo nei tarocchi. Dei tarocchi mi piace che ogni carta voglia dire tutto e il suo esatto opposto. Quindi, certezze poche, ambiguità tanta.

Da dove viene la passione per i tarocchi?

Da Alejandro Jodorowski, autore e regista meraviglioso. Mi sono avvicinato al suo lavoro dopo aver letto La danza della realtà e da lì mi si è aperto il mondo dei tarocchi: lo conosco da profano ma mi affascina molto.

Mi riconosco nel vivere senza confini, etichette o stereotipi. Sono assolutamente a favore di tutto ciò che fluisce verso la pace e l’armonia: tanto più si è aperti e disponibili all’ascolto, tanto più il mondo che si può fare è bello.

Francesco Patanè

Da dove nasce invece la passione per l’aikido?

Me l’hanno fatto fare allo Stabile di Genova. La scuola di recitazione aveva all’ultimo anno un seminario di aikido. È una disciplina poco violenta e molto disciplinata che insegna anche il valore della caduta e del rialzarsi, a imparare a cadere senza farsi male. Fondamentalmente, è una danza e non uno scontro. Per come l’ho vissuta io, è come creare una coreografia intorno a un conflitto. E recitare è anche quello: coreografare i conflitti.

E, quando cadi, come ti rialzi?

Ogni volta che cado, ho alle spalle il vissuto che mi aiuta: un libro che ho letto, una frase che ho sentito… c’è sempre qualcosa per cui trovo un motivo per rialzarmi. Fino ad ora non sono ancora rimasto giù cadendo. Speriamo che non capiti presto.

Anagraficamente, appartieni alla Generazione Z. Ti riconosci nel ritratto che ne viene dato?

Mi riconosco nel vivere senza confini, etichette o stereotipi. Sono assolutamente a favore di tutto ciò che fluisce verso la pace e l’armonia: tanto più si è aperti e disponibili all’ascolto, tanto più il mondo che si può fare è bello.

Francesco Patanè in Ti mangio il cuore

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