A cinque anni di distanza dal precedente album, il cantautore Galoni ha appena pubblicato il suo nuovo disco, disponibile in formato digitale e cd: Cronache di un tempo storto (Freecorn Hub/Amor fati/Believe/Goodfellas). Undici tracce in cui Galoni racconta, tra cantautorato e folk, come se fosse un cantastorie 2.0 alcuni degli eventi significativi che hanno segnato la storia d’Italia (e non solo) degli ultimi anni e ci affida intime riflessioni personali.
Cronache di un tempo storto è un disco che parla di amore con diverse accezioni ma anche di pandemia ed emergenza immigrati, del crollo del ponte Morandi e di negazionismo, di fretta e di rapporti padre-figlio. Ogni canzone ruota intorno al termine “casa”, una parola di cui Galoni nel corso di quest’intervista esclusiva ricorda le origini classiche (xenia) così come la sua valenza intima. Casa non è solo un posto fisico, rintracciabile in una mappa, ma è anche quel luogo in cui possiamo rifugiarci per cercare conforto a una società che forse post apocalittica lo è diventata senza che ce ne siamo accorti.
Confrontarci con Galoni, ci ha permesso anche di avere un punto di vista privilegiato sulla generazione dei giovanissimi, dei ragazzi che tra gli 11 e i 14 anni frequentano le scuole medie. Oltre che cantautore, Galoni è anche insegnante di materie classiche e con i ragazzi ha un rapporto più che empatico, frutto del ricordo di quando anche lui era poco più che un bambino, spesso tormentato per la sua situazione familiare.
Intervista esclusiva a Galoni
Cronache di un tempo storto è il tuo nuovo album. Composto da undici tracce, presenta una scrittura originale e mai banale, con termini che spesso non vengono usati all’interno di una canzone.
Mi piace molto lavorare sul lessico e sulla ricerca di parole che hanno sonorità particolari ma che sono di uso poco comune. Così come sulla costruzione delle frasi e sulla poetica. Credo che fare il cantautore oggi significhi anche questo.
L’album arriva a cinque anni di distanza dal precedente, Incontinenti alla deriva. Cinque anni sulla carta sono pochi ma diventano tanti per un sistema discografico andato incontro a un importante cambiamento. Quanto coraggio serve per fare oggi un album?
Questi cinque anni per me sono volati: è successo un po’ di tutto, sono cambiate tante cose e c’è stata la parentesi della pandemia che ci ha bloccati per due anni. Un disco, secondo me, nasce quando ha senso di farlo, ovvero quando un musicista sente il bisogno di dire qualcosa e di far ascoltare canzoni che abbiano un’origine vera, reale, naturale.
Ma chiaramente c’è sempre il mercato con cui dover fare i conti, un mercato che oggi richiede costantemente novità e va a una velocità disarmante: è come se a un artista si richiedesse di rimanere sempre sulla cresta dell’onda pubblicando novità in continuazione. Rispetto a ciò mi sono preso il lusso di aspettare e di far uscire un disco che abbia alle spalle un concept, un’idea narrativa: non si deve mai forzare la mano con l’arte. Probabilmente, avevo bisogno di stare fermo per riflettere e costruire canzoni che avessero a che fare con il momento storico che viviamo.
Le undici tracce ruotano intorno al concetto di “casa”.
Non è qualcosa che è stato determinato a priori. Mi sono accorto quasi a lavori ultimati che “casa” era un concetto che ritornava spesso nelle canzoni: in ogni brano c’è una casa che il protagonista ricerca, ha abbandonato o vive. L’esercizio fisico di piangere racconta la mia storia dentro una casa; in Patrimonio dell’Unesco c’è un uomo che fa del tram una casa; in Non devi avere paura di niente (ispirato a The Road di Thomas McCarthy), un padre e un bambino vanno alla ricerca di una casa sullo sfondo di un paesaggio post apocalittico; Le strade di casa ha la parola già nel titolo…
Cosa significa per te la parola casa?
La casa non deve essere necessariamente un luogo fisico. Può anche essere un posto interiore in cui rifugiarsi per cercare conforto. Quello di casa è un concetto che abbiamo indagato tutti durante il periodo pandemico, quando tutti vivevamo la casa sia come una prigione sia come un luogo di protezione rispetto al mondo esterno. Poi, incredibilmente, è accaduto il contrario e con la crisi del gas addirittura pensavo che era meglio star fuori casa per spendere di meno.
In maniera larga, il concetto di casa torna anche in Come il cobalto negli iPhone, che fa riferimento ai tanti naufragi che avvengono nel canale di Sicilia.
È una canzone che ho scritto all’indomani del naufragio del 18 aprile 2015, uno dei più drammatici avvenuti in quel lembo di mare. Ho cercato di renderla poi più eterna e di realizzare una ballata che racconta una tematica purtroppo ancora attuale della cui gravità quasi non ci rendiamo conto. Ci siamo dimenticati del concetto greco di xenia. Gli antichi greci sostenevano che l’ospitalità era qualcosa di sacro: uno straniero ritrovato su una spiaggia veniva lavato, curato e rifocillato prima che gli parlasse… dietro alle sue fattezze poteva pur sempre nascondersi una divinità greca e non accoglierlo avrebbe significato scatenare l’ira dell’Olimpo. Il concetto di ospitalità oggi si è perso in mezzo a tanti altri valori fondamentali della nostra tradizione culturale. Nell’Odissea Polifemo e Antinoo fanno una brutta fine.
Tutte le canzoni sono state scritte in maniera inusuale, ovvero a partire dal titolo per poi sviluppare il testo. In pratica, l’esatto contrario di ciò che solitamente si fa. Chiunque scriva sa che il titolo è l’ultimo degli espedienti a cui lavorare.
L’idea di partenza era quella di fare un disco che parlasse di cronaca in maniera quasi giornalistica. Ho avuto in parte una formazione giornalistica e per un periodo di quattro o cinque anni ho lavorato in un giornale. In un primo momento, avrei voluto chiamare l’album Cronache di inizio millennio ma poi mi sono conto che l’inizio del millennio era abbondantemente passato… Solo dopo è arrivato Cronache di un tempo storto, ovvero storie che riguardano esperienze collettive condivise a cui aggiungere qualche mia storia personale, piccole cronache in cui ci si può rispecchiare tranquillamente. Il tempo, la casa o le relazioni sociali sono temi che riguardano tutti al pari dell’amore o delle esperienze mancate.
In Mare Magnum c’è un verso che rispecchia una verità sconcertante, nonostante a prima vista semplice: non sappiamo viverci una storia come siamo bravi a ricordarla.
Spesso siamo molto più legati al ricordo di un’esperienza che all’esperienza stessa. D’altro canto invece c’è una memoria storica collettiva che tendiamo a svuotare di valori. Facciamo l’esempio della pandemia: il solo parlarne oggi comincia a essere una rottura di scatole per tutti… ma quello è stato un momento importante e profondo, in cui tutti abbiamo fatto delle riflessioni rispetto al tempo, all’esistenza, alla vita e alle cose che abbiamo perso.
Quale aspetto della tua vita hai rivalutato in quel periodo in cui casa per te coincideva anche con il luogo di lavoro per via della didattica a distanza?
Sono tante le cose a cui ho riflettuto ma ho rivalutato l’importanza della determinazione e del portare a termine gli obiettivi che ci si è prefissati. Ho imparato che non va rimandato niente, né in ambito personale né in ambito lavorativo.
Quanto è stato difficile quel periodo per te che sei un insegnante?
È stato difficilissimo: in quel momento ci toccava spiegare un mondo che in realtà nessuno di noi conosceva. Non era facile rispondere alle domande che gli stessi studenti ponevano e confesso di aver mentito in varie circostanze: ho detto delle cose pur non sapendole per cercare di mantenere un clima sereno e disteso per i ragazzi. Loro, rispetto a noi, hanno vissuto più violentemente la situazione perché non avevano gli strumenti per affrontarla.
Per non parlare poi delle conseguenze sul piano pratico. Da un punto di vista didattico è come se i ragazzi avessero perso degli anni e, quindi, ci ritroviamo tutti quanti a dover fare un passo indietro ma alcune cose sono perse per sempre. Ce ne renderemo conto meglio quando saranno più grandi e risentiremo di quei due anni di scuola affrontati in maniera molto blanda.
Di cosa avevano maggiormente paura i ragazzi in quel momento?
Indubbiamente, avevano paura per i familiari che stavano male, che erano in ospedale e che non potevano andare a trovare. Era inquietante anche l’idea della mascherina, che copriva i volti e non permettevano a loro stesso di conoscersi bene fisicamente. Erano tante le domande che ponevano sul virus, sul perché dovevano stare in casa e sulla morte. Ma erano paure lecite perché, come tutti, non avevano conoscenza di ciò che stava avvenendo.
Di conoscenza e riflessione (e della loro differenza) si parla anche in Patrimonio dell’Unesco…
La conoscenza richiede sacrificio e ha bisogno di tempo e applicazione mentre la riflessione è qualcosa che possiamo far tutti. Tuttavia, la riflessione senza conoscenza è una riflessione da bar: c’è poco da fare. Quello in cui viviamo è un mondo in cui l’informazione e la stessa conoscenza sono gestite più che altro dagli strumenti digitali ma occorre andare oltre la pigrizia e scavare la superficie. E, purtroppo, c’è tanta indolenza in giro: ci facciamo distrarre facilmente dal digitale (ci richiede meno tempo e meno sforzo) e investiamo poco nel reale, nello studio, nella lettura in generale.
Sacrificio e applicazione sono difficili da applicare in un mondo in cui l’umanità stessa, per rimanere sempre all’interno della stessa canzone, non è altro che una somma di varie solitudini.
È una canzone che mi sono divertito molto a scrivere nonostante il tema un po’ drammatico, diciamo così. L’ho voluta come traccia di apertura del disco perché pur nella sua narrazione piccola uno spaccato della società di oggi. Nei vent’anni in cui il protagonista vive sul tram in attesa di incrociare nuovamente gli occhi di una donna vista una sola volta ha incontrato una vasta gamma di esseri umani, ognuno dei quali riflette uno dei problemi di oggi, dal clima all’occupazione, alla depressione.
Che poi il tram raccontato sarebbe il 19, il tram che prendevo per andare all’università dal Foro Italico dove vivevo. È un tram che attraversa tutta Roma, passando dai quartieri più periferici a quelli più centrali e restituendo quasi uno spaccato antropologico.
In In mezzo alla fretta ti soffermi sul tempo. In una società come la nostra, quello che conta non coincide con quello che basta.
Ci ritroviamo in una condizione in cui abbiamo magari tantissimo tempo libero ma non lo dedichiamo più alla condivisione. Difficilmente riusciamo a incontrarci: è come se ci spingessero sempre più verso l’isolamento. Basti pensare ad esempio che abbiamo a disposizione una decina di piattaforme di streaming che più che a uscire di casa ci spingono sul divano a vedere qualcosa.
Sei originario di un paese della provincia di Latina. Cosa ti ha spinto a parlare della caduta del ponte Morandi a Genova?
Ho scritto il brano due o tre giorni dopo il crollo. Se c’è un accadimento che mi tocca la prima cosa che mi viene di fare è prendere una chitarra. A spingermi è stato un video amatoriale, diventato poi virale, che era stato girato da alcuni ragazzi che stavano su una palazzina e che aveva ripreso il crollo del ponte in diretta sotto la pioggia, accompagnato dalle loro urla. Erano immagini che mi avevano colpito e, nel mio desiderio di poter fare da piccola memoria storica per il futuro, non andavano dimenticate. Mi piace l’idea che qualcuno possa scoprire qualcosa attraverso una canzone, com’è accaduto a me con le cose che ho scoperto tramite gli album di molti artisti.
Il disco si conclude con i Buoni propositi per l’anno nuovo. Ne hai realizzato qualcuno?
Sicuramente il primo, “rispondere male a chi salta la fila”: saltare la fila è indice di incredibile maleducazione. Alcuni propositi sono stati realizzati mentre molti altri ancora no, devo provvedere ma c’è tempo ancora per farlo. In molti non hanno capito che nella canzone parlavo per la prima volta del rapporto con mio padre: è andato via di casa quando ero piccolissimo e, quindi, e abbiamo avuto un rapporto nullo. Dopo tanto tempo e la sua morte avvenuta un paio di anni fa, c’è stata rielaborazione profonda del mio passato che ha portato ad una riappacificazione con quella parte della mia storia personale.
In realtà, la canzone è nata molti anni fa, dopo aver letto i buoni propositi scritti nel 1942, a trent’anni, dal musicista Woody Guthrie. Erano ben 33 appuntati su un taccuino: un documento storico incredibile per far capire la condizione anche di miseria in cui viveva l’artista. Alcuni erano anche semplici o banali, se ci pensiamo, mentre altri mi sono rimasti molto impressi come “stare in compagnia ma non perdere tempo”, “scrivere una canzone al giorno”, “aiutare a sconfiggere il fascismo”.
Ho ripreso in mano alcuni miei propositi scritti anni prima, in un momento particolare della mia vita, anche rispetto al rapporto con mio padre e ci ho scritto questa canzone. Ha ottenuto anche un buon successo. Ma anche a livello personale: per me, si è rivelata una sorta di terapia che mi ha portato nella dimensione del perdono. Oggi ho anche fatto pace anche con il mio cognome: c’è stato un periodo di tempo in cui, quando mi chiamavano Galoni, ero insofferente perché mi ricordava inevitabilmente mio padre. L’ho esorcizzato solo quando l’ho scelto come nome d’arte: è un po’ come se me ne fossi riappropriato.
Com’è stato crescere soltanto con una madre?
Abbastanza faticoso. Anche perché, quando sei piccolo, ti senti un po’ diverso soprattutto se non riesci a spiegare neanche chi sia o cosa faccia tuo padre. È solo da grande che capisci quanto hai sofferto da bambino, anche nel mondo della scuola, dove inevitabilmente eri quello che non aveva una famiglia tradizionale, la cui mamma lavorava dalla mattina alla sera e che con la sorella stava a casa con i nonni. Forse è stata la mia storia personale a portarmi a fare il lavoro sia di insegnante sia di cantautore: per assurdo, dovrei forse ringraziarla.
La tua storia personale si riflette oggi nella tua esperienza da insegnante?
Assolutamente sì. C’è in me molta attenzione nei confronti delle fragilità e delle diversità varie dei miei studenti. Sto molto attento in classe a porre certe domande se non conosco bene le famiglie. Non chiedo mai che lavoro facciano ad esempio i genitori o chi siano se non so quali storie ogni ragazzo si porta dietro: ricordo bene un sacco di insegnanti miei che non si preoccupavano di ciò, un po’ come la maestra di Tricarico. Occorre stare attenti prima di chiedere perché altrimenti si finisce con l’accentuare una sensazione di diversità che l’altro si porterà avanti per il resto della vita.
La diversità, la percezione di essa e le fantasie su di essa, sono alla base anche del bullismo. Vengono oggi i ragazzi a chiedere aiuto agli insegnanti quando ne sono vittima?
Per quanto riguarda me e i miei colleghi, siamo molto sensibili alla questione. Spesso siamo noi a cercare un confronto sull’argomento e ad affrontarlo in maniera costante e approfondita. Parlo spesso con i ragazzi, li ascolto: solo in questo modo imparano a fidarsi e ad aprirsi. Mi è capitato diverse volte di aver accolto racconti e problemi, tanto piccoli quanto delicati. Sul bullismo bisogna sempre mantenere alta l’attenzione ma non solo a scuola: occorre farlo anche a casa o in contesti come quelli sportivi.
Un genitore, un insegnante o un allenatore, deve stare attento alle dinamiche che si creano, soprattutto oggi con tutte le derive che il bullismo ha preso anche grazie alla tecnologia. Non dimentichiamo come il cyberbullismo sia diventato ancora più grave del bullismo per via della sua difficoltà a essere gestito. Non sono un apocalittico dei nuovi media ma i social hanno finito con il delineare la costruzione di un mondo altro, parallelo a quello reale: i ragazzi si ritrovano nella condizione di scegliere da che parte stare e la maggior parte sceglie ovviamente quella digitale. E quello è uno spazio di cui noi adulti conosciamo e capiamo molto meno rispetto a loro.