Incontro Gabriele Baldocci telefonicamente e so già che quella che verrà fuori non sarà un’intervista come tante altre a lui fatte che capita di leggere in giro. Pianista e compositore dalla fama mondiale, viene solitamente chiamato in causa per raccontare il suo lavoro, l’ultimo album che ha pubblicato, l’endorsement dei Queen o il privilegio di essere il pupillo di Martha Argerich.
Si, è vero: Gabriele Baldocci ha un album di inediti in promozione, Ageless, anticipato dal singolo omonimo dedicato all’amico e artista Ezio Bosso, ma al “ciao” qualcosa mi dice che, come la musica, andremo al di là dei limiti dello spazio e del tempo. Qualsiasi cosa si dica sulla carriera di Gabriele Baldocci può risultare retorica: per lui, basta usare ad esempio la definizione di Jed Disher che sulla rivista Gramophone lo appella come “un pianista dalle capacità formidabili”, a ragione veduta.
Oppure elencare i posti in cui ha tenuto concerti: la Tonhalle di Zurigo, il Musikverein di Vienna, il Teatro Colon di Buenos Aires, l’Auditorio Nacional di Madrid, il Palau de la Musica di Barcellona, la Ceramic Crystal Hall di Seoul, la Sala Verdi di Milano, il Teatro Ghione di Roma, il Teatro Rossetti di Trieste, il Teatro Ponchielli di Cremona, la Parnassos Hall di Atene, il Teatro Lirico di Cagliari.
Ai tanti traguardi professionali si può anche aggiungere come, dopo una carriera da interprete e performer di se stesso, Gabriele Baldocci abbia deciso di abbracciare anche il ruolo di compositore, aprendo un nuovo spiraglio sulla sua continua evoluzione. Tuttavia, dopo quest’intervista, potrete cominciare a raccontare di come dietro a Gabriele Baldocci, il prodigio del piano, ci sia anche un uomo che a lungo ha dovuto confrontarsi con il destino e con ciò che l’infanzia gli ha posto di fronte: una malattia autoimmune che ha segnato quello che avrebbe dovuto essere, per antonomasia, il periodo più spensierato della sua vita.
Ma procediamo per ordine, costruendo tassello dopo tassello la storia dell’uomo Gabriele Baldocci, oltre che del pianista.
Intervista esclusiva a Gabriele Baldocci
Ageless è il tuo ultimo lavoro. “Senza età” sarebbe la sua traduzione in italiano. La musica è senza tempo?
La musica si sviluppa nel tempo, che è la sua dimensione più naturale. Ho deciso di chiamare questo lavoro Ageless, nato non per essere un concept album ma poi rivelatosi così a tutti gli effetti, perché mi trovavo in un momento della vita per cui la mia riflessione andava verso la percezione del trascorrere del tempo. E la traccia omonima dell’album dedicata a Ezio Bosso racconta proprio di come rimanga nel tempo l’eredità di un grande artista che come lui ci ha lasciato troppo presto: mentre il mondo intorno invecchia, la sua musica sarà sempre… senza età.
Come senza età sono i ricordi. Se pensi alla musica, qual è il primo ricordo che ti balza alla mente?
Un vecchio pianoforte inglese dell’Ottocento che mio padre aveva comprato prima che io da nascessi con uno dei suoi primi stipendi da operaio. Il destino ha fatto sì che quel pianoforte diventasse il mio giocattolo preferito e che l’Inghilterra diventasse la mia casa.
Quand’è che l’Inghilterra è diventata la tua casa?
Quasi dodici anni fa. E la ragione è semplice: nasce dalla mia voglia di avventura. Mia moglie non è italiana, è spagnola, per cui avevo una scusa in più per essere meno radicato al mio Paese. Quand’è rimasta incinta di nostro figlio, le ho proposto di provare a fare un’esperienza all’estero: se il bambino avesse messo radici in Italia, sarebbe stato dopo molto più difficile andare via. Mi era stata offerta una cattedra in un’importante università londinese, il posto di lavoro per le mie date dal vivo era già il mondo e quello sarebbe stato il momento perfetto per andare via.
Non c’era in fondo il desiderio di andare via da un Paese che non attribuisce oggi il giusto valore a quella musica classica che ha contribuito alla sua formazione culturale?
Nel mio caso, c’era più la voglia di andare via dalla mia città, Livorno, con cui all’epoca avevo un rapporto di amore e di odio. La mia carriera era decollata in qualche modo ma non mi sentivo molto preso sul serio. Forse era una sensazione mia o forse era la realtà ma la livornesità mi stava stretta, mi faceva sentire bambino. Chiaramente, questo senso di mia ribellione nasce anche dall’amore che si prova per il posto che ti ha dato le origini: essendo molto radicato alla mia terra, soffrivo dell’essere snobbato e poco considerato ma sono andato via senza alcuna rabbia.
Bambino… il tema dell’infanzia torna prepotente nelle tue parole.
È un po’ il leitmotiv della mia vita. Ho avuto un’infanzia perduta e anche un po’ traumatica per l’essere stato malato da piccolino e abbastanza isolato in casa. Per via di una malattia autoimmune che è esplosa quando avevo sette anni, i miei mi hanno fatto vivere come in una sorta di bolla protettiva. Per diversi anni sono stato in compagnia solo del pianoforte, dei libri e degli adulti. All’epoca non si conosceva molto della malattia che avevo sviluppato per cui la mia infanzia è stata segnata dall’isolamento. Quando poi sono tornato in società, ero ovviamente un po’ nerd: gli anni passati a studiare mi avevano dato un bagaglio superiore agli altri e non nego di aver subito episodi di bullismo e di esclusione.
Ho potuto vivere la mia infanzia quando è nato mio figlio. Il riviverla con e attraverso lui oggi mi fa parlare molto spesso dell’infanzia e del passato ma non come nostalgia. Semplicemente, il mio inconscio ha deciso che venisse fuori.
Al di là del peso psicologico del sentirsi diverso per non potersi relazionare con il gruppo dei pari, cosa ha comportato in sé la malattia?
Più che conseguenze fisiche, ha avuto conseguenze per la mia salute mentale. Negavo la malattia, per me non esisteva e, soprattutto, non mi faceva paura. Ero molto disciplinato, seguivo le indicazioni che mi veniva data dai dottori e non mi ribellavo ma non ho mai avuto paura. È stato più traumatico il ritorno alla normalità proprio perché ero “diverso”: avendo vissuto in un ambiente familiare e per di più da figlio unico, ero molto sicuro di me proprio perché non dovevo confrontarmi con il mondo ed ero circondato solo da persone che mi volevano bene.
Sono tornato a scuola con la convinzione assoluta che i feedback che avrei ricevuto sarebbero stati sempre positivi. E, invece, il più delle volte erano negativi: mi si vedeva come malaticcio per via della mia faccia sempre un po’ emaciata e pallida e mi si guardava con un occhio strano per le mie modalità di comportamento più adulte della media. I miei, persone molto pacifiche e sagge (forse un po’ troppo) mi hanno insegnato a non rispondere mai alla violenza con la violenza, per cui rimanevo immobile quando venivo bullizzato e anche picchiato: non reagivo e me le pigliavo.
Nel raccontarmi quel periodo della vita noto che non perdi il sorriso…
Ho vissuto anni di grande rabbia ma, ripensandoci adesso, credo che ciò che mi è accaduto abbia contribuito a far sì che oggi io abbia una certa corazza che mi permette di affrontare situazioni stressanti, il pubblico e l’ambiente musicale, che tutti sappiamo essere molto competitivo. Il vedere il lato positivo delle cose è stata una grandissima scuola di vita per cui non posso fare oltre che ringraziare oggi anche quei momenti: ciò che non ti uccide, ti fortifica.
Non hai mai nominato negli anni il nome della malattia autoimmune di cui hai sofferto. È stata una tua scelta quella di non farlo forse per difenderti?
No, assolutamente: semplicemente, non me l’hanno mai chiesto. Si chiama Nefropatia da IgA, nessun segreto. All’epoca era una malattia di cui si conosceva molto poco, ragione per cui nel 1987 non fu facile nemmeno per i medici arrivare a una diagnosi. Notai il primo sintomo andando in bagno a far la pipì: era molto scura e pensavo dipendesse da qualcosa che avevo mangiato. Poi, si pensò a una nefrite ma non si capiva da cosa potesse avere origine. Solo dopo si comprese che era autoimmune. Ma la cosa bella è che così come è arrivata all’improvviso se n’è andata: avevo tredici anni quando si è verificato l’ultimo episodio di ematuria (sangue nelle urine, ndr)… mai più avuti sintomi dopo.
Nel 90% dei casi le malattie autoimmuni degenerano o rimangono comunque dormienti, la mia è completamente sparita. Ragione per cui nel tempo ho quasi ignorato di poter avere una potenziale bomba a orologeria nel mio corpo (nessuno sapeva come avrebbe potuto evolversi) tanto che ho persino dimenticato di raccontarla a colei che sarebbe diventata poi mia moglie. Non è stata indelicatezza ma proprio dimenticanza, figlia forse di quel mio stato mentale per cui non ero malato.
Quel vecchio pianoforte inglese in casa ti ha portato in quegli anni a concentrarti sullo studio dello strumento. Cosa rappresentava per te la musica in quel momento di vita?
Era un sogno, la visione di ciò che non vedevo per almeno due motivi. Primo, perché venivo da una famiglia operaia dove si respirava tanto amore e tanta bellezza ma in cui non c’era la consapevolezza di come relazionarsi al dono di questo bambino: i miei genitori non sapevano come gestirlo, cosa fare o dove mandarmi a studiare. Secondo, perché per me la musica rappresentava una scoperta costante della mia identità: il mio interiore, per reazione psicologica, non si identificava con il bambino malato ma con il bambino pianista.
Sono stato, dunque, un enfant prodige: ho partecipato a un sacco di concorsi e concerti già da piccolino… ne conservo ancora i video, anche se per molti anni non ho voluto guardarli. E, in più, anche quando venivo battuto o deriso dai miei coetanei, mi rendeva forte sapere che non ero proprio uno sfigato ma che qualcosa di buono la stessi facendo anch’io.
Perché per anni non hai voluto rivedere quei filmati?
Adesso parlo in maniera molto tranquilla della mia infanzia ma non è sempre stato così. L’unico modo di curarmi dal dolore che mi ha lasciato è stato, come accennavo prima, riviverla attraverso mio figlio ma non proiettando me stesso su di lui. Tuttavia, vedere da vicino un’infanzia normale ha fatto sì che in me riemergesse ciò che avevo seppellito e che lo affrontassi direttamente. E, quindi, per molto anni ho evitato anche di tornare a tutto quello che ero e facevo da piccolo.
Oggi però lo stiamo facendo: ti dà fastidio?
No, mi fa piacere. Solitamente mi si chiede nelle interviste della mia musica e di ciò che faccio ma a me fa molto più piacere poter affrontare temi che reputo più universali, senza tempo, luogo o barriere.
Hai tenuto il tuo primo concerto allora, da piccolo. Immagino che esibirsi di fronte a un pubblico ti abbia messo addosso aspettative. Ne sentivi il peso?
Era una spada di Damocle sulla testa. Non era tanto il peso dell’aspettativa che sentivo nel dover dimostrare di essere all’altezza a gravare ma un discorso più lato legato alla sopravvivenza: a casa non c’erano soldi ma i miei mi avevano sempre e completamente supporto durante il mio cammino come musicista. Era un po’ come andare a nozze con i fichi secchi: studiare con i migliori insegnanti costava molto, così come spostarsi tutti i giorni per andare a Imola, dormire fuori o poi trasferirsi a Vienna per completare gli studi.
Tuttavia, i miei non mi rivelavano di essere in difficoltà: papà faceva gli straordinari per permettermi tutto ciò e per arrivare a malapena a fine mese. Per cui, sentivo la responsabilità di dover in qualche modo ripagare i loro sforzi: dovevo riuscire io a vivere di quello che era stato un destino già scelto.
Quando hai poi capito che la spada di Damocle pendeva a tuo favore?
Quando Martha Argerich, la più grande leggenda del piano vivente, ha deciso di portarsi con sé quello che all’epoca era ancora uno studentello, senza alcun tipo di raccomandazione esterna. È stato conoscendomi e sentendomi che ha scelto di portarmi in tour, segnando l’inizio di quello che sarebbe stato il mio percorso fino a oggi.
È la volta che hai capito che la ce la potevi fare ma coincide con quella in cui ti sei detto “bravo” per la prima volta?
Dovrebbero dirmelo gli altri… ma si sono state delle volte in cui ho detto “bravo” a me stesso essere riuscito a vivere di ciò che amo partendo veramente dal niente. Sembra il cliché, fastidioso, del self made man…
No: più che altro la tua mi sembra una bella storia di self empowerment.
Sono arrivato alla conclusione che ognuno ha un posto nell’universo: spetta a noi scoprire quale. Anche quando proviamo a deviare strada, sembra quasi che l’universo risponda mandando dei segnali: ogni volta che sono stato sul punto di rottura, in varie circostanze, c’è sempre stata una svolta nella mia vita che mi ha ricondotto sulla giusta via. Bisogna essere particolarmente sensili nel sentire il richiamo, nel non arrendersi e nel non lasciarsi andare al momento di scollinamento.
In Ageless, ci sono diverse dediche e tributi: a Ezio Bosso, a tua moglie, a Paolo Virzì… cosa ti permette di comunicare la musica che le parole non riescono a dire?
Vivo oramai la vita in tre lingue: l’italiano, lo spagnolo di mia moglie e l’inglese della città in cui abito. Mi ritrovo spesso a usare un mix di parole non per fare il figo ma semplicemente perché ci sono termini che in una lingua hanno sfumature che in un’altra mancano. Nella musica, invece, la sfumatura è immediata. A livello di sensibilità, di vibrazione, di energia e di emozione trasmessa, posso comunicare qualcosa direttamente affinché venga percepita esattamente come la sento io. Per me, è il modo più diretto di rappresentare il mio mondo interiore.
Cosa la musica classica o il jazz potrebbero comunicare ai ragazzi della Generazione Z secondo te?
La cosa più sbagliata da fare è quella di etichettare la musica in generi. Tutto il discorso sulla fluidità di genere andrebbe anche applicato alla musica. Io ho una barra identificata nella musica tradizionale comunemente chiamata classica: è la mia base ma negli anni mi sono nutrito di tutta la musica a cui sono stato esposto. La mia apertura mentale mi ha portato ad ascoltare milioni di altri generi musicali che ho fatto miei, introiettandoli. Il risultato è una musica che trascende dalla classica e che può essere ascoltata da tutti: l’importante è non etichettarla. Ai ragazzi direi: ascoltatela e ditemi cosa vi trasmette… con il pubblico occorrerebbe creare un rapporto inquisitivo e non di chiusura.
Che rapporto hai invece oggi con Livorno?
Abbiamo fatto pace. Negli ultimi tempi è anche ritornato fuori quell’accento livornese che era un po’ sparito: prima tendevo a nasconderlo, ora invece è tornato per sottolineare quelle origini da cui ero partito.
Livorno è una città di mare. E tu come un marinaio sei partito alla conquista dei sette mari. Cosa ti ha sorpreso di più incontrare in questa navigazione?
Fino a qualche anno fa, l’ambiente della musica classica era molto elitario. Sentivo un certo tipo di snobismo che ultimamente è scemato nei confronti di chi come me voleva ascoltare o frequentare ambienti più pop o rock. Quando sono arrivato a Londra, avevo già affermato il mio nome per cui, non avendo niente da dimostrare a nessuno, mi sono inserito in una scena molto più di larghe vedute di quella italiana e ho stretto amicizia incredibili, anche tra chi ruota intorno alla band dei Queen, compreso il miglior amico di Freddie Mercury.
Sono stati incontri che mi hanno dato tantissimo e fatto crescere molto dal punto di vista artistico… è stata un’aggiunta a tutto quello che la vita mi aveva già dato prima. Grazie a una collaborazione recente con Asaf Avidan, ho anche potuto constatare come l’approccio alla musica non sia così come dogmatico come mi hanno insegnato: è tutto molto istintivo. Tutte le esperienze diventano inevitabilmente parte di noi, per cui ringrazio di essere partito alla scoperta del mondo!