L’illustratore Francesco Poroli terrà la sua prima mostra personale in occasione della Milano Design Week negli spazi Fuorisol Week, allestiti dalle agenzie di comunicazione Jungle e Cookies (insieme a Babooth e OffMedia). La mostra di Francesco Poroli sarà accessibile da martedì 18 a venerdì 21 aprile, dalle ore 11 alle ore 18.30, e sarà l’occasione per vedere trenta tra le sue più importanti opere, caratterizzate da un uso estremo dei colori e da una complessità di incastri.
Seguendo le due differenti anime di Francesco Poroli, è possibile vedere lavori portati a termine su commissione per i vari brand per cui lavora ma anche opere molto personali, incentrate sull’essenza della figura femminile, rappresentata sotto una luce sempre diversa. Del resto, Francesco Poroli è convinto del fatto che il futuro, senza volerne fare un discorso politico, sarà femmina. Glielo suggerisce anche la sua esperienza personale, segnata da tre grandi donne: la madre, la moglie e la figlia, da cui ha imparato molto nel corso degli anni.
Nato e cresciuto a Milano, Francesco Poroli lavora come illustratore e art director freelance sin dal 2000. le sue illustrazioni hanno riempito le pagine di importanti testate non solo italiane ma anche estere: mitica resterà la copertina del New York Times Magazine che lo ha consegnato alla storia. Ma in fondo Francesco Poroli non è così diverso da quel bambino che, arrivato all’asilo, anziché giocare e scherzare, si sedeva in un angolo e cominciava a disegnare, affidando alle matite e ai colori i suoi pensieri più profondi, come ci conferma nella nostra intervista in esclusiva.
Intervista esclusiva a Francesco Poroli
Che sensazione si prova ad affrontare la prima mostra personale? Per un artista non è sempre un banco di prova?
Lo è. Ma è anche un modo per mettere in fila una serie di cose che hai fatto e che sono successe per riguardarle e capire ciò che hai combinato. Ragione per cui è comunque emozionante: tante volte, quando si fa un mestiere come il mio con un taglio soprattutto commerciale, non si ha tempo per riflettere su un lavoro perché se ne deve cominciare un alto. E quindi questa rappresenta anche una bella occasione per fermarsi un secondo, fare il punto su quanto fatto e, in qualche modo, ripartire.
Il verbo “combinare” da te usato fa pensare a una marachella commessa da un bambino…
Per uno che disegna spesso qualcosa, se vogliamo, di bambinesco, si è combinato parecchio. Faccio l’illustratore nello specifico da poco più di dieci anni, è diventato il mio modo fortunato di pagare i conti e in dieci anni sono successe davvero tante cose: ho iniziato con le illustrazioni per i giornali e i periodici e ora mi ritrovo a lavorare per la Triennale Milano.
La copertina del New York Times Magazine ha rappresentato la parte più importante delle mie collaborazioni editoriali ma non è meno affascinante ciò che oggi mi porta a collaborare direttamente con i brand. Quando un’azienda, grande o piccola che sia, decide di affidare la propria storia alla tua voce è sempre un bell’esercizio di stile: è un incontro di storie, di sguardi, di persone che creano qualcosa di nuovo insieme da un punto di partenza comune. E, se il cliente alla fine è soddisfatto, significa che sei riuscito a sviluppare un linguaggio abbastanza maturo e coerente.
Alla Fuorisol Week sono esposte trenta tra le tue opere più importanti.
Abbiamo cercato di realizzare una sorta di doppia collezione. Da una parte, ci sono opere che riguardano la mia attività più commerciale, immagini create negli anni per brand come Nestlè, Campari o Barilli. E dall’altra parte, opere che fotografano la mia ricerca personale: è sempre importante riuscire a ritagliarsi del tempo per disegnare per il piacere di farlo, per raccontare le tue storie e provare a fare degli esperimenti. Il mercato, per quanto sia un luogo bellissimo, spesso non ha così tanta fantasia: quando inizia a riconoscerti per qualcosa, tende a chiederti di rifarla. Nella tua ricerca personale, invece, puoi esplorare soluzioni nuove, tecnicamente e non solo: grazie ai social, che garantiscono una certa visibilità, puoi mostrarle e far sì che qualche cliente ti chieda di uscire da quell’etichetta che in qualche modo ti avevano messo addosso.
Molte di queste trenta opere sono incentrate sull’essenza della figura femminile. Cosa ti porta a mettere la figura femminile al centro delle tue opere?
Beh, sicuramente una questione estetica: certe linee e certe forme mi attirano maggiormente rispetto ad altre. E, quando mi diverto, mi viene più facile e spontaneo disegnare. Può sembrare un po’ scontato ma la figura femminile ha sempre qualcosa in più, di particolare e speciale, rispetto a quella maschile. Sono assolutamente convinto che il futuro sarà femmina, me lo auguro senza per questo volerne fare un discorso politico. Quella metà del cielo, come viene chiamata, ha davvero qualcosa di speciale che non è legato solo al suo sesso di appartenenza ma anche a un certo modo graziato ma determinato di stare al mondo. Ed è quello che in qualche modo provo a raccontare.
Quali sono le figure femminili più importanti del tuo percorso?
Sicuramente mia madre, mia moglie e mia figlia. Sono le tre figure per me fondamentali perché ogni giorno mi portano a confrontarmi con qualcosa di diverso da me ed è super stimolanti.
Rappresentano in qualche modo tre differenti generazioni di donna. Cos’hai imparato da ognuna di loro?
Imparo quotidianamente ancora da tutte e tre perché hanno delle chiavi di lettura del mondo che magari non mi aspetto o che non ho. Mia madre mi ha insegnato a vivere la vita con il sorriso: anche quando le cose non funzionale, ne vale sempre la pena. Mia moglie mi ha insegnato come stare al mondo in maniera più organizzata e razionale di quanto lo sia io: la nostra combinazione di diversità fa bene a entrambi. E mia figlia, molto simile a me, mi ha insegnato a riconoscermi: è molto simile a me e quindi tra di noi è come se ci fosse un gioco di specchi.
La Fuorisol Week nasce nel contesto della Milano Design Week. Cosa hanno visto in te per convincerti a fare la tua prima personale?
Bisognerebbe chiedere a loro cosa abbiano visto in me, io so che è stato abbastanza facile convincermi. Molto probabilmente avranno visto qualcosa nel mio linguaggio che in qualche modo raccontava anche il loro modo di essere, avranno intuito che avevamo qualcosa in comune e avranno intravisto nelle mie opere una voce che poteva essere funzionale a raccontare la loro storia.
E poi c’era un ulteriore aspetto che mi ha spinto a partecipare: la nascita di uno spazio nuovo. Sono stato contattato da Jungle e mi è stata prospettata la nascita di uno spazio in città che si chiamerà SOL – Side of Lorenteggio, che prenderà il via in occasione della mia mostra personale. Il progetto è particolarmente interessante: dietro c’è l’idea non solo di creare uno spazio in cui Jungle, Cookies, Babooth e OFF Media, quattro differenti realtà, daranno vita a un collettivo indipendente per portare avanti il loro lavoro, ma anche il proposito di aprirsi al territorio provando a essere un contenitore di attività molto diverse che hanno a che fare con la cultura e con la bellezza. Mi sembrava una bella storia a cui prestare le mie matite.
Uno spazio che nasce in un territorio molto particolare, quello della periferia.
Mi piace immaginarlo come un posto in cui attirare nuovi giovani. Sono milanese ma sono un ragazzo di periferia e da sempre c’è un rapporto particolare tra la periferia e il centro, che appare sempre lontano, quasi un altro mondo. È sempre interessante portare qualcosa di nuovo in posti che sono un po’ fuori da certe mappe, luoghi meno frequentati ma vissuti da un pubblico molto giovane. Sono anche un insegnante per cui l’istinto di provare a trasmettere e passare alle nuove generazioni arte, cultura e bellezza è per me fondamentale.
È semplice insegnare l’arte dell’illustrazione? È uno dei campi artistici più personali in assoluto: non ci sono canoni prestabiliti a cui attenersi e tutto è deputato alla sensibilità dei singoli individui.
Insegno ai giovani che hanno grosso modo 20 o 21 anni. Ognuno di loro ha un filtro personale per cui guardare il mondo: a loro insegno la ricerca e non tanto come disegnare bene. Non ho una formazione artistica alle spalle per cui, quando entro in classe, mi ritrovo davanti a persone che tecnicamente danno disegnare anche meglio di me. Come dico sempre loro, il mio obiettivo è quello di insegnare loro a restituire su carta il proprio modo di vedere le cose e ad avere buone idee: oggi dal mercato non viene richiesto di essere semplicemente bravi a disegnare ma anche di essere capaci di avere buone idee da raccontare. Quindi, spiego loro quanto importante sia essere continuamente alla ricerca di idee.
Il politically correct ha inficiato il tuo modo di lavorare?
No, perlomeno non ancora. Non ho avuto finora nessun tipo di problema e non ho avuto nessun disegno rimandato indietro perché urtava la sensibilità di qualcuno. Anche perché oggi c’è, com’è corretto che sia, un’attenzione e una richiesta maggiore nei confronti dell’inclusività.
Durante la tua mostra personale, ci sarà una serata particolare, quella del 19 aprile, il FuoriSol Party, un evento privato a cui è annessa una sessione di live painting.
Sarò io a tenerla con l’aiuto di un’assistente che mi darà una mano. Si tratta di una mia ex studentessa: l’idea di tramandare qualcosa e di provare a passare il testimone in me è sempre forte. Durante la serata ci sarà musica dal vivo con il gruppo milanese Telemagenta e, come da tradizione degli eventi del Fuori Salone, qualcosa da bere.
Qual è la difficoltà maggiore del live painting?
Rompere il ghiaccio. Disegnare è quasi sempre un esercizio anche intimo e, quindi, farlo mentre sei circondato da molte persone che ti guardano è all’inizio un po’ strano: non sono abituato a farlo davanti a un pubblico. Ma, dopo aver superato l’impasse iniziale, mi auguro che si trasformi in qualcosa di ipnotico: quando mi è capitato di assistere a sessioni di live painting di altri artisti, ho adorato vederli disegnare, vedere le forme che si compongono e che cominciano a prendere vita. Mi auguro che sia così anche per chi verrà a vedere la performance.
Da quanto disegni?
Disegno da quando ne ho memoria. Mia mamma mi racconta che, quando mi portava all’asilo al mattino, mentre tutti gli altri bambini giocavano e correvano da tutte le parti, io mi guardavo la maestra e le chiedevo se potessi disegnare: mi sedevo in un angolo e cominciavo a farlo. Più che un lavoro, il disegno è per me una terapia personale: è sempre stato il mio modo di guarire, relazionarmi al mondo e raccontare ciò che vedevo.
Mia madre conserva ancora alcuni dei disegni che facevo da bambino. Ma non ero il classico bambino che disegnava tanto per farlo. Quando mi assegnavano un tema, se mi piaceva, facevo dei piccoli “capolavori”, altrimenti veniva fuori qualcosa che non era per nulla ispirato. A rivedere oggi le due tipologie di disegni sembrano fatti da due bambini diversi: avevo una sorta di intelligenza selettiva, senza saperlo, anche da piccolo!
Un po’ la stessa che ti serve oggi quando ti commissionano un lavoro…
Crescendo, ci metti anche un po’ di mestiere… anche quando la storia non è la migliore del mondo, riesci sempre a cavartela rispettando qualità e standard. E si impara anche che la perfezione è una chimera: non mi piace inseguire il disegno perfetto, non lo farò mai… potrò fare disegni che mi piacciono di più e altri che mi piacciono di meno ma il bello sta proprio nel pensare a ciò che farai la volta successiva e poi quella dopo ancora. Non mi sentirò mai arrivato: l’obiettivo è quello di migliorare sempre il proprio lavoro.
C’è qualcosa che non hai ancora raccontato?
Su due piedi, non saprei. Gran parte del mio lavoro, consiste nel prestare voce a qualcun altro e quindi scopro costantemente cose nuove. Negli anni ho disegnato tutto e il contrario di tutto, compreso soggetti che non mi sarei mai aspettato di dover disegnare… ma è un po’ anche il fascino di questo lavoro: ti costringe a disegnare cose a cui non avresti mai pensato!