Nel panorama musicale italiano emergente, la band Le Cose Importanti si distingue non solo per il loro suono unico ma anche per il coraggio e l'autenticità con cui affrontano temi delicati e personali. Giada, la voce carismatica del gruppo, si apre in un'intervista franca e profonda, toccando argomenti sensibili come la disforia di genere, l'accettazione di sé e l'importanza di circondarsi di persone genuine. La loro ultima hit, Sillage (V4V Records/The Orchad, con la produzione di Giulio Ragno Favero), è solo un assaggio della loro arte, che va oltre la musica per toccare le corde dell'anima e dell'esperienza umana.
Giada, senza esitazione, affronta la questione dell'uso dei pronomi e di come, in una società che pone grande enfasi sul linguaggio, questa possa diventare una fonte di ansia. Tuttavia, è nella musica che trova la forza di esprimersi liberamente, condividendo le proprie esperienze e le battaglie interne. L'intervista svela il percorso di Giada verso l'accettazione di sé e il ruolo cruciale che la musica ha giocato in questo viaggio.
La nascita dei Le Cose Importanti e l'incontro con i suoi componenti segnano l'inizio di un'avventura condivisa, fondata su amicizia, apertura e autenticità. Questi valori si riflettono nelle loro canzoni, che parlano di alienazione, inadeguatezza, dolore subìto e inflitto, pensieri intrusivi, depressione e disforia di genere. Giada condivide anche il supporto incondizionato della sua famiglia, che ha abbracciato il suo sogno di diventare musicista fin da piccola, e la sua battaglia contro la disforia di genere, un cammino intrapreso con coraggio e determinazione.
La disforia di genere, un tema centrale dell'intervista, viene affrontata con sensibilità e onestà. Giada descrive la sua esperienza personale, evidenziando come la musica e l'incontro con persone che hanno affrontato percorsi simili l'abbiano aiutata a comprendere e accettare la propria identità. Questo viaggio interiore non solo ha influenzato profondamente la sua arte ma ha anche aperto la strada a una maggiore consapevolezza e accettazione di sé.
L'operazione di asportazione del seno, un passo significativo nel suo percorso, viene descritta come un momento di liberazione, nonostante le difficoltà burocratiche e finanziarie incontrate. Giada sottolinea l'importanza di vivere la propria vita liberamente, senza lasciarsi condizionare dal giudizio altrui, e di trovare il coraggio di parlare apertamente della propria esperienza, sperando di essere di ispirazione per altri che potrebbero trovarsi in situazioni simili.
Con l'attesa del loro primo album nel 2024, Giada e i Le Cose Importanti promettono di continuare a esplorare e condividere storie che parlano al cuore, con l'obiettivo di toccare temi importanti e stimolare riflessioni profonde. Quest'intervista non solo offre uno sguardo intimo sulla vita e sulle ispirazioni di Giada ma rappresenta anche un messaggio di speranza e forza per tutti coloro che lottano per trovare e accettare la propria identità in un mondo che spesso sembra non ascoltare.
Intervista esclusiva a Giada/Le Cose Importanti
“Non ho preferenze sull’utilizzo dei pronomi”, mi risponde Giada, la voce del gruppo Le Cose Importanti quando come al solito pongo la domanda. Nel suo caso, come capirete dal corso dell’intervista, quello che è un atto di gentilezza che solitamente siamo soliti mettere in atto ha un peso diverso. “È qualcosa che mette ansia a me, figuriamoci a chi poi deve scrivere: è veramente complicato stare attenti a qualsiasi cosa, soprattutto in una lingua come l’italiano con le sue desinenze.
Nel vostro ultimo singolo, Sillage, scrivi “Ho imparato ad amarmi senza farmi del male”.
Ho imparato a conoscermi e a non aver paura di ritrovarmi in situazioni nelle quali non mi sento a mio agio col tempo. Banalmente, ho imparato anche a dire di no e ad amarmi… è qualcosa che è avvenuta molto di recente: è da poco che sto cominciando ad avere una visione più matura della mia vita personale o delle cose importanti.
Le Cose Importanti è anche il nome della band di cui fai parte. Perché avete deciso di chiamarla così?
È stato quasi per caso. Avevo cominciato a scrivere le mie prime canzoni nel 2017 quando non avevo ancora un gruppo: ogni volta che mi ritrovavo a comporre in musica avevo sempre in mente “le cose importanti” e, per quanto possa sembrare pretenzioso, ho voluto che fosse anche il nome della band quando ne ho avuta una. In realtà, racchiude come nome il concetto per cui ognuno di noi ha le proprie cose importanti di cui speriamo di farci portavoce anche per gli altri.
Come hai conosciuto i componenti del gruppo?
Semplicemente suonando in giro. Le mie prime esibizioni erano chitarra e voce, ero solo io ma pian piano si sono aggiunte alcune delle persone che conoscevo strada facendo. La mia a unirsi a me è stata Ylenia, la mia migliore amica, con cui ci conosciamo oramai da quindici anni. Abbiamo iniziato a incontrare altri musicisti, sempre della nostra zona, fino a quando non abbiamo stretto un legame molto forte con Umberto e Massimiliano, due persone molto aperte e molto genuine con cui ci siamo trovate molto bene a fare musica. Abbiamo poi scelto tutti insieme di affrontare il percorso musicale di oggi.
Persone aperte e genuine: quanto era importante per te, autrice dei testi, che lo fossero?
Era fondamentale. Muovendoci e suonando insieme, si è creata quella che io definisco una famiglia vera e propria: non si potrebbe mai stare con qualcuno con cui non hai niente da spartire o da condividere.
A proposito di famiglia, come ha reagito la tua “biologica” quando hai manifestato il desiderio di fare la musicista?
Per i miei non è mai stato un problema, ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia molto predisposta e aperta all’arte. Sin da piccola, mi hanno fatto ascoltare molta musica e non mi hanno mai ostacolata: in casa o in macchina, c’erano sempre cd, vinili o musicassette che suonavano. Ho ascoltato di tutto, da Tracy Chapman ai Placebo passando per i Nirvana. Ho scritto la mia prima canzone a 15 anni e a 14 ho cominciato a suonare la chitarra, avvicinandomi poi con gli anni a diversi strumenti: è arrivata prima il suono e poi la voce.
In Rami e tempesta, il vostro primo singolo, c’è un’immagine molto forte: “anche se non ti senti le ossa”…
È un brano che parla di distanza e di come, anche quando non te la senti di affrontare alcune questioni o di viverti una relazione, cerchi ugualmente di spronarti e di andare avanti fino a romperti effettivamente le ossa.
E nel tuo caso che non avessi amato a distanza chi volevi essere non avresti affrontato il percorso che stai percorrendo oggi. Quando si parla di amore, si pensa in automatico a quello di coppia e troppo poco a quello verso se stessi. La musica ti ha aiutata a riappropriarti di te?
Assolutamente. È stato scrivendo e registrando quello che sarà il nostro primo disco che ho capito avevo la necessità di prendere di petto quella che era la mia condizione. Ci ho girato intorno tantissimo ma non sapevo come affrontarla: forse il punto di svolta è stato l’aver chiesto a Evan, un ragazzo transgender, di posare per la copertina, dove si vedono e percepiscono le cicatrici dell’operazione a cui si è sottoposto.
Alla fine di una call per conoscerci e discutere del concept dell’album, Evan mi ha scritto intuendo quanto avessi bisogno di parlare: si era accorto del mio malessere. Ed è grazie a lui se ho iniziato a muovermi per fare ciò che poi è venuto.
Il problema nel tuo caso era la disforia di genere. Quando hai realizzato la prima volta che il genere regalato dai cromosomi non era quello in cui ti identificavi?
Ero una bambina. Avevo sei anni e parlando con i miei genitori ho tirato fuori l’argomento, sostenendo che da grande mi sarei operata e avrei vissuto la mia vita come avevo sempre desiderato. L’ho detto molto ingenuamente e spontaneamente: erano anni di cui dell’argomento nemmeno si parlava e non ho idea di come si sia originato il pensiero. Forse era insito in me da sempre, ha sempre fatto parte della mia vita a dimostrazione di come non sia, come sostiene qualche bigotto, un problema di educazione o di cultura. Purtroppo, l’ignoranza resta ancora l’arma più potente del mondo.
Hai dovuto tu scontrarti con l’ignoranza?
Fortunatamente, no. La mia famiglia è sempre stata molto disponibile al dialogo e, quindi, già in casa ho avuto la possibilità di gettare le basi per la persona che sono oggi senza timore. Stare bene in famiglia ti dà la corazza che ti serve per affrontare tutto ciò che c’è al di fuori delle mura domestiche e, quindi, anche lo sguardo altrui.
Del giudizio degli altri non mi è mai interessato molto, non ho mai lasciato che mi condizionasse o che mi pesasse. Rimango però aperta al confronto: tutte le volte che mi trovo di fronte qualcuno che ha qualcosa da dire o che non si ritrova, sono prontissima a parlarne. Ma mi rendo conto che non tutti hanno la mia stessa fortuna, soprattutto coloro che vivono in ambienti dalla mentalità ristretta.
Non sono nella posizione di poter pontificare o di dare lezioni di vita a nessuno ma anche in quei casi la prima cosa da fare è trovare il coraggio di parlarne liberamente con qualcuno di cui ci si fida e con cui avere un dialogo sincero. E, se non lo si trova in famiglia, si può anche cercarlo al di fuori del legame sanguigno.
Affrontare la disforia di genere comporta un grosso lavorio interiore…
Prima di continuare, mi preme sottolineare come io stia parlando di me, di ciò che ho vissuto e della mia storia: non parlo a nome degli altri perché non voglio ferire nessuno. Quello che racconto è semplicemente il mio percorso… Quando ho iniziato ad avere le prime crisi di disforia, non mi rendevo conto di cosa fosse. Questo mi portava a non uscire di casa, a evitare di stare in mezzo alle persone e a isolarmi. Stavo da sola e, anche se sapevo come starci, ho cominciato presto a stare male: ho affrontato un lungo periodo di depressione sentendomi come paralizzata… non riuscivo a fare nulla.
Mi sono rivolta alla psicoterapia e poi ho iniziato pian piano a lavorare su me stessa anche da sola, ascoltandomi molto. Facendolo, ho capito che non potevo dipendere dalla sola terapia: dovevo provare a non oppormi a me stessa. La musica ha giocato un ruolo importante, non solo perché tiravo fuori ciò che avevo dentro… ogni volta che mi ritrovavo e mi ritrovo a fare un live riaffronto ciò che è stato e che ho scritto aiutandomi tantissimo: posso dire che faccio musica più per me per gli altri, anche se di base non amo stare al centro dell’attenzione. Mi ricorda chi ero e cosa ho affrontato per arrivare a essere chi sono oggi: posso dire di avere ottenuto tutto ciò che desideravo e di cui avevo bisogno.
Ciò di cui avevi bisogno ha complicato i tuoi rapporti interpersonali?
No, anche perché ho sempre avuto la premura di circondarmi di persone simili a me per approccio alla vita, con cui affrontare ogni discorso in maniera matura e con larghe vedute. Il che non significa che hanno fatto le mie stesse scelte di vita.
Il primo album dei Le Cose Importanti uscirà a 2024 inoltrato. C’è qualche canzone a cui tieni maggiormente?
Sicuramente Veleno, la canzone che dà il titolo all’album, perché parla proprio della disforia di genere. Fondamentalmente, è un dialogo tra me e me, in cui mi interrogo sul perché non mi riconoscessi allo specchio quando mi guardavo. È come se parlassi con quell’immagine che vedo riflessa.
Riconosci oggi quell’immagine?
Ogni tanto capita ancora che, prima di uscire di casa, mi guardi allo specchio e non sappia come vestirmi. Ma accade sempre di meno rispetto a prima dell’operazione di asportazione del seno.
È stato facile sottoporsi all’operazione?
È burocraticamente che si presentano le difficoltà: ho dovuto andare in Spagna perché in Italia ti asportano il seno solo se hai una malattia molto grave. Ed è solo in quel caso che lo Stato ti permette di operarti gratuitamente e liberamente, altrimenti devi affrontare un iter terapeutico alla fine del quale uno psicologo deve presentare la sua relazione a un giudice facendo sì che sia un tribunale a decidere se meriti o no di avere l’ok per l’intervento.
Se sei fortunato e lo ottieni, finisci in una lista infinita dai tempi infiniti. Se non lo sei, invece, devi ricominciare tutto daccapo. È una forma di violenza che affrontano anche quei tantissimi ragazzi e quelle tantissime ragazze che si sottopongono al cambio di genere.
Nel mio caso, sono dovuta andare a Barcellona (nella struttura al centro della nuova serie tv di Maria Sole Tognazzi, The Place of Life, ndr), dove la burocrazia ti permette di operarti con i soldi: si firma un documento in cui si declina la clinica da qualsiasi responsabilità. Per farlo, mi sono messa sulle spalle un debito enorme per una ragazza della mia età, una spesa che di certo non può essere affrontata tutti i giorni. Ma non avrei mai potuto affrontare l’iter italiano.
E psicologicamente?
Mi sono sentita più sollevata già dalla prima videocall con il medico. Pur non avendo mai subito un intervento, ho affrontato il tutto con positività e senza mai temere nulla. Anche il giorno della stessa operazione ero piena di energia: avevo una luce diversa perché sapere che quello che stavo per vivere mi avrebbe per cambiato la vita. Non vedevo l’ora che accadesse: sui social facevo persino il countdown… ero emozionata ma tranquilla: risvegliarmi e guardare la fasciatura mi ha fatto capire che ero finalmente io, con meno soldi ma io.
E per te il nome non è un problema: Giada eri e Giada sei rimasta.
Sì, anche perché non sto affrontando un percorso F to M. Sono solo Giada, una persona non binaria che non si riconosce in un solo genere. Ma, ancora una volta, questa è la mia storia: può darsi che chi la legga possa non essere d’accordo ma a me interessa come mi sento io… non intacco la sua vita e non gli faccio male fisicamente: sto cercando semplicemente di vivere la mia vita liberamente come lascio che se la vivano gli altri come meglio credono.