Ci sono incontri che lasciano il segno, non solo per le parole che si scambiano ma per l’intensità di chi le pronuncia: quella che Giacomo Giorgio, giovane attore di straordinario talento e volto caro alla Generazione Z, ci regala è una conversazione intima e profonda, una riflessione su cosa significhi fare dell’arte un mestiere e della vita un palco. La sua è una voce che si muove tra la poesia del quotidiano e la disciplina rigorosa del set, tra l’amore per il cinema e la ricerca della verità, in scena e fuori.
Giacomo Giorgio, scelto come narratore per il podcast Marcello. Sguardo d’artista, non è solo un attore: è un artigiano dell’emozione, un interprete che vede nella recitazione una forma di misticismo, un atto di fede. In un’epoca in cui spesso il mestiere dell’attore si confonde con la sovraesposizione mediatica, Giacomo Giorgio conserva un approccio quasi sacrale al suo lavoro, intrecciando il mestiere alla magia, l’impegno alla meraviglia.
“La recitazione è come un bacio alla verità a occhi chiusi”, dice con una serenità che affascina e conquista, e le sue parole sembrano danzare sulle corde delle sue esperienze personali e professionali. In questa intervista esclusiva, Giacomo Giacomo ci accompagna attraverso il labirinto delle sue idee, tra la fragilità e la forza, l’umiltà e l’ambizione, il bisogno di rendere viva l’arte e la volontà di rimanere fedele a se stesso. Un viaggio che tocca la leggenda di Marcello Mastroianni, l’arte dell’imperfezione e il mistero che fa di un attore un’icona.
In occasione dei cento anni dalla nascita di Mastroianni, Marcello. Sguardo d’artista ripercorre la vita e la carriera del mito del cinema in otto episodi di 45 minuti ciascuno, disponibili su Spotify. La scelta di Giacomo Giorgio, noto per i suoi ruoli in serie di successo come Mare Fuori e Doc – Nelle tue mani, e per il suo recente riconoscimento ai Nastri d’Argento, porta freschezza e profondità alla narrazione di un Marcello sfaccettato, unendo l’uomo e l’artista dietro la leggenda.
Un incontro, il nostro, che non si limita a parlare di cinema ma che esplora il lato umano e psicologico di chi, per mestiere, si fa strumento di storie universali. Giacomo Giorgio ci offre non solo la sua visione, ma un vero e proprio sguardo d’artista. Nel corso dell’intervista, emerge un tratto distintivo che accomuna Giacomo Giorgio e Marcello Mastroianni: entrambi si presentano come "tele bianche", pronte a essere dipinte dalle esigenze di una storia, di un regista, di un personaggio. La loro grandezza risiede nella capacità di abbracciare le contraddizioni e di plasmarsi senza mai perdere l’autenticità.
Marcello Mastroianni, come ricorda Fellini, aveva un volto "terribilmente ordinario", e proprio questa normalità lo rendeva credibile in ogni ruolo, dall’impotente di Il bell’Antonio al tombeur de femme, fino al personaggio coraggiosamente vulnerabile de Una giornata particolare. Allo stesso modo, Giacomo Giorgio, con il suo approccio rigoroso e la sua naturalezza, rappresenta un attore che si dissolve nei suoi personaggi, evitando stereotipi o etichette. Per entrambi, la recitazione è una forma di verità, un gioco raffinato tra finzione e realtà, dove il mistero diventa il principale alleato.
Intervista esclusiva a Giacomo Giorgio
“Per me, la recitazione è come se fosse una religione”, esordisce Giacomo Giorgio quando, sull’onda di Marcello Mastroianni che la definì un “vizio necessario”, gli si chiede se vale lo stesso anche per lui. “È un atto di fede nei confronti di qualche cosa che speri accada. Non si può assolutamente prevedere ma, quando accade, ha a che fare con il mistico perché è come se, in qualche modo, ti avvicinasse un po’ alla verità: mentre la filosofia tenta di avvicinarsi a essa con le parole, la recitazione lo fa con le azioni”, ci dice quando lo raggiungiamo alla fine di una lunga giornata di riprese (è sul set della serie Rai Morbo K).
“Se dovessi definirla poeticamente, direi che me la recitazione è un bacio alla verità a occhi chiusi perché, comunque, non si può mai vedere la verità: se la si vedesse, la faremmo nostra e avremmo svoltato il mondo, trovando la risposta a tutte le domande su cui da sempre l’umanità si interroga”.
La recitazione però richiede molto spesso la sospensione del giudizio nei confronti dei personaggi che interpreti. È complicato riuscirci?
Da attore, non posso permettermi di giudicare i personaggi. Anche se, la parola “giudizio” è fondamentale nel mio mestiere perché è sempre molto presente. È un po’ una contraddizione per chi fa questo lavoro: nella vita di tutti i giorni si fugge dal giudizio e si agisce in modo da essere giudicato il meno possibile, mentre per professione sei costantemente sotto la lente di chi deve giudicarti, dal regista al pubblico fino a ste stesso.
Ma l’unico giudizio che non deve mai intaccarti è quello sul personaggio, tanto che sogno nella mia carriera di poter interpretare sia Gesù di Nazareth sia Hitler: l’aspirazione massima di un attore è quella di passare in rassegna tutte le lettere dell’alfabeto senza giudicare chi sta interpretando o rimanere fossilizzato in uno stereotipo.
Che giudizio ti dispiacerebbe leggere sul tuo conto che non corrisponde a verità?
Mi dispiacerebbe leggere che sono un attore arrogante. Sul lavoro sono una persona molto puntuale, molto precisa e molto pignola, ma il tuto discende dal fatto che ci tengo a fare bene ma tanto bene il mio mestiere: mi dispiacerebbe se questi miei lati venissero confusi con l’arroganza o con la saccenza, anche perché non mi sono mai sentito maestro di niente, anzi… sono e sarò per sempre allievo.
Sono stati più inclementi i giudizi degli altri nei tuoi confronti o i tuoi?
I miei: sul lavoro, sono molto duro con me stesso, al contrario di quanto avviene nella vita di tutti i giorni, dove da persona molto debole mi concedo facilmente a quei vizi buoni e belli come mangiare o dormire. Sto imparando solo ultimamente a lasciare andare, ad accettare l’imperfezione e a sposare l’idea che non si può sempre controllare tutto: una scena può essere bella, anche se ha mezza battuta imperfetta.
L’accettazione dell’imperfezione ha sempre segnato il percorso artistico di Mastroianni e i ruoli spesso interpretati, lontani anche dagli stereotipi di genere. Quanto è stato importante per te accettare le tue imperfezioni, fisiche o psicologiche che fossero?
Molto, proprio perché il cinema e la recitazione utilizzano le imperfezioni e le ricercano: è lì che risiedono il bello, innanzitutto, e poi l’unicità. Senza le imperfezioni, un attore sarebbe del tutto identico a un altro e la discriminante si ridurrebbe a una mera questione estetica. A renderti invece un attore unico sono le imperfezioni della tua estetica, del tuo comportamento, della tua emotività e del tuo modo di pensare. Non penso che nell’arte, recitazione o altro, sia importante sapere cosa uno di sé accetta o non accetta nella sfera privata: l’attore in quanto persona non è interessante… lo diventa solo in quanto attore!
Una stoccata nei confronti di chi nel porre domande scruta al di là della professione?
No, assolutamente (ride, ndr). Ma è un modo per sottolineare che non è importante sapere cosa di me ho accettato nel privato al fine di restituire un’ottima performance attoriale. Puoi anche non aver compiuto dei passi importanti nei tuoi confronti in ambito privato e rivestire comunque stupendamente un ruolo.
Mastroianni ha lottato tutta la vita con l’etichetta del seduttore incallito quando le donne che ha amato lo definiscono un uomo “fragile”. Basta poco affinché a un attore che dimostra una certa sicurezza in scena venga affibbiata la nome di dongiovanni.
È un’altra di quelle dicotomie interessanti tra sfera personal e professionale. La grandezza del cinema consiste proprio nell’opera filmica che è di per sé immaginifica: quando vai a vedere un film, di fronte a un personaggio viaggi con l’immaginazione, ti ci identifichi e vorresti essere come l’idea che ti sei fatto dell’attore stesso. In qualche modo, quel personaggio sei tu ma non hai il coraggio di esserlo davanti alle persone che frequenti. Ma è sempre frutto della tua visione delle cose perché, comunque, l’attore nel quotidiano non è detto che corrisponda alla tua proiezione.
Conoscerlo, sapere come pensa o cosa mangia, può far svanire anche tutto nel nulla: è un po’ come quando il prestigiatore svela i suoi trucchi… sotto quest’aspetto, Mastroianni è stato bravo: è riuscito a mantenere molto bene il mistero, una carta per me fondamentale del mazzo di un attore. Ed è anche stato sempre molto coraggioso: da grande attore qual era, non ha mai cavalcato come farebbero tutti – e dico tutti – l’etichetta da sex symbol adagiandosi in un ruolo solo perché la gente lo avrebbe sempre voluto vedere in quella chiave. Anzi, ha fatto esattamente il contrario, interpretando l’imponente in Il bell’Antonio o l’omosessuale in Una giornata particolare: questo è l’atteggiamento di un grande attore che rischia, mette in discussione la visione che il pubblico ha di lui e va avanti per la sua strada…
…senza mai intaccare la sua mascolinità. Cos’è la mascolinità per Giacomo Giorgio?
Non ha alcun significato, secondo me. Che vuol dire essere più o meno mascolini? A me non sono mai piaciute le etichette di alcun tipo: ogni essere umano ha tutti i diritti e la libertà di essere un buon essere umano, al di là del suo modo di sentirsi o dal genere da cui è attratto. Siamo noi stessi a poterci definire in un modo e abbiamo la libertà di farlo solo perché ci possiamo basare sulla conoscenza che abbiamo di noi e non su quella che gli altri pensano di avere. Per me, “più o meno mascolino” è solo una richiesta o un’indicazione che può provenirmi da un regista per la resa di un personaggio.
Da questo punto di vista, è molto più interessante il concetto di identità. Realizzi presto di voler diventare attore: le cronache ci parlano di un Giacomo Giorgio bambino che a nove anni si avvicina alla recitazione. Cosa dava la recitazione a quel bambino?
Confermo le cronache. Ho scoperto molto presto questo mondo fantastico che ancora oggi continua a tenermi legato a sé sempre con lo stesso effetto dopante: la mia vita è di gran lunga più bella quando lavoro rispetto a quando non lo faccio… e questo è un problema. Non ne posso fare a meno da quando sono caduto nella rete di qualcosa che mi dava la possibilità di evadere da una vita comune, con tutte le sue bruttezze ma anche bellezze.
Sono stato fortunato ad avere avuto una famiglia che mi ha educato sin dalla tenera età all’arte: ci sono stati film o spettacoli a teatro che ho visto già da piccolino che hanno fatto scattare un colpo di fulmine che ancora perdura. La cosa divertente, anche quella mantenuta, è come ogni volta diventassi o mi sentissi anch’io cui che vedevo: uscivo dalla proiezione di Batman? Ero Batman. Vedevo qualcos’altro? Ero quello… tant’è che ancora oggi quando si tratta di decidere io cosa fare in scena, potremmo andare per le lunghe!
Cosa mi dava?... Mi dava la capacità di rendere reale qualcosa che non lo era. E ho sempre pensato di poterlo fare. Lo dico con grande umiltà ma anche con grande senso di verità: da sempre ho creduto di poter are questo mestiere. È stato il mio grande lampo di felicità, in pratica: è come se avessi apprezzato di più la vita con quella magia o droga. Dovrei, forse, oggi ritrovare la magia nella vita ma è complicato quando si ha una certa propensione al lavoro.
Di Mastroianni, Fellini disse che aveva un volto terribilmente ordinario.
Marcello Mastroianni rappresenta per me l’attore con la “A” maiuscola, ovvero colui che può essere plasmato a seconda delle esigenze del racconto o del regista. L’attore non dovrebbe mai avere qualcosa di incredibile o di troppo evidente che lo connoti così tanto da non renderlo poi credibile nei panni dell’uomo della porta accanto, del lavoratore o di chi come tutti quanti mangia, va in bagno o dorme. Mastroianni rappresentava la grande normalità e quotidianità ed era questo che, da tela bianca, gli permetteva di essere estremamente empatico con tutti i personaggi interpretati, dall’impotente al tombeur de femme, e credibile, dalla commedia di De Filippo al dramma di Visconti o Antonioni.
Se ci riflettiamo, è un’altra contraddizione. Nell’arte si cerca sempre qualcosa di identificativo, un proprio stile che permetta di riconoscere subito l’artista e i suoi tratti distintivi, ma per l’attore vale esattamente il contrario: devi essere sempre diverso, guai a rimanere sempre se stessi. Vedo molti miei colleghi rimanere sempre molto uguali e lo reputo un errore: dovremmo sempre scomparire dietro ogni personaggio per far vivere qualcosa di diverso da te e da quello precedente.
Ti è sempre piaciuto come gli altri hanno dipinto la tua tela bianca? Sempre a tuo agio per tutti i ruoli interpretati?
Mi sono sempre trovato a mio agio in un ruolo, anche qualora fosse stato il peggiore. Mi è però capitato di essere colorato male o, comunque, di essere tratteggiato con sfumature che secondo me non erano inerenti o giuste. Ma mi sono sempre ricordato che un film o un racconto non sono mai degli attori ma del suo autore: ho sempre avuto profondo rispetto di tutte le figure presenti su un set e del ruolo che a esse spetta.
Non mi piacciono quelle situazioni in cui si mischia tutto e ognuno vuol prendersi la paternità o i meriti di un progetto: per me, la recitazione rimane un lavoro estremamente settoriale, chiaro e gerarchico, per cui il regista fa il regista, l’attore fa l’attore, l’autore fa l’autore e i vari reparti assortiti fanno i vari reparti assortiti. L’ordine di importanza è netto ai miei occhi: il regista e l’attore devono cercare di dare vita a ciò che l’autore ha scritto.
E, nel farlo, il punto di vista principale è quello del regista: un attore non può permettersi, come purtroppo spesso accade, di intervenire per specificare cosa secondo lui funziona o meno… il film non è suo e non sa da quale prospettiva è visto: se vogliamo, su un set il regista è l’occhio di Dio, è lui a decidere come mostrare quel mondo che sta raccontando. Il vero talento dell’attore non è rompere il cazzo sostituendosi all’autore ma rendere il più credibile possibile ciò che il regista sta chiedendo.
Qual è il primo pensiero che ti passa per la mente quando su un set vedi qualcuno rompere il cazzo?
In passato, m’innervosivo di fronte a determinati comportamenti. Adesso, invece, guardo quasi con tenerezza chi li mette in atto perché non hanno ancora capito molto di come si fa questo mestiere, di come lo si porta avanti e di come continuare a farlo a lungo tempo. A differenza loro, sono stato fortunato a capirlo molto presto in seguito a un episodio orribile intorno ai 14 o 15 anni, lo schiaffone di un regista arrivatomi quando, nel seguire da dietro le quinte tutti i giorni le prove aperte di uno spettacolo teatrale, mi sono lasciato andare a un infausto “no, no”.
Andavo tutti i giorni, conoscevo a memoria le battute di tutti quanti e spontaneamente mi era partito quel commento che non avrei potuto permettermi: “Solo il regista può dare lo stop alla scena, non tu”, mi disse. Ricordo ancora quanto molto mi vergognai ma quell’episodio mi ha fatto comprendere come funzioni la gerarchia e quali sono i ruoli da rispettare. Se non l’avessi vissuto, forse sarei anch’io ancora senza regole.
Sorrido di fronte alla tua regolatezza confrontandola con certi personaggi interpretati…
È un argomento di cui discutevo qualche giorno fa con una persona che stimo moltissimo e che definirei un artista: Pier Paolo Piccioli. Ci interrogavamo sulla famosa accoppiata “genio e sregolatezza quando siamo arrivati alla conclusione che la vera libertà, il vero genio sta nella limitatezza. È quando hai dei limiti imposti che viene fuori l’arte, l’impossibile, e non quando vai a briglie sciolte.
Se su un set mi lasciassero libero di fare come riterrei opportuno, verrebbe fuori qualcosa di confuso, senza fuoco o già vista: preferisco indicazioni precise che mi spingano a trovare un mio modo di essere, muovermi o agire. E il limite più grande è di sicuro lo sguardo che in quel momento sta ricercando un regista.
Alla luce di tutto ciò, mai avuta la tentazione di sparigliare il mazzo e passare dall’altro lato della macchina da presa?
Potrebbe piacermi fare un’esperienza da regista ma non potrei mai fare solo quello: ragiono fin troppo da attore. E regista e attore pensano in maniera diversa: il primo vede, l’altro agisce. Non mi vedo dirigere solamente gli altri: se leggo una scena, immagino subito come la farei io. Potrebbe essere interessante provare a sposare l’asse ma è ancora troppo presto e dovrei comunque partecipare anche alla recitazione.
Quel “troppo presto” denota una caratteristica che solo gli altri possono notare in te: l’umiltà. Che ruolo pensi abbia giocato nel tuo percorso di affermazione artistica?
Non saprei dire se è una questione di umiltà oppure no. Chiaramente, a me piacciono le persone umili ma la reputo più una questione di verità: se una persona è autentica, lo sarà anche in quello che fa. La recitazione, come la moda o la pittura, è tutta una questione di qui e ora: è la tua vita che si finalizza in un momento, traspare se sei autentico o no. Penso, quindi, che l’umiltà sia una conseguenza dell’autenticità: l’essere fintamente umile è qualcosa che mi genera ribrezzo; a quel punto, preferisco una persona dichiaratamente arrogante…
“Io non sono un divo: non desidero in alcun modo essere considerato un funambolo di talento. Non ho mai fatto niente per piacere agli altri”, si è ritrovato a dire Marcello Mastroianni. Che hai rapporto hai tu con il divismo? Ti sei mai sentito divo o ti hanno fatto sentire tale anche alla luce del tuo milione e passa di follower su Instagram?
Per me, il divo è qualcuno che ha a che fare con il divino e con il mistero: non fa quasi parte delle cose terrene, è quasi extraterrestre, e come tale la emuli. Ha dunque molto in comune con l’iconicità e con l’unicità: di Mastroianni ce n’è stato solo uno e, che gli piacesse o meno, era assolutamente unico e inimitabile e, quindi, divo.
Non so dire se sono un divo o non lo sono, è qualcosa su cui non ho nemmeno una posizione: anche a rischio che sembri una banalità trita e ritrita, l’unica cosa che mi interessa è fare film, recitare. Non mi interessano i red carpet, i servizi fotografici o quant’altro: certo, sono tutte conseguenze belle e divertenti del mio lavoro ma il mio mestiere rimane l’attore.
E considero una bella conseguenza di ciò che faccio anche i miei follower sui social: non nasco come influencer e sono tutti, dunque, persone che hanno apprezzato il lavoro che ho svolto, aspetto che mi rende felice ma che non diventa una mia priorità: ciò per cui mi applico maggiormente è arrivare sul set e rendere al massimo delle mie possibilità. I numeri, la fama o i selfie certificano il mio lavoro, diventandone un metro di apprezzamento e valutazione, e a più gente arrivo meglio è: sono da sempre convinto che l’arte non sia qualcosa di esclusivo riservato a pochi eletti, come ha anche dimostrato quel genio assoluto di Eduardo De Filippo, in grado di trovare una chiave per farsi capire da chiunque, dal contadino al magistrato. Ed è quella la mira reale di un artista.
Crescendo, quanto pane e cinema hai mangiato?
Tantissimo. Lo posso affermare senza timore e senza timidezza: ho visto e vedo tuttora tantissimi film, almeno uno al giorno e non sempre per me inedito… ci sono titoli che rivedo a distanza di tempo e altri persino che riguardo tutti gli anni senza che mai mi stanchino.
Su due piedi, il tuo guilty pleasure, quel film che ti fa stare bene tutte le volte che lo guardi, al di là della sua qualità?
La trilogia di Batman di Christopher Nolan. Sin da piccolo, la rivedo nei miei momenti di fragilità o di tristezza e mi ripiglio proprio perché penso di essere Batman: funzionava così da bambino e funziona così ancora adesso, voglio andare a difendere Gotham!
Che peso hanno avuto per te studio e formazione accademica?
Secondo me, non sono stati fondamentali: il nozionismo non fa bene a nessuno. Una decina di giorni fa ho avuto l’onore di tenure una masterclass molto bella al Centro Sperimentale di Cinematografia, un pilastro della storia del cinema italiano, ma, seppur lungi dall’idea di essere un maestro, non ho potuto non notare come gli studenti abbiamo tantissima preparazione teorica e pochissima conoscenza pratica di ciò che comporterà il loro lavoro.
Mi piacerebbe, dunque, che nelle varie scuole quelli di regia e recitazione diventassero un unico corso: un attore dovrebbe conoscere necessariamente la materia filmica registica, la macchina da presa, gli obiettivi, la luce e così via, e un regista dovrebbe conoscere la recitazione per dirigere poi il suo cast nella direzione che vuole. Si eviterebbe così di avere registi che non sanno come spiegarsi ai loro attori e attori che non hanno la più pallida idea di cosa sia l’oggetto che li sta riprendendo.
Di mio, dopo dieci anni di esperienza sui set (avevo 17 anni quando ho lavorato in The Happy Prince), posso dire di aver imparato ciò che so facendolo sul campo ma potrebbe aiutare moltissimo avere qualcuno che ti spiega come fare.
Nel corso di questo nostro dialogo, è tornato spesso l’aggettivo “divino”. Credi?
Credo che ci sia qualcosa che vada al di là dell’umano. Credo nella magia della vita e nell’arte. E credo, spero, in un mondo futuro ideale in cui l’arte e gli artisti riescano a smuovere la morale collettiva: solo in quel modo potremmo costruire una società migliore non fondata solo sull’individualismo e sull’economia… sono consapevole degli orrori e delle bruttezze che la vita può servire ma si possono sempre trovare magia e bellezza. Io le ho trovate nell’arte, nella recitazione, e ci credo molto nel loro potere.