Una passione per la musica, la scrittura, la pittura e il cinema, quella di Francesco Pellegrino, ventiseienne attore campano, ereditata dal padre: “Se faccio questo lavoro, è grazie a lui che mi ha sempre supportato ed educato all’arte: da piccolo, penso di aver visto insieme a lui tutti i film di Stanlio e Ollio”, racconta Francesco Pellegrino. La sua carriera è iniziata con il film Nato a Casal di Principe nel 2017, e da allora ha affrontato numerose sfide e interpretazioni che hanno messo alla prova le sue capacità e la sua dedizione.
“Per interpretare Gloria in La vita che volevi ho perso circa 13 kg di massa muscolare”, confessa Francesco Pellegrino, spiegando il rigoroso percorso che ha seguito per adattarsi al ruolo in accordo con il regista e sceneggiatore Ivan Cotroneo. “Il personaggio richiedeva delle linee un po’ più delicate delle mie, quindi abbiamo deciso di togliere peso: nei due mesi di preparazione, vedevo torte ovunque! Sono stato seguito da un personal trainer e da un nutrizionista per gli allenamenti e la dieta”. Questo processo, sottolinea Francesco Pellegrino, non è stato semplice, ma essenziale per l'interpretazione del personaggio, dimostrando la sua dedizione alla professione.
Nel corso della chiacchierata, Francesco Pellegrino riflette su come il cambiamento fisico influenzi anche l'aspetto psicologico dell'attore: “Quando ho perso quei chili, ho sentito come aver perso parte della mia natura, ma ho dovuto vivere il cambiamento per esigenze artistiche. Non pensavo mai di doverlo fare, ma allo stesso tempo ero contento di regalare quel mio corpo cambiato a Gloria”. Questa esperienza lo ha aiutato a esplorare il rapporto che ha con il proprio corpo, rivelando una profonda introspezione e una comprensione delle dinamiche emotive legate alla sua professione.
Il giovane attore, che ha iniziato la sua carriera nella moda, racconta come questa esperienza lo abbia preparato per il mondo del cinema: “A 17 anni ho smesso con la moda per cominciare a fare cinema. Avevo diciassette anni quando il mio agente di moda mi ha mandato a un casting senza specificarmi per cosa fosse. Una volta lì, ho scoperto che era per un film e non sono più partito per Shanghai, lasciando spazio al laboratorio teatrale con Bruno Oliviero”. Questo passaggio è stato determinante per Francesco Pellegrino, che ha trovato nella recitazione una nuova forma di espressione e libertà.
Durante l'intervista, Francesco Pellegrino affronta anche temi delicati come la transizione di genere, vissuta attraverso il suo personaggio in La vita che volevi: “Ho vissuto sulla mia pelle l’1% di quello che provano veramente le persone durante una transizione. Giravamo tra Roma e Napoli e mi sono sentito molestato continuamente dalla gente”. Questa esperienza gli ha permesso di capire meglio le difficoltà che le persone transgender affrontano quotidianamente, rafforzando il suo impegno verso l'inclusività.
Francesco Pellegrino è un attore in continua evoluzione, capace di affrontare ruoli complessi e di mettersi in gioco fisicamente e psicologicamente. Senza avere paura del peso della notte.
Intervista esclusiva a Francesco Pellegrino
“Per interpretare Gloria in La vita che volevi ho perso cica 13 kg di massa muscolare”, mi risponde Francesco Pellegrino quando gli chiedo come si è preparato per la serie tv Netflix. “Il personaggio richiedeva dele linee un po’ più delicate delle mie e quindi d’accordo con il regista e sceneggiatore Ivan Cotroneo abbiamo deciso di cercare di togliere peso: nei due mesi di preparazione, vedevo torte ovunque! Sono stato seguito da un personal trainer per gli allenamenti e da un nutrizionista che mi consigliava ciò che potevo o non mangiare”.
“Sottolineo l’importanza di essere seguito in tale percorso da qualcuno perché comunque non è semplice: il corpo di chi di base è già magro potrebbe anche reagire male. Ricordo il mio cattivo umore ma anche le difficoltà, una volta finite le riprese, nel ritornare a mangiare in maniera normale: ho dovuto procedere per gradini. Ma da sempre sono convinto che chi fa il mio mestiere, come qualsiasi lavoratore che è un artista nel suo campo, deve dare il massimo per far sì che la gente si emozioni o si riconosca”.
E tu ti riconoscevi in quel corpo dimagrito?
Mi sentivo sicuramente cambiato: non vedevo me ma me impegnato in una fase creativa. È un concetto strano da spiegare ma la domanda è particolarmente interessante perché concerne il rapporto particolare che ho con il mio stesso corpo. Ci sono giorni in cui mi piaccio e altri in cui vorrei modificare qualcosa, un po’ come tutti. Tuttavia, quando ho perso quei chili, ho sentito come aver perso parte della mia natura ma ho dovuto vivere il cambiamento per esigenze artistiche.
Non pensavo mai di doverlo fare ma allo stesso tempo ero contento di regalare quel mio corpo cambiato a Gloria. E come lei ho vissuto la sensazione di non riconoscermi fisicamente in qualcosa che non mi rappresentava psicologicamente.
Hai sempre dedicato tempo alla tua immagine?
Mi sono sempre curato ma non l’ho mai trasformata in ossessione. Ed è difficile perché la pressione del mondo intorno è molto pesante soprattutto nei confronti dei ragazzi che fanno cinema e lavorano come modelli. Per tanto tempo, ho lavorato nella moda e in quel contesto la pressione che si fa sull’umano è grande: bisogna stare sempre all’erta e avere una forte personalità per non finire schiacciati.
È per questo che a 17 anni hai smesso con la moda per cominciare a fare cinema?
In realtà, è avvenuto tutto molto casualmente e non era nemmeno nei miei piani. Avevo diciassette anni quando il mio agente di moda mi ha mandato a Napoli a un casting senza specificarmi per cosa fosse. Una volta lì, di fronte a gente di varia età, pensavo di essere a un provino per un noto marchio di moda: ho aspettato per ore che arrivasse il mio turno in quella che era una caldissima giornata di luglio fino a quando, stremato, ho deciso di andar via.
Sono stato poi richiamato dal mio agente e mi sono ripresentato, ritrovandomi seduto davanti a un grande tavole con sette persone e una videocamera puntata a rispondere a delle domande che non capivo: solitamente, per i casting di moda bastano le misure.
Un mese dopo avrei dovuto prendere un aereo per Shanghai quando mi viene chiesto, in seguito a quel provino che continuavo a ignorare per cosa fosse, se ero disponibile per un laboratorio teatrale: ho scoperto così che quell’audizione era in realtà per un film. E non sono più partito per lasciare spazio al laboratorio con Bruno Oliviero che mi ha permesso di scoprire la recitazione. Già stanco del mondo della moda, ho preso la palla al balzo per concretizzare il mio desiderio di poter raccontare la vita in forma diversa.
Ed è stato facile non avendo le basi dello studio della recitazione affrontare dopo il set di Nato a Casal di Principe, il film figlio di quell’esperienza teatrale?
Per nulla. Ma quei due mesi di laboratorio hanno risvegliato una parte di me che non conoscevo: mi ha bussato alla porta e le ho aperto. In piena adolescenza, la curiosità mi ha spinto a scoprire una strada nuova e diversa, un differente modo di esprimermi, soprattutto libero, che nella moda mi mancava. Il teatro mi ha permesso di capire che esistono tante storie che meritano di essere raccontate.
La vita che volevi: Le foto della serie tv
1 / 58Com’eri finito nel mondo della moda? Per scelta tua?
Quella mia parte di vita è fatta di storie strane. Avevo 13 anni e con la mia fidanzatina eravamo in un centro commerciale e stavamo andando a vedere un film al cinema quando all’improvviso sono stato fermato da un ragazzo, anche lui in compagnia. Dal nulla, mi ha lasciato il biglietto della sua agenzia di moda ma lì per lì non l’ho richiamato o ricercato: il suo approccio era stato un po’ particolare, mi aveva toccato i capelli e mi ero sentito anche un po’ violato nella mia privacy. A esser sincero, credevo che ci stesse provando con me e non ho dato peso alla sua proposta.
Dopo due mesi, mio fratello mi ha poi parlato di un ex compagno di classe che, dopo aver aperto un’agenzia di moda a New York, era tornato temporaneamente in Campania per far visita alla madre. Scherzando, ha proposto di presentarmelo per un eventuale lavoro da modello. Ho accettato e al bar mi sono ritrovato davanti al tizio che mi aveva fermato, Amerigo. Ed è cominciato tutto così con me che non sapeva se restare o andare via.
Sono stati quelli anni di tante esperienze: appena quindicenne, hai vissuto per tre mesi a Shanghai.
Amerigo, che nel frattempo era diventato il mio agente, era venuto personalmente a casa mia a convincere i miei genitori a lasciarmi partire con lui per quell’esperienza all’estero. Per me, era tutto nuovo: catapultato dall’altra parte del mondo, da un piccolo paese della provincia di Caserta a una megalopoli di 28 milioni di abitanti, con una cultura differente, una fonetica diversa e un modo di pensare totalmente lontano da quello a cui ero abituato. Devo dire di essere grato alla moda perché mi ha dato enormi possibilità e mi ha mostrato il mondo nella sua complessità e originalità.
Rivedendo oggi quel periodo non pensi di aver bruciato comunque delle tappe?
Qualcosa me la sarò persa ma non molto. Essendo l’ultimo nato in famiglia, ho sempre avuto esperienze precoci grazie ai miei fratelli: a 12 anni, ad esempio, già avevo visto Trainspotting con loro di notte nella nostra stanza mentre fingevo di dormire. Ma non solo: sono cresciuto in un contesto, a San Marcellino, in cui già da piccoli occorre essere in qualsiasi modo recettivi alla vita, un luogo che ti porta comunque a crescere molto più velocemente rispetto ad altri.
A quindici anni ero già abbastanza sveglio e preparato per affrontare il mondo e stare da solo per tre mesi in Cina, condividendo casa con un brasiliano, un australiano e uno spagnolo. Ricordo con molto piacere quell’esperienza, la reputo una delle più mozzafiato vissute: non dimenticherò mai il mio sguardo di meraviglia, una volta arrivato in città, di fronte a un treno che mi passava da sopra la testa come se fosse sospeso nel vuoto.
In La vita che volevi, interpreti un personaggio che affronta la transizione di genere. Hai ricevuto offese o commenti ambigui?
Sì, soprattutto durante le riprese quando credo di aver vissuto sulla mia pelle l’1% di quello che provano veramente le persone durante una transizione. Giravamo tra Roma e Napoli e in quel periodo mi sono sentito molestato continuamente dalla gente: mi hanno chiamato con tutti i termini omofobici possibili e me ne hanno dette di ogni colore.
Ho così sperimentato su di me una piccola parte di ciò che è costretto a subire una persona che affronta la delicata fase della transizione, una fase in cui non solo non si riconosce nel corpo che vede allo specchio ma deve anche sopportare il peso del giudizio altrui, la non accettazione da parte del mondo circostante. Mi sono ritrovato anche in situazioni in cui la molestia stava per diventare fisica e sono stato costretto a reagire anche con veemenza quando ho sentito le mani dell’altro su di me.
E ora che la serie è uscita?
La maggior parte dei commenti che arrivano solo positivi, soprattutto da parte della mia famiglia: erano tutti curiosi del lavoro che avevo fatto, mai nessuno si era posto problemi e una mia zia mi ha persino detto che sembravo mia madre da giovane (sorride, ndr).
Sui social, invece, qualcuno molesto lo trovi sempre: quasi nessun commento omofobico in pubblico ma c’è chi ha pensato di scrivermi in privato e dal nulla mandarmi la sua dickpic. Ed è stato molto imbarazzante aprire quel messaggio e trovarsi di fronte a una foto non richiesta e non voluta. Avrei avuto la stessa reazione anche di fronte a una nudità femminile: è il gesto in sé che non comprendo e non capisco.
In linea di massima, non do peso ai commenti della gente che esulano dal lavoro fatto: un giudizio va soppesato solo se è costruttivo, altrimenti è perdita di tempo che rischia di farti impazzire. Così come non penso a cosa dirà la gente mentre mi trovo su un set: preferisco dedicarmi allo studio emotivo, fisico e spirituale del personaggio da portare in scena.
Come ci si sente, così giovane, ad avere ad esempio portato sulle spalle il peso di film da protagonista come è accaduto con La santa piccola?
Una bella responsabilità. Quel film è stato una sorta di primo amore che mi ha travolto. La lavorazione è stata molto complicata: rimandato per due volte a causa del CoVid, ha fatto fronte a un budget ridottissimo e ha ottenuto ciò che ha ottenuto solo perché c’era dietro un gruppo di persone che remava nella stessa direzione, a cominciare dalla regista Silvia Brunelli. Abbiamo affrontato turni di lavorazione straordinari e riprese anche fino alle 3 di notte con la tensione alle stelle per non sforare ulteriormente, aiutando tutti in qualsiasi mansione. La ricordo come un’esperienza collettiva che è stata resa possibile solo da un gruppo di lavoro molto coeso e da una regista cazzuta.
Con La vita che volevi e SuperSex in cui interpreti il fratello di Rocco Siffredi, La santa piccola forma una specie di trilogia sull’identità sessuale.
Raccontano di tre scoperte della sessualità in maniera molto distinta e separata ma che hanno comunque a che fare con il dolore. Sul set di Supersex, ho avuto ad esempio modo di parlare anche con Rocco Siffredi, che ha confermato quanto comune sia il binomio dolore e sesso: anche lui, sin da piccolo, cercava di far sfociare il dolore nel piacere, qualcosa che a livello psicologico gli permetteva di andare oltre la sofferenza.
E come è stata la scoperta della tua sessualità?
Come tutti, anch’io ho cominciato a sperimentare in adolescenza. E, anche per via del lavoro che facevo nel mondo della moda, mi sono posto delle domande su cosa potesse piacermi o meno. Ma non è qualcosa che puoi decidere a priori, come un gusto di gelato. Le domande credo rientrino un po’ nella normalità di tutti noi mentre cresciamo ma ho sempre avuto le idee chiare.
Questo non vuol dire che non possa essere affascinato dalle grandi figure maschili, ad esempio. Jim Morrison, per me che scrivo e compongo anche canzoni, è un Dio ma se mi chiedessi se ci farei l’amore la risposta sarebbe “no”.
Non ti preoccupa che possano travisare le tue parole leggendo quest’intervista?
No: la gente può pensare quello che vuole ma conosco io la realtà. Non mi pongo alcun tipo di problema perché non è mai stato nel mio interesse avere una fanbase di omofobi. Anzi, ho sempre cercato di combattere chi non sa cosa sia la parola inclusività. Sarebbe anche arrivato il momento di andare oltre certe etichette.
In La santa piccola, amatissimo negli oltre 40 festival mondiali in cui è stato presentato, dal Tribeca al Guadalajara, ha fatto scalpore la scena di un threesome. Che rapporto hai con il nudo?
Quella scena era come una performance, che abbiamo ripetuto più volte per far sì che tutto fosse coreografato come richiedeva la regista: i tre corpi si muovono all’unisono, in simbiosi, richiedendo incastri che ancora oggi ricordo molto bene. Non mi vergogno a recitare in scene di nudo ma devono essere funzionali al racconto e non gratuite. Il sesso dal mio punto di vista va raccontato e non nascosto: fa parte delle emozioni umane e non va considerato come un tabù.