Gabriella Pession non è mai passata inosservata. Il suo volto e la sua bravura sono sotto gli occhi di tutti da quando, nel 1997, Leonardo Pieraccioni la scelse per un piccolo ruolo in Fuochi d’artificio. E da allora Gabriella Pession non si è più fermata: lo stesso regista toscano la volle accanto a sé in Il pesce innamorato, dando il via a una lunga serie di ruoli entrati nella memoria collettiva.
Elencare i successi di Gabriella Pession come attrice sarebbe lungo. Tanti sono stati i titoli fortunati che ha segnato con il suo volto e i registi che hanno voluto dirigerla. Ma c’è un nome a cui Gabriella Pession è consapevole di dover tutto: Lina Wertmüller, che le ha affidato non uno ma ben due film, una rappresentazione teatrale e una serie tv che, ahinoi, non è mai stata portata a termine.
Con Lina Wertmüller, Gabriella Pession condivide molti tratti caratteriali. Entrambe, ad esempio, detestano il politically correct a tutti i costi: è sempre meglio esporsi con chiarezza con i propri interlocutori per stare bene prima di tutto con se stessi. Del resto, leone Lina e scorpione Gabriella, hanno lo stesso attaccamento alla lealtà, al rispetto e all’impegno.
Non a caso, Gabriella Pession si dice perfezionista ed esigente. Ma sono tratti che ha anche ereditato dal suo passato nel mondo del pattinaggio di figura: la sana competizione è qualcosa che sente ardere dentro di sé e che oggi cerca di trasmettere al figlio Giulio, avuto dal marito, l’attore Richard Flood.
Protagonista in questi giorni della terza e ultima stagione della serie tv di Rai 2 La porta rossa, Gabriella Pession non ama stare ferma o con le mani in mano. Ha come l’esigenza di avere una copertina di Linus a cui aggrapparsi per non minare la sua stessa identità di donna. Lo racconta anche tra le righe di questa intervista esclusiva: già in passato, si è ritrovata a non capire chi era e a reinventarsi.
È una donna in continuo movimento ed evoluzione, Gabriella Pession.
Intervista esclusiva a Gabriella Pession
“23 traslochi in dieci anni”. Comincia così, dopo esserci accertati di stare entrambi bene, la nostra conversazione con Gabriella Pession.
E come hai fatto a sopravvivere?
Infatti, non sono sopravvissuta, sono distrutta, sono morta (ride, ndr). Quando sei in ballo, balli e non ti accorgi nemmeno di ciò che significa traslocare in continuazione, soprattutto se nel frattempo sei diventata mamma.
Giulio, tuo figlio, ha adesso otto anni. Come ha vissuto i continui traslochi?
È abituato a spostarsi sin da piccolo. A lui piace tanto stare in aereo, per fortuna. Anche perché non c’era altra scelta. Adesso siamo tutti a Roma, anche Richard, mio marito. È stato quattro mesi in Nuova Zelanda a girare una serie tv ma stiamo mettendo casa qui, dove Giulio frequenta scuola e gioca a tennis.
Ha ereditato quindi dalla mamma la passione per l’attività fisica.
È molto simile a me: ha ereditato il mio stesso spirito competitivo. Ho fatto sport a livello agonistico per anni e adoro la competizione. Mi piace seguirlo nei suoi allenamenti o nelle prime gare e sono diventata completamente dipendente dal tennis. Stamattina alle cinque ero in piedi per vedere l’incontro di Berrettini, che purtroppo ha perso: ho aperto la giornata con una nota dolente.
Ti stiamo vedendo in questi giorni come protagonista della serie tv di Rai 2, La porta rossa, giunta alla terza e ultima stagione. Hai ripreso i panni della giudice Anna Meyer. Cosa hai portato di te nel personaggio?
Un attore porta sempre qualcosa di sé nel personaggio ma non in maniera conscia. Anna in effetti è molto simile a me: è una donna che non si ferma davanti alle ingiustizie. Se c’è qualcosa che non va, si espone anche a costo di andare contro la propria immagine o comunque contro il sistema e l’establishment. Si espone per cercare la verità dietro le cose e anch’io non sopporto tutto ciò che non è chiaro e non è giusto. Ha affrontato la gravidanza e la nascita della figlia nella seconda stagione non in una maniera edulcorata e ora si ritrova a tornare sul lavoro mentre sta affrontando una grossa perdita, senza aver paura del dolore.
La Porta Rossa 3: Le foto della serie tv
1 / 6In un’intervista che hai rilasciato di recente si leggeva che anche tu avevi vissuto un dolore molto privato mentre giravi la serie.
È un’inesattezza. Mio padre è mancato a ottobre del 2015 mentre le riprese della prima stagione di La porta rossa sono cominciate nel febbraio del 2016. Quindi, in realtà, papà era mancato già da qualche mese. A ogni modo ha avuto in me un impatto forte interpretare un personaggio che attraversa una perdita: era per me un nervo scoperto in quel momento.
Sul set hai avuto come compagni Lino Guanciale, con cui hai portato a teatro anche La signorina Julie, e Valentina Romani, nota a tutti per il suo ruolo di Naditza in Mare fuori. Com’è stato lavorare con loro?
Valentina è talentuosissima. È una ragazza intelligente, buona, dolce: è un cucciolo meraviglioso. Ha girato la prima stagione ad appena vent’anni e, nonostante nella storia siamo rivali, io faccio il tifo per lei perché è veramente un talento. Lino, come me, è un vecchio lupo di mare, sta sulle scene da anni e ci vogliamo un gran bene. Ma tutto il gruppo di lavoro è meraviglioso: sono molto amica anche di Elena Radonicich e di Gaetano Bruno. Il nostro lavoro, quando si è su un set, può portare anche molta solitudine ma non è stato il caso di La porta rossa proprio grazie al legame che si è creato tra tutti.
Tra l’altro sfati in una sola frase tutti i luoghi comuni sulla mancata sorellanza tra le attrici…
È uno stereotipo becero messo in giro credo dagli uomini per dire che noi donne siamo competitive. Non è vero e posso tranquillamente dire l’opposto: ci sono tantissime attrici, donne straordinarie, belle e talentuose, con le quali ci si vuole molto bene e c’è grande rispetto. Nella mia ormai ventennale carriera ho visto molti più attriti tra attori che tra attrici. Mai avuto ad esempio un problema con un’altra attrice sul set mentre mi è capitato di averne con uomini.
Che tipo di problemi?
Di competizione, legati al protagonismo o alla vanità. Per cui, non è assolutamente vero che non c’è sorellanza.
Vale sia per l’Italia sia per gli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti ho lavorato meno rispetto all’Italia, per cui ho creato più legami nel nostro Paese. Tuttavia, negli Usa è tutto molto meno personale: quando si è su un set quasi non si parla, sono tutti con i cellulari in mano a leggere i messaggi tra un ciak e l’altro. È tutto più distaccato e il clima molto più freddo. Da noi, invece, si chiacchiera, si gioca a carte, ci si diverte e ci si ammazza dalle risate.
Carriera ventennale, la tua, segnata da tantissimi successi incredibili e altrettanti personaggi femminili molto forti. Uno su tutti, la dottoressa Tosca Navarro della serie tv Oltre la soglia, che anni prima di Tutto chiede salvezza parlava di salute mentale.
Vedi? Arrivo sempre qualche anno prima a spaccare il ghiaccio ma va bene comunque: questo è il mio ruolo, mi va bene (ride, ndr). A me piace portare avanti delle piccole evoluzioni: indubbiamente, quella storia portava sullo schermo un tema ostico e difficile da trattare, quello delle malattie mentali. Lo abbiamo fatto in maniera tagliente e dolente: nonostante non sia andata particolarmente bene a livello di ascolti, è una serie tv che ha incontrato tanto amore. Ancora oggi, quando vado in tournée, mi capita di incontrare ragazzi con malattie mentali che, accompagnati da infermiere o familiari, vogliono conoscermi o ragazze che hanno tatuate addosso le frasi di Tosca.
Il successo di un prodotto non si può misurare solo con l’ascolto, passa anche attraverso altre cose, come il riuscire a far del bene a qualcuno toccando argomenti che sono ancora tabù e necessitano di essere sviscerati e resi pubblici. Secondo me, è un dovere della televisione, che fa anche servizio pubblico, farlo anche al di là degli ascolti.
Rifarei altre mille volte quella serie tv, quello di Tosca è il personaggio che ho amato di più. Ho portato in scena una donna che convive a fatica con la malattia ma che l’affronta con enorme dignità e coraggio. Al di là della patologia in sé, è qualcosa di universale: si raccontava come una persona vada avanti nonostante la malattia e la vergogna che ne consegue.
L’aver voluto affrontare il disagio giovanile era in qualche modo legato alla tua esperienza relativa ai disturbi del comportamento alimentare, di cui hai parlato qualche tempo fa in un’intervista?
Mi dai la possibilità di ritornare sulla questione. Quell’intervista è stata fuorviata. Io non ho parlato del disturbo del comportamento alimentare come disturbo a sé. Ne ho parlato all’interno di un problema adolescenziale molto più complesso. Ero adolescente e venivo dal mondo dello sport, avevo legato la mia identità al pattinaggio. Smettere mi ha portato a vivere negli anni dell’adolescenza un periodo di malessere mentale: non sapevo più chi fossi. Quando non mi sono più allenata più per otto ore al giorno, sono andata in crisi, come capita a moltissimi sportivi.
Al di là di Tosca, sono tanti i personaggi femminili forti che hai interpretato. Sembra quasi che se non ci sia un tema importante da trattare (l’indipendenza femminile, la malattia, la violenza contro le donne) Gabriella Pession non accetti un ruolo…
Non sempre affronto storie drammatiche. Quest’anno usciranno ad esempio due commedie a cui ho preso parte, una con Max Giusti e una con Enrico Brignano. Se mi dicessero che d’ora in poi dovrei fare solo commedie per tutta la vita, firmerei a occhi chiusi! A me piace molto la commedia ma paradossalmente in Italia se ne fa molto poca: la nostra grande tradizione è stata sporcata da una serie di commediacce che sono state fatte, ahimè, negli ultimi anni. Ricordiamoci però che la commedia all’italiana è quel genere che ci invidia tutto il mondo, con maestri come De Sica o Monicelli.
Non scelgo solo personaggi forti. Scelgo semmai personaggi che mi evocano qualcosa o a cui posso aggiungere qualcosa di mio, personaggi che in qualche modo mi stimolano o mi incuriosiscono… ma sena troppa elucubrazione intellettuale: lascio che a parlare sia la pancia. Spesso mi piacciono le cose leggere: adoro i Monty Python, per esempio, e la loro comicità demenziale.
Pensandoci, sono anche tante le commedie da te interpretate che sono state e sono tuttora dei successi ogni volta che vanno in onda. Un titolo su tutti, Dove la trovi una come me?.
Quella miniserie era nata da un pranzo tra me e il mio adorato produttore Francesco Scardamaglia. Avevamo parlato insieme del desiderio di dar vita a un prodotto leggero, a una commedia romantica, ispirata alla larga a Pretty Woman. Nasceva proprio dalla volontà di proporre qualcosa di comico e di leggero, che a detta di molti è ciò che mi riesce meglio!
Come, tra l’altro, hai dimostrato in un altro piccolo cult targato Rai, la serie Capri.
La protagonista inizialmente correva il rischio di sembrare anche un po’ antipatica: la perfettina che da Milano arriva a Capri. Mi sono allora inventata delle soluzioni che la facessero sembrare buffa (non poteva prendere il sole per un’allergia) e che l’aiutassero nel suo essere goffa a entrare in empatia con il pubblico. È venuta fuori d’istinto, un po’ come la perfida Sabrina Monti, che ho interpretato per la commedia Oggi sposi. Cattivissima, augurava la morte alla sua antagonista solo perché questa aveva una sesta di seno e più tette di lei. Era surreale ma mi divertiva un personaggio così cattivo, nevrotico e sull’orlo di una crisi di nervi che a 26 anni si considerava vecchia.
È passato più di un anno dalla scomparsa di Lina Wertmüller, di cui hai interpretato due delle sue ultime regie, Ferdinando e Carolina e Mannaggia alla miseria!. Che ricordi ti porti di lei?
Mi ricordo e mi porto tutto di lei. Fu lei a dirmi “ricordati che il cinema pensa, il teatro parla”. Potremmo fare un’intervista parallela su di lei. Lina è veramente un genio del nostro secolo: autrice, scrittrice, regista, poetessa. Una donna di un’energia e di un’originalità dirompente, politicamente scorretta, alle volte perfida e alle volte tenerissima, intelligente più di ogni altra persona che io abbia mai conosciuto. Devo tutto a Lina: sapevo poco di questo mestiere ma grazie a lei sono entrata dalla porta maestra. E, devo dire la verità, mi manca moltissimo: non ho mai più incontrato una maestra come lei.
Di persone come lei ce ne sono molto poche e sempre meno ne vedo all’orizzonte. L’altro giorno se n’è andata anche la Lollo: c’è un’intera generazione che si sta spegnendo e che lascia a noi un’amarezza incredibile, un periodo storico come quello attuale fatto di trash, di cialtronaggine e di vuoti. Spero che cambi qualcosa, ho un figlio piccolo e non voglio che cresca in un mondo così, senza l’amore per le cose belle e il talento. Vedo gente sui social diventare famosa per fare niente: è un qualche cosa che mi disturba molto, che rifuggo e che non fa parte di me.
Non è che manchi il talento. Ci sarebbe anche ma non interessa a nessuno, diventa secondario. Conta come ti vendi. È un po’ quello che dice Shakira nella sua ultima discussissima canzone “le donne non piangono ma fatturano”. È una frase orrenda soprattutto per chi come me ha un’altra visione del mondo. Ho un rapporto artigianale verso il mio mestiere, sono un’appassionata d’arte e di pittura, mi piace leggere e pormi domande, guardare La spada nella roccia anche venti volte all’anno, ascoltare i Depeche Mode come sentire i notturni di Chopin.
Cerco di trasmettere a mio figlio la coesistenza di generi e di generazioni, di abituarlo al bello. Un bello che non sia inteso solo in senso estetico. Non è detto che il bello sia tale perché risponde a un canone in sé: qualcosa è bella perché è autentica e racconta un animo. Trovo bellissime le opere di Munch e orrenda quella musica che si sente oggi. Mi rendo conto di non essere a passo con i tempi, probabilmente vivo in un periodo sbagliato e mi chiedo che mondo sarà quello in cui vivrà mio figlio.
A proposito di periodo storico e di tuo figlio, lo hai già preparato a confrontarsi con le tante realtà che ci circondano in un mondo che speriamo sempre più aperto alla diversità e all’inclusività?
Ovviamente sì. Abbiamo vissuto a Los Angeles e, se vogliamo, da quelle parti il bisogno di includere la diversità è maggiore e, per molti versi, anche esasperato. Ricordo ad esempio una call con la scuola in cui si parlava della presenza di un bambino nero nella classe di mio figlio e su come spiegare ai bambini il differente colore. Giulio gioca con un bambino a prescindere: ai bambini non interessano il colore di pelle o le altre categorizzazioni che creiamo noi adulti. Ha anche un amichetto che ha dei problemi ma Giulio lo considera come uno dei suoi più cari amici: “mi piace tanto perché mi abbraccia, è molto dolce e giochiamo sempre insieme”, è quello che mi ha detto.
A mio figlio insegno che bisogna abbracciare la diversità perché siamo tutti unici e diversi. La diversità non deve far paura. Una delle cose che da genitore mi preme maggiormente è saper ascoltare ciò che vuole dirmi. Mi metto in ascolto affinché mi dica quello che prova: il suo compito non è rendere felice mamma e papà, è semmai diventare la persona che sarà e che noi genitori aiuteremo a essere migliore. Lo invito sempre a raccontarmi delle sue paure ma non quando decido io: deve farlo quando vuole lui.
Parlavamo prima dei traslochi. Abbiamo ovviamente affrontato tanti cambiamenti e lo ha aiutato molto parlarne. Abbiamo disegnato le sue paure su un foglio che poi abbiamo bruciato, come per mandarle vie: un piccolo gesto, se vuoi anche magico, ma che a livello inconscio in un bambino funziona. Fortunatamente, Giulio riesce a verbalizzare ogni emozione.
Non tollero nessun tipo di bullismo e di presa in giro nei confronti dei bambini o la maleducazione. Vedo spesso anche dei bambini con atteggiamenti molto spiacevoli avallati dai genitori, come nel caso della storia della maestra a cui hanno sparato dei pallini in classe e a cui nessuno ha chiesto scusa. I bambini dovrebbero imparare cosa sono il rispetto e i limiti da non oltrepassare: la gentilezza è qualcosa di imprescindibile.
Essere genitore non è semplice: qualunque cosa tu faccia, sbagli. Ma dico sempre a Giulio che mi sta insegnando a essere il mio specchio: non devo impormi nel dire cosa fare ma devo lasciargli spazio per responsabilizzarlo. Sto imparando a fare un passo indietro e a lasciarlo sbagliare. Ed è difficilissimo per me: da perfezionista quale sono non fa parte del mio carattere.
Siamo noi adulti a etichettare qualsiasi cosa, un atteggiamento che inevitabilmente ci portiamo anche nel mondo del lavoro.
Esattamente. Chi dice che un attore, ad esempio, non possa scrivere o dirigere? È limitante porre dei paletti: è bello invece poter far anche altro per voglia di esprimersi. Abbiamo una vita sola ma perché dobbiamo passarla a far sempre la stessa cosa?
E tu, ad esempio, hai scritto tantissimo negli ultimi anni.
Ho scritto la prima serie. L’ho fatto con altre autrici ma è qualcosa che è nata dalla mia volontà di raccontare la storia di una single quarantenne e il suo percorso: è una comedy drama. E sto scrivendo il mio primo film insieme ad Anna Pavignano, ispirato alla vita di mio padre. A mio padre piaceva molto dipingere e, quindi, si parla anche di pittura. Sono appassionatissima d’arte e ho dipinto anche molto in questi anni ma sono quadri che mi tengo per me: mi fa bene dipingere ed esprimermi attraverso la pittura.
Ci farai vedere questi quadri prima o poi?
Me lo chiedono in tanti ma per adesso rimangono qualcosa che non vorrei fosse contaminata dalla società e dal dover fare, vendere ed essere brava perché altrimenti perde il suo valore.
Hai citato Anna Pavignano, che ha scritto anche un film di cui sei interprete ispirato alla sua storia con Massimo Troisi, Domani mi alzo tardi. Lo aspettiamo da tre anni.
Pare che adesso uscirà a febbraio. Uscirà prima in Iran, cosa bizzarra considerando tutto quello che sta succedendo da quelle parti, Azerbaigian e Turchia, e dopo anche in Italia. Non chiedermi perché, giuro che non so.
Che esperienza è stata trovarsi a lavorare con John Lynch come compagno di scena?
Meraviglioso. È irlandese come mio marito e siamo diventati molto amici. John è un uomo di grande sensibilità, un talento strabordante e una persona delicatissima e vulnerabile, oltre che un gigante della recitazione a cui voglio molto bene. È stata un’esperienza lavorativa molto facile, lavorare insieme è stato come portare a termine una partita di tennis ben giocata.
E se adesso ti dicessi che sto portando avanti quest’intervista con un cane che dorme sulle mie gambe?
Ti rispondo che è meraviglioso. Ho perso la mia gatta un mese fa ed è stato un dolore che mai avrei pensato di provare. Gli animali entrano a far parte proprio della nostra famiglia e lasciarla andar via è stata un’esperienza lacerante. Era con me da una vita e per lei ho scritto e inciso una canzone che tengo per me, come i miei quadri. Vorrei tanto prendere un cane per Giulio, che è figlio unico, ma vorrei prima essere sicura che siano finiti i traslochi: non è sempre facile muoversi o viaggiare con un animale.
Come si chiamava la tua gatta?
Petunia. Aveva un occhio giallo e uno azzurro: era una Khao Manee, un gatto molto antico considerato sacro e magico. Lo chiamano il gatto dei desideri perché dicono che porti fortuna al proprio proprietario. Ho trovato petunia ai Caraibi, l’avevano abbandonata e l’ho presa con me. In un primo momento pensavo fosse un randagio, solo dopo mi hanno spiegato di che razza fosse.
E a te ha portato fortuna?
Molta. E mi porta fortuna anche dall’aldilà: mi è appena arrivata la conferma di un lavoro molto importante che presto saprete. È andato in porto dopo che lei è mancata ma voglio pensare che sia in qualche modo opera sua. E poi dopo averla trovata ho incontrato mio marito e ho avuto Giulio. L’ho sempre definita il mio fortunadrago, come quello del film La storia infinita.
Magia e fortuna: c’è qualcosa che ti porta a pensare a un universo parallelo al nostro, a una realtà metafisica? Del resto, è un po’ anche il contesto su cui si muove La porta rossa.
Credo generalmente poco ma voglio credere che ci sia qualcosa che vada oltre la materia. Ho sempre coltivato una mia dimensione spirituale alla quale non so dare un nome. L’altro giorno mio figlio mi chiedeva chi avesse inventato l’acqua e gli ho spiegato la differenza tra scoperta e invenzione. Mi ha poi chiesto chi avesse invece inventato la Terra e la risposta è stata Dio. Abbiamo cominciato così un discorso filosofico e, mentre lui mi guardava con due occhioni, mi sono reda conto che stavo raccontando a me stessa quello a cui io aspiro e in cui credo.
Credo esista qualcosa che sia al di là di tutti noi e dentro ognuno di noi. Un po’ come nella filosofia buddista, il Dio è dentro ognuno di noi, vive dentro la nostra interiorità e la sua energia, che poi è amore, è resa in maniera universale.
Oltre che madre, sei anche figlia. Sei riuscita a vivere con serenità il rapporto con i tuoi genitori?
Il rapporto con i genitori è sempre qualcosa di molto complesso, non riusciamo mai del tutto ad affrancarci dalle loro figure. Mi viene sempre in mente la frase di Pablo Picasso, “Uccidi tuo padre”, per cui dovresti metaforicamente uccidere la figura del genitore per essere libero. Amo immensamente mio madre (sono figlia unica e ci lega un rapporto di grandissimo affetto, rispetto e stima infinito ma non ho con lei un rapporto caramelloso da famiglia del Mulino Bianco.
Anche perché tendo ad avere sempre rapporti molto veri e detesto il politically correct: se qualcosa non va bene perché non dirlo? Chiedo a chi ho di fronte di essere aperto, di avere un dialogo e di ascoltare. I rapporti sani devono essere sempre in grande evoluzione. Non sono mai perfetti o stantii. Il rapporto con mio padre, ad esempio, si evolve anche oggi, dopo la sua morte: ho scelto io cosa ricordare, cosa salvare e cosa lasciare andare. Ho continuato così ad avere un rapporto con lui ed è quello di cui parla il film che sto scrivendo.
Mi auguro di vedere presto il film.
Mi sto prendendo tutto il tempo necessario per farlo. Non lo scrivo per dimostrare qualcosa a qualcuno o di saper fare un film ma per raccontare che io e mio padre non ci siamo mai raccontati. Io e lui non ci siamo mai veramente trovati per cui cerco adesso attraverso quello che so far meglio di raccontarlo. L’ho dipinto tante volte però non l’ho mai raccontato. Ci sto provando ora e vedremo come andrà.
Il percorso è in continua evoluzione e in questa tendenza verso l’evolversi credo ci sia l’armonia: senza di quella nella vita non si va da nessuno parte. Leggevo il libro di uno psichiatra che diceva che non siamo nati per essere felici, un’affermazione durissima ma vera. Siamo qui per fare un’esperienza e solo quando lasciamo cadere l’aspettativa della felicità, paradossalmente si alleggerisce tutto. è una consapevolezza che arriva con la maturità: sono più serena oggi che dieci anni fa, non tornerei indietro di un giorno. Sto vivendo ora, a oltre quarant’anni, la mia stagione di grande armonia e serenità.
Sarà perché sei circondata da amore?
Assolutamente sì. Ma non è che sono circondata da me perché semplicemente è arrivato. Ero io pronta ad accoglierlo: prima non ero indubbiamente pronta a lasciare spazio a un amore sano. Oggi ho un nucleo affettivo meraviglioso a cui devo tutto: non chiedo altro, è veramente la mia serenità. Va oltre i film, l’età, la bellezza e ogni cosa: i tuoi affetti sono l’unica roba che rimane.