Nella seconda stagione della serie tv Prime Video Monterossi, Gabriele Falsetta torna a rivestire i panni del Biondo, killer che insieme al Socio di Maurizio Lombardi per raccattare qualche soldo si ritrova in un periodo di magra a viaggiare da Milano a Reggio Calabria per dare la caccia a uno ‘ndranghetista. Si tratta di una delle linee narrative che il regista Roan Johnson ha voluto espandere per rendere la narrazione del romanzo di Alessandro Robecchi Torto marcio, da cui la serie tv è tratta.
E ritrovare il Biondo è stata una sorpresa anche per Gabriele Falsetta, che non immaginava di certo più di un anno fa a quale successo personale sarebbe andato incontro il suo personaggio. Come ci racconta in questa intervista in esclusiva, è stata l’opinione pubblica a premiare un personaggio sui generis come il Biondo, un cattivo che beckettianamente aspetta un qualcosa che non arriva mai.
Il ruolo del cattivo da sempre sembra accompagnare Gabriele Falsetta, anche se per il futuro l’attore ha in serbo una sorpresa che potrebbe spiazzare chi è abituato a vederlo in ruoli borderline come nella serie tv Vostro onore o come nella futura M – Il figlio del secolo, in cui sarà il più fascista dei fascisti. Sarà per la fisiognomica, scherziamo nell’avanzare un’ipotesi, ma scopriamo che forse dipende anche dalla sua straordinaria di osservazione dei lati oscuri insiti in ognuno di noi.
Tra presente, passato e futuro, Gabriele Falsetta ci racconta col sorriso la sua esperienza, non solo professionale. Ricorda gli anni della mancata scuola e del teatro, ci svela le peculiarità dei set spagnoli di prodotti come Elite e Nacho – Una industria XXL e si mette psicologicamente a nudo nel raccontare la sua idea di cinema.
Intervista esclusiva a Gabriele Falsetta
Inizio la chiacchierata con Gabriele Falsetta con la solita domanda sui pronomi da usare nei suoi confronti e sulla possibilità di darsi del tu. E subito emerge un dettaglio che non mi passa inosservato, legato alle sue radici. “Mio padre, quando era giovane, se non dava del voi a mio nonno, veniva menato”, è la sua osservazione. Un’osservazione che mi porta a scoprire che, seppur nato e cresciuto a Genova, Gabriele Falsetta ha chiare origini meridionali, calabresi per l’esattezza.
La Calabria per certi versi è un punto in comune che condividi con il Biondo, il killer che interpreti nella serie tv Prime Video Monterossi: insieme al Socio, nella seconda stagione affronta un viaggio che parte da Milano e arriva fin laggiù.
Non a caso ne ho chiacchierato molto con mio padre, anche se lui non ha un bellissimo rapporto con quella terra perché lo riporta indietro ad anni non proprio felici. Il conoscere meglio la Calabria è stato qualcosa che mi sono andato a ricercare da solo soprattutto per conoscere meglio le mie radici e le mie origini. Quando fai un lavoro come quello di attore, diventa necessario sapere chi sei e cosa sei diventato.
In Monterossi, il mio personaggio ha a che fare comunque con una certa criminalità calabra. Si tira dunque in ballo la ‘ndrangheta e tutto ciò che comporta. Discutendone con il regista Roan Johnson e con il mio partner in scena, Maurizio Lombardi, ho però cercato di non riportare il solito stereotipo della Calabria, mantenendo comunque il bellissimo equilibrio che ha il racconto, tra commedia e dark humor. Il Biondo e il Socio portano al racconto una bella dose di umorismo nero: sono fondamentalmente due sicari che non hanno mai sparato un colpo e che si ritrovano sempre in situazioni di disagio.
Sto ancora scoprendo la Calabria. Ne ho imparato l’accento facendomi aiutare da mio padre e dai colleghi calabresi. E ho realizzato che, al di là di tutti i luoghi comuni che conosciamo, è una terra complicatissima, meravigliosa e tragica al tempo stesso.
La ricerca di Biondo e Socio in Calabria si rivelerà però “infruttuosa”…
I due personaggi da un certo punto di vista sono beckettiani, un po’ tarantiniani mi verrebbe da dire se non fosse un aggettivo oramai abusatissimo, perché perennemente in una sorta di attesa. Li caratterizza una certa incapacità di risolvere le situazioni al centro delle quali si trovano e trovo divertente che abbiano nulla del sicario cattivo e infallibile. Assolvono quasi una funzione letteraria dal sapore retrò: aspettano e non risolvono.
Ti ha sorpreso essere riconfermato nella seconda stagione di Monterossi e con una linea narrativa appositamente ampliata?
Sono rimasto sorpreso, sì. Ma anche contento perché non sempre le opzioni che si firmano per una seconda stagione vanno in porto: oramai quando si comincia un progetto soprattutto seriale si dà la propria disponibilità per una nuova stagione ancor prima di sapere come andrà la prima. Quindi, non mi aspettavo che la conferma arrivasse. In più, Roan Johnson e Alessandro Robecchi ci hanno un gran bel regalo ampliando il ruolo del Biondo e del Socio.
Senza presunzione o sicumera alcuna, credo che il merito della conferma sia da ricercare anche nell’apprezzamento dal basso che hanno avuto i due personaggi. Per certi versi, tornano per acclamazione popolare: dopo la prima stagione, in tanti soprattutto sui social hanno cominciato a postare storie, post o reel, in cui chiedevano addirittura uno spin-off dedicato ai due. Segno che hanno funzionato e che portavano un altro tipo di energia o comunque una linea narrativa un po’ divergente al resto del racconto.
Il riscontro da parte del pubblico, per chi fa il mio lavoro, non è mai scontato: è sempre sorprendente e alla stregua del più importante dei premi.
Scherzando, possiamo dire che hai un po’ il physique du role per il killer. In Finalmente l’alba, ti vedremo rivestire i panni del presunto assassino Piccioni, mentre nella serie tv M – Il figlio del secolo sarai addirittura Farinacci, un gerarca fascista. Colpa della fisiognomica di Lombroso?
“Il più fascista”, come lo definiscono Alfassio Grimaldi e Bozzetti in un loro libro. Sicuramente Lombroso su di me avrebbe avuto ragione ed è qualcosa su cui mi sono interrogato per tanti anni. A tal proposito mi viene da citare ciò che disse il suo agente a Donald Sutherland durante i primi anni della sua carriera. In ballo per un ruolo, non venne scelto perché cercavano un attore che avesse l’aria del vicino, dell’uomo della porta accanto: “Tu sembra che non abbia mai vissuto vicino a nessuno”, gli rispose l’agente.
E, a quanto pare, non ho l’aria né del vicino di casa né del fidanzatino d’Italia. Una risposta me la sono data: probabilmente si deve molto al lavoro che ho fatto sin da ragazzino sull’osservazione e sulla curiosità nei confronti di certi soggetti. Non sono mai stato nella mia vita un assassino, un cattivo, un fascista, un sicario o uno ndranghetista, ma li ho osservati da vicino nella realtà, cogliendo testimonianze, particolari e letture che mi hanno sempre affascinato.
Lo dico senza cinismo: è divertente interpretare i cattivi perché ti spinge a confrontarti con te stesso e la propria indole per calarsi nell’altro da sé. Si aprirebbe un bel discorso umanista e spirituale che possiamo riassumere in breve: è nella distanza tra te e l’altro che ci si mette in gioco e ci si guarda dentro. In fondo, non siamo tutti così buoni come pensiamo di essere: un lato oscuro, più o meno evidente, c’è in tutti noi. Andarlo a ricercare ti dà la possibilità di scandagliare anche personaggi più complessi, sfaccettati o prismatici. Il Biondo e il Secco in Monterossi si presentano come cattivi ma non lo sono per nulla: anzi, hanno una loro etica estremamente ridicola, quasi da giustizieri senza mai una lira.
Interpretare un buono “buono” è anche rischioso. In una certa visione di mercato, può essere consolatorio e rassicurante ma, sotto altre prospettive, non è realistico. Certo, c’è poi anche mia madre che si lamenta del fatto che non può far vedere alle sue amiche un personaggio da me interpretato: mai che ce ne sia uno dritto di cui non imbarazzarsi, che non sia uno stupratore, un rapinatore, un pedofilo o un assassino.
Piano piano, però, sto cominciando anche a valutare la possibilità di interpretare qualche altro tipo di personaggio, forse anche per una questione anagrafica. Quando si è molto giovani, tutti vogliamo essere il Joker e non Batman ma, crescendo, si realizza che forse anche Batman è interessante per via della sua psiche frammentata: è un non buono, non rassicurante e non consolatorio che mette tutti d’accordo.
E a febbraio girerò un film con un ruolo "responsabile" rispetto al dark side su citato. Insieme ai miei agenti Federico Grippo e Dante Perrel di Agave Consulenze Creative, abbiamo cominciato ad ampliare lo spettro dei ruoli e delle proposte che ci arrivano. Anche perché nella vita di tutti i giorni sono la persona più normale e anche noiosa che possa esistere: me ne sto a casa con la mia gatta Sylvie (chiamata così perché trovata la notte di San Silvestro), a leggere, fumare o bere un bicchiere di vino.
Parli anche con la tua gatta?
Ma anche da solo, tantissimo. Lo faccio per allenare la memoria e mi capita spesso di farlo anche per strada: vado in giro e mi ripeto le battute ad alta voce. Qualche volta mi sono beccato anche qualche schiaffo dalla gente, da qualcuno che pensava che parlassi con lui o con lei: mi è capitato soprattutto a Milano, a Roma forse danno un po’ più per scontato che ci siano “matti” in giro. A Milano, invece, è come se ci fosse una certa reattività alla stranezza… Il mio vicino di casa, qualche giorno fa, dopo aver visto una serie che ho interpretato su Netflix (Vostro onore), mi guardava persino strano nel riconoscermi ma diverso dal personaggio del boss che viveva in un loft pazzesco.
Per citarmi il libro di Alfassio Grimaldi e Bozzetti sei salito appositamente su uno scaffale per prenderlo. Che valore dai allo studio di un personaggio?
Tantissimo. Anche perché ero un pessimo studente da ragazzino. Anzi, non sono neanche quasi stato uno studente: ho studiato molto poco nella mia vita ed è stato il teatro a diventare il mio liceo, la mia università, la mia finestra sul mondo. Il cinema ha poi amplificato la mia attitudine alla scoperta, che non si è di certo consumata tra i banchi di scuola.
Dirò una banalità ma ogni lavoro mi dà la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo: Finalmente l’alba, ad esempio, mi ha permesso di approfondire il mio studio su Piccioni. L’ho sempre adorato come compositore ma non conoscevo il suo lato oscuro e il suo coinvolgimento nell’affaire Montesi.
Da Leone ascendente Vergine, da ragazzino ho fatto prevalere il mio lato un po’ fuori controllo del Leone: ero uno studentello che non studiava e si lasciava andare a una certa pigrizia, impulsività, irascibilità, aggressività e attrazione verso il dark side di cui sopra. L’ascendente Vergine si è fatto comunque sentire dopo molto nel controllo, nell’approfondimento e nella ricerca. Mi piace oggi molto studiare tanto prima di andare sul set per poi liberarsi totalmente e giocarsi tutte le carte a disposizione. Purtroppo, o per fortuna, non lo so, non ho quel tipo di atteggiamento accademico che hanno altri.
Il teatro per me è arrivato come una sorta di provvedimento disciplinare. I tre anni di scuola al Piccolo con Ronconi mi hanno permesso di incontrare oltre a Ronconi stesso tanti altri maestri di teatro nazionale e internazionale che in qualche modo mi hanno anche disciplinato come essere umano o come cittadino. Il primo anno ero totalmente fuori da ogni grazia di Dio ma nell’estate tra il primo e il secondo anno è cambiato qualcosa in me: si è accesa come una scintilla, forse per lo spauracchio di tornare alla vita precedente, a quello che facevo prima o a come vivevo prima. È stata un’epifania che mi ha portato a rinchiudermi in casa a studiare e nelle sale teatrali a provare.
Tutto ciò per dire come non ero partito da un’idea romantica di questo lavoro: ero estremamente ignorante. Ho capito che, al di là della recitazione, riusciva a colmare anche altri miei vuoti.
Avevi scelto autonomamente di lasciare la scuola per andare a lavorare in fabbrica a 15 anni o era stata la vita a scegliere per te?
Molto sinteticamente, una via di mezzo tra le due cose. Non ero un bravo studente, smaniavo e non avevo un baricentro: l’andare a lavorare è stata una sorta di scelta istintiva, una delle tante che ho fatto nella mia vita, per collocarmi in una regione diversa a livello umano e sociale. Tuttavia, a quindici anni non potevo essere al corrente di quello che avrebbe poi comportato. C’è stato veramente un gap tra i 15 e i 23 anni, quando sono arrivato al Piccolo, ma era la mia via di fuga all’incapacità di essere attento e concentrato.
Teatro come provvedimento disciplinare. In che senso?
Disciplinare e non salvifico perché mi ha aperto tantissimo la percezione del mondo intorno a me. Il cinema, invece, mi ricorda un po’ la fabbrica, in senso buono: è un luogo dove la speculazione intellettuale resta fuori e al cui interno si lavora. Ci sono i tecnici che si danno da fare, il regista che ha mille responsabilità e l’imprevisto sempre dietro l’angolo: una meravigliosa schizofrenia!
È nel teatro che trovo il mio centro con il lavoro che si fa sul pensiero con la sua continua indagine e speculazione sui testi. La ripetizione era qualcosa che mi faceva implodere tutte le sere, peccato non averci creduto più di tanto. Più che altro non mi ci hanno fatto credere: in teatro ho visto tanto un atteggiamento molto borghese e intellettuale in scena che poco si sposava con un pubblico che pensava a cosa far dopo lo spettacolo o in quale trattoria andare a mangiare.
Può sembrare assurdo ma quel tanto decantato qui e ora del teatro lo trovo molto di più nel cinema, che ha per me i contorni di qualcosa di più pragmatico. Tra il ciak e l’azione, si ribalta del tutto quell’ego che in teatro deve essere molto forte e visibile, un ego che mi faceva soffrire perché penso di mancare di quel tipo di forza o di tenuta che si richiede. Nella vita, sono molto più cazzaro di quanto io sembri.
Il cinema ti permette di scomparire in maniera quasi gotica senza alcun tipo di responsabilità che si riflette al di fuori del set: fai il tuo lavoro e vai via, un po’ come accade in fabbrica dove dedichi le tue ore a stare accanto a una macchina prima di finire e tornare alla tua vita di sempre. In teatro, invece, richiede un lavoro di introspezione che sembra non finire mai, almeno per come l’ho vissuto e fatto io. Motivo per cui sono arrivato alla deduzione che il teatro mi appartiene dal punto di vista artigianale ma non da quello esistenziale.
Come sei arrivato dal teatro al cinema e alla tv?
Mi definisco un autodidatta del cinema: ci sono arrivato non per inclinazione ma per caso.
Un caso che ti ha portato anche fuori dai confini italiani. Hai preso ad esempio parte alla serie tv cult Elite. Cosa ti ha portato fin lì?
Prima della pandemia da CoVid, ho vissuto parte della mia vita in Spagna per scelte che definirei personali. Vivevo a Barcellona, un po’ il corrispettivo della nostra Milano, e nel guardarmi intorno ho finito con il sostenere un provino per Elite. Mi hanno scelto per un piccolo ruolo che aveva a che fare con la protagonista ma l’esperienza è stata per me interessante perché per la prima volta mi sono ritrovato diretto da una donna. Verranno dopo un’altra regista sempre spagnola e oggi una italiana (Mariasole Tognazzi, ndr) ma quello è stato il primo caso in cui ho potuto vedere come le donne hanno uno sguardo differente su determinate tematiche.
Ma anche sull’uso stesso dei corpi, percepiti come un’estensione dell’attore.
L’uso diverso dei corpi è qualcosa che ben mi è rimasta impressa soprattutto sul set dell’altra serie tv a cui ho preso parte in Spagna, Nacho – Una industria XXL, in cui si racconta il mondo del porno a metà degli anni Novanta. Quell’universo lì era ben diverso da quello che conosciamo oggi: gli attori porno erano al pari di rockstar e gli uomini nei film avevano sempre un approccio anche molto violento al corpo femminile.
Interpretavo Angelo, il cugino di Rocco Siffredi nonché regista dei suoi film, e mi sono ritrovato il primo giorno di set a riprendere con la telecamera in mano una scena porno. C’erano un intimacy coordinator donna, una regista donna, un’assistente donna e persino una produttrice donna ma, di fronte a quanto si stava girando, mi sono dovuto fermare. Non ce l’ho fatta: non ero e non sono abituato alla rappresentazione di un certo tipo di violenza e a considerare il corpo delle donne come carne da macello. Così come non ero abituato a girare con tutti quei corpi femminili e maschili nudi.
Tu giravi vestito in quel caso. Avresti problemi con il tuo nudo?
No. Ma ovviamente dipende dalla sua funzionalità. Se fosse ovvio o gratuito, lo eviterei. Sono uscito da quell’esperienza non dico con la nausea dei corpi ma trovando malsana quella dinamica. Ritrovarsi circondati in scena da 80 ragazze e ragazzi completamente nudi è stato molto complesso: non mi sono divertito per niente, nonostante quello che pensavano i miei amici in Italia. È come se mi fosse andato in crash il cervello: era una situazione che non riconoscevo perché non l’avevo mai osservata nel quotidiano.