In una commovente e sconvolgente fusione di cronaca e introspezione teatrale, Gabriele Gallinari, attore palermitano nel cui curriculum troviamo titoli come The Tourist, Il mio corpo vi seppellirà e Squadra Antimafia – Palermo oggi, emerge come il fulcro emotivo di Il 20 novembre, un'opera intensa e provocatoria di Lars Norén diretta da Beno Mazzone. Questa produzione del Teatro Libero di Palermo, in scena dal 29 febbraio con repliche nei giorni successivi, attinge dalla tragica eco di eventi che hanno scosso le comunità di Columbine negli USA e di Emsdetten in Germania, trasformandoli in un potente strumento di riflessione sociale.
La pièce non si limita a narrare la cruda realtà di questi episodi, ma sceglie di esplorare le complesse dinamiche giovanili, la fragilità adolescenziale e il senso di alienazione che possono culminare in atti di incomprensibile violenza. Con l'ambizione di stimolare un dialogo aperto e significativo, il Teatro Libero di Palermo ha organizzato anche una serie di matinée dedicate agli studenti e agli insegnanti, promuovendo un confronto su temi spesso trascurati dal dibattito pubblico.
Norén, con il suo consueto acume, si addentra nelle ombre dell'animo umano, interrogandosi sull'origine di queste esplosioni di rabbia autodistruttiva. La sua opera, cruda e senza compromessi, si rifiuta di offrire consolazioni facili, preferendo invece indagare le radici profonde del disagio giovanile in un'esplorazione che interpella direttamente la coscienza collettiva. In questo contesto, il personaggio di Sebastian diventa il simbolo di un contrasto generazionale acuto: la lotta tra l'immagine di sé percepita e quella riflessa dagli altri.
La scelta di Gabriele Gallinari per il ruolo unico di questa pièce riflette una volontà di confrontarsi con la sfida del monologo, esponendosi senza reti di protezione alla crudele sincerità del testo. Gabriele Gallinari condivide con noi il suo percorso di preparazione al ruolo, le sue riflessioni sulla percezione di sé e sugli insegnamenti che ha tratto dall'interpretare un personaggio tanto distante da lui.
Mentre Gabriele Gallinari si apre sulla sua esperienza, tocchiamo temi universali quali l'identità, l'accettazione e la trasformazione personale, invitando il lettore a un viaggio attraverso le pieghe più oscure e, allo stesso tempo, più illuminanti della psiche umana. Ma anche la casa di Pier Paolo Pasolini, dove da qualche tempo Gabriele Gallinari vive.
Intervista esclusiva a Gabriele Gallinari
Sebastian, il protagonista di Il 20 novembre, è un adolescente che, con tutte le sue fragilità e le sue vulnerabilità, mette in evidenza uno dei contrasti che interessano la società contemporanea: lo scontro tra percezione che ognuno di sé e la percezione che ne hanno invece gli altri. Cosa ti ha fatto dire di sì al ruolo dell’unico protagonista in scena?
Avevo, innanzitutto, voglia di cimentarmi in un monologo perché è un’esperienza abbastanza particolare per un attore: sei solo in scena, non hai né paracadute né rete. Quando mi è arrivato il testo, sono rimasto particolarmente stupito e ho trovato anche difficile aderire al punto di vista così estremo del protagonista: è molto diverso da me.
Come tutti quanti, anch’io ho affrontato difficoltà nella vita ma tendevo all’implosione e difficilmente arrivavo all’esplosione che invece caratterizza Sebastian, che dopo anni e anni di accumulo arriva al punto di ebollizione. Per interpretarlo, avrei dovuto quindi fare un bel lavoro di sostituzione… e l’ho considerato alla stregua di tutti quei giri di boa che possono fare la differenza per il tipo di analisi e impatto emotivo che comportano.
Da attore, hai mai sofferto il modo in cui potevi essere percepito dagli altri?
Non particolarmente. Se devo pensare a una sofferenza legata alla percezione che gli altri hanno di me, la traslo nella vita privata, soprattutto agli anni dell’adolescenza. La recitazione è come se mi facesse da schermo e mi avesse dato gli strumenti per difendermi: forse perché quando sono in scena non sono io… anche se ovviamente ci metto del mio: mi è capitato ad esempio di pensare mentre recito ad aspetti del mio percorso personale che sono richiamati da un gioco di sensazioni che avviene a livello inconscio.
Non ti pesa neanche il giudizio negativo a un provino?
No, anche perché sono molte le variabili in campo in quelle occasioni. Il provino in sé, secondo me, è un momento bellissimo: molto spesso, ci metti molto più di te rispetto a quanto potresti fare quando lavori, situazioni in cui subentra la fretta, il rispetto dei tempi e meno libertà anche espressiva. Ma dall’altro lato, però, è un momento che mi terrorizza non solo a livello emotivo ma anche fisico. Nei giorni che lo precedono, accumuli tensioni ed emozioni ed è chiaro che dopo averlo sostenuto c’è una sorta di svuotamento che ti fa tornare a casa distrutto…
Con il tempo ho anche imparato a sopravvivere all’attesa che intercorre tra il provino stesso e la chiamata dell’agente. Anche se spesso in quell’arco di tempo continuo spesso a portare con me il copione, come se non volessi separarmene e volessi continuare a ragionarci sopra.
Il tuo è un percorso attoriale anomalo. Sei nato e cresciuto a Palermo, una città in cui non si mangia di certo ‘pane e cinema’, prima di trasferirti a Milano per studiare Economia…
Palermo non è una città da ‘pane e cinema’ ma ricordo come andassi spesso al cinema con gli amici o come da piccolo ogni tanto mi ci portassero mia nonna o i miei genitori… Già a otto o nove anni, non so nemmeno perché, quando mi chiesero cosa avessi voluto fare da grande, risposi che avrei fatto l’attore, sebbene dietro non ci fosse alcuna consapevolezza.
Sono poi cresciuto, come tanti adolescenti, senza sapere cosa volessi realmente fare. C’era un’azienda di tradizione familiare e, quasi per automatismo, non avendo un’idea forte da opporre, mi sono come convinto che sarebbe stato quello il mio futuro. Non ero un ragazzo che si imponeva e non provavo mai ad andare troppo fuori dai binari di ciò che ti dicono e, quindi, mi sono ritrovato a diciotto anni a seguire qualcosa di molto diverso dalla recitazione, che ogni tanto riaffiorava nella mia mente come un hobby. All’epoca, mi vergognavo quasi a dirlo, non conoscevo nemmeno l’esistenza delle grandi scuole e accademia che permettevano di studiare seriamente e professionalmente il mestiere di attore…
E hai dunque scelto Economia.
Una scelta come un’altra per prendere tempo e capire cosa volessi. Mi davo quattro anni di possibilità per sondare il terreno: se fossi rimasto a Palermo, molto probabilmente sarei rimasto nella comfort zone dell’azienda di famiglia ma era l’unica cosa che sapevo di non voler fare. Nonostante non brillassi in matematica, Economia aveva qualcosa di molto pratico che mi intrigava. Studiavo ma nel frattempo mi avvicinavo, grazie a un’agenzia, al mondo delle pubblicità.
Il punto di svolta vero e proprio è arrivato nel momento in cui mio padre, venendo a Milano per un piccolo intervento di routine che è andato come avrebbe dovuto, inizia un calvario che sarebbe durato per vent’anni. Ciò ha cambiato di parecchio la mia prospettiva… mi sono laureato, sono rientrato a Palermo e per otto mesi ho lavorato nell’azienda di papà, fino a quando il mio fisico mi ha lanciato dei segnali inequivocabili: è qualcosa che nella mia vita torna spesso, se sto male psicologicamente perché non ho la forza netta per prendere una decisione è il mio corpo a risentirne.
Capendo qual era l’origine del mio star male, mi sono licenziato di netto, creando una frattura abbastanza forte con la mia famiglia, che si è sentita come abbandonata in un momento di necessità. Ma era arrivata per me l’ora di pensare alle mie necessità: avevo 25 anni e dovevo pensare alla mia autorealizzazione, a ciò che veramente volevo. E a spingermi su quella consapevolezza era stato proprio il fatto che a 58 anni mio padre era andato definitivamente knock out, portandosi per dietro l’aver svolto un lavoro che aveva sempre amato. Dovevo anch’io pensare a fare ciò di cui mi ero reso conto di essere innamorato e mi sono trasferito a Roma per iniziare i miei studi.
L’anno successivo ho provato l’ammissione sia alla scuola del Teatro di Stabile di Genova sia alla Paolo Grassi di Milano. Quando ho saputo di essere stato preso a Milano, avevo già iniziato a frequentare la scuola a Genova e non mi sono mai pentito della scelta: sono stati gli anni più belli della mia vita… ancora oggi sono pazzo di Genova, la città in cui per la prima volta ho fatto qualcosa che mi piaceva (mentre ricordo sempre con meno entusiasmo Milano, la città quasi della costrizione) e ha dato il via a un’altra vita.
Prima di passare a un’altra vita, che adolescente sei stato? È impossibile non leggere una certa malinconia nel tuo sguardo.
Me lo sento ripetere spesso: lo conservo anche non dovrei. Non sono stato un bambino proprio ‘felice’ perché fondamentalmente sono stato solo. Ho passato gran parte della mia infanzia a contatto con gli adulti: sono nato a distanza di dieci anni da mio fratello e i miei genitori, dopo avermi a lungo desiderato, erano soliti portarmi con loro, facendomi abituare a dinamiche e discorsi che esulavano da quelli dei coetanei. Tanto che poi con chi aveva la mia stessa età non mi ritrovavo…
Allo stesso tempo, tendevo a essere il buffone della mia classe: facevo molto ridere e ridevo molto con i miei compagni, nonostante la mia malinconia di fondo e la mia timidezza. Se fossi andato da solo a una festa, sarei stato in grado di attendere ore davanti al citofono pur di entrare con qualcun altro… recitare, inconsciamente, mi ha aiutato ad andare oltre: nel sentirmi ascoltato più di prima, è come se avessi ricevuto in cambio, potere, liberazione dai freni e piacere.
Sono cresciuto forse in un ambiente fin troppo protetto. E per il mio lavoro di attore non è stata una cosa fantastica: ricordo come la mitica direttrice della scuola dello Stabile di Genova una volta disse come spesso i bambini che crescono in situazioni più difficili sviluppino maggior fantasia per sopperire alle mancanze che hanno.
Mi sono portato per molto tempo quella frase dietro: ho pensato spesso di non avere fantasia o di non essere particolarmente creativo. Ma è un aspetto che ho affrontato proprio grazie a Il 20 novembre, uno spettacolo in cui c’è molto di mio perché sono stato lasciato molto libero di dare sfogo al mio lato creativo.
Qual è la più verità che hai realizzato dopo il diploma allo Stabile?
Poiché a scuola mi ero trovato bene, ho pensato che sarebbe stato sempre tutto molto facile, nonostante fossi stato avvisato che non sarebbe stato così. Per un periodo, ho lavorato molto, ho dovuto rinunciare a progetti che si accavallavano e ho fatto anche delle stupidaggini.
Ho anche detto un ‘no’ che oggi non direi: ero stato preso dalla Compagnia del Carretto al Teatro del Giglio di Lucca per interpretare l’Amleto. Si trattava di un riallestimento in cui avrei dovuto sostituire il protagonista, ho sostenuto un provino in cui eravamo solo io e la regista ma dopo 50 giorni ho mollato per non aver retto la solitudine. Umanamente, quello non era un periodo per me molto semplice: la mia famiglia era distante, mio padre stava ancora male e io mi ero allontanato da tutto e da tutti. E, comunque, di errori ne ho fatto tanti, a cominciare dal modo in cui mi ponevo e dall’ostinazione nel voler fare tutto bene.
Quell’ostinazione non derivava dal sentirsi sulle spalle il peso della responsabilità o delle aspettative?
Era frutto dei condizionamenti del giudizio esterno: tendevo alla perfezione perché avevo qualcosa da dimostrare più agli altri che a me stesso. Forse anche ai miei genitori.
Hai poi appianato i rapporti con loro?
Da quando ho cominciato a invitarla agli spettacoli, mamma è venuta: ha capito quanto importante fosse stata la mia scelta per me e quanto avessi faticato nel rimettermi in gioco a 27 anni. I primi tempi, però, si vergognava nel dire in giro che suo figlio fosse un attore, preferiva raccontare che di mestiere facessi il regista. Papà, nel frattempo, è venuto a mancare: per vent’anni, mentre era in coma, mamma le è stata vicino e si è presa cura di lui.
Pensavo che una volta andato via avrebbe avuto la possibilità di godersi gli anni che rimanevano a lei in maniera più serena o, passami il termine, “normale”. E invece no. Ha provato comunque ad avvicinarsi maggiormente a me o a incuriosirsi del mio lavoro ma tendenzialmente sono io che non parlo molto e che non mi apro: tutte le volte che mi chiedono qualcosa, divento insofferente perché ho sempre la sensazione di dovermi proteggere dai giudizi, anche involontari o fuori luogo, che arrivano da tutti i fronti. È forse un modo per tutelarmi e per evitare che mi si facciano domande.
Normale… cos’è per te normale?
Per me normale è provare a vivere nella maniera più serena possibile e non complicare le cose agli altri. Sono per il sicilianissimo “campa e lascia campare”. Non voglio essere banale ma sprechiamo fin troppo tempo ed energie in maniera inutile, sarebbe meglio lasciare andare tutto come deve andare… proviamo semmai a fare quello che vogliamo e lasciamo fare agli altri quello che vogliono senza interferire.
Quanto sei chiuso nel tuo mondo?
Non mi sento chiuso nel mio mondo. Sì, posso stare da solo a lungo e non ci sto male. Ma mi piace anche stare con gli altri ma devono piacermi. La storia di mio padre mi ha portato a essere insofferente nei confronti delle perdite di tempo… anziché perdere tempo in situazioni che non mi interessano, preferisco rifugiarmi nel mio mondo interiore. È qualcosa che ho ereditato da mia madre: ha un mondo interiore molto ricco e anche molto infantile… è sempre di buon umore nonostante a volte ci sia poco per esserlo e quello che ha vissuto.
Se si googla il tuo nome, la prima notizia che viene fuori, ancor prima del tuo curriculum, è l’acquisto dell’ultima dimora di Pier Paolo Pasolini, la Torre di Chia…
È tutto successo per caso: non sapevo nemmeno dell’esistenza di quella casa in campagna. Dopo la pandemia dovuta al CoVid, ero alla ricerca di una casa che mi permettesse di spostarmi dalla città, Roma, alla campagna. Il proposito era quello di affittare la casa a Roma in cui vivevo da undici anni e prenderne in affitto un’altra nelle campagne limitrofe, per non allontanarmi di tanto da quella che è la base del mio lavoro.
Avevo individuato come zona perfetta la Tuscia. Non conoscendola bene, ho iniziato ad esplorarla scoprendone le tante bellezze e a leggere i vari annunci. Non trovando nulla in affitto, ho preso in considerazione le case in vendita… il pensiero era semplice: nell’attesa di vendere, in molti affittano anche solo per una stagione. La mia attenzione è stata subito attirata dall’annuncio di una casa, molto strano, a cui erano allegate delle foto non particolarmente belle: “ultima dimora di Pier Paolo Pasolini”. Incuriosito, sono andato a vederla: ho avvertito sin da subito una sensazione molto forte, come se mi trovassi in una dimensione lontana nel tempo e nello spazio.
E dalla visita è nato il desiderio di capire come comprarla. Di fronte al mio interessamento, hanno cominciato a susseguirsi sui giornali diversi articoli che parlavo dello scandalo di come la casa di Pasolini fosse stata messa in vendita e non rilevata dallo Stato: mi sono bloccato, non avevo bisogno di infilarmi in un vespaio di quel tipo… forse era anche giusto che la casa diventasse un bene pubblico. Per un mese, non ci ho quasi pensato più fino a quando una notte non ho sognato di stare seduto in una casa di vetro e di vedere passare Pasolini a bordo della sua Alfa Romeo che sorrideva. Ho considerato quel suo sogno come il nulla osta di cui avevo bisogno…
Ho così scoperto che la casa era stata proposta a vari enti statali ma che non interessava a nessuno: non era mai stata alcuna risposta alle richieste in merito. Tutto il movimento che si era creato era semplicemente frutto di lotte politiche e di preoccupazione dell’opinione pubblica sul fatto che la residenza venisse chiuso. Quando ho rassicurato tutti che non avevo intenzione di trasformarla in un bed and breakfast e che avrei mantenuto le visite una domenica al mese su prenotazione, ho poi cominciato i miei lavori di restauro.
Non sapevo comunque ancora la responsabilità che mi stavo mettendo sulle spalle. L’ho capita quando di fronte alle visite mi sono ritrovato testimone della partecipazione, curiosità ed emozione della gente. Per certi versi, ho come la sensazione di aver ricevuto la casa in custodia, senza alcuna ossessione di possesso.
Pasolini, Sebastian… per certi versi, la domanda è d’obbligo: che rapporto hai con la morte?
La mia non mi spaventa, non ora almeno perché ho la sensazione di aver fatto le mie cose, al di là dei risultati. Mi spaventa la morte di chi mi sta accanto, il non detto e il non vissuto quando si poteva. Fortunatamente, nei confronti di mio padre non ho sensi di colpa: ho potuto dirgli tutto ciò che a vent’anni non ho potuto… la sua è stata una morte talmente lenta che ho avuto tantissimo tempo per metabolizzarla: quando è successo, mi è sembrato quasi naturale.