“Ho finito sul set e ho finito anche la mia sessione di allenamento. In questo periodo della mia vita la schiena richiede attenzione per via dei tacchi portati in scena per Tutti parlano di Jamie: i dolori del mestiere”. Mi spiazza sin da subito Giancarlo Commare, con il candore di una risposta che lascia intravedere la piega che prenderà da lì a poco la nostra conversazione, continuamente in bilico tra professionale e privato ma sempre lontana dalla becera piaga del gossip o del morboso.
L’occasione del resto è ghiotta. Giancarlo Commare ha appena presentato ad Alice nella Città e alla Festa del Cinema di Roma due film tra loro molto differenti ma ugualmente importanti: Eravamo bambini di Marco Martani, destinato ad arrivare in sala nel febbraio 2024 grazie a Europictures, e Nuovo Olimpo di Ferzan Ozpetek, che farà il suo debutto su Netflix il prossimo 1° novembre.
E partiamo subito da un’osservazione su Peppino, il giovane che interpreta in Eravamo bambini. In una storia che, ambientata in Calabria, si mescolano un’estate del 2001 con l’oggi, Giancarlo Commare dà vita a un personaggio sicuramente facile, anche per via di un twist della trama che colpirà molto lo spettatore ma di cui decidiamo di non anticipare nulla per evitare di spoilerare il finale. Una cosa però possiamo dirla: Peppino è lontano dai personaggi che solitamente il trentunenne attore di origini siciliane porta sullo schermo.
“Mi piace uscire dalla mia zona di comfort, altrimenti mi annoio. Mi piace sperimentare esperienze nuove e spero di continuare a proseguire così come sto cercando di fare, variando. Peppino è un personaggio che ha più ombre che luci. È un ragazzo che sostanzialmente è cresciuto non esternando ciò che vive: lavora per contenere le sue emozioni e i suoi sentimenti perché è incastrato in una realtà molto chiusa e, soprattutto, in casa sua. Ha un padre che lo tiene in gabbia sin da quando è piccolo spronandolo a essere sempre più “maschio” così come la società intorno vorrebbe. Il padre lo tratta, se vogliamo, come se fosse sempre un bambino e come tale Peppino conserva una certa purezza. Ma è oramai un uomo adulto, chiamato a prendere le sue decisioni, soprattutto dopo che il genitore lo incastra in qualcosa senza chiedergli il permesso”.
“Lo vediamo esternare le sue emozioni quando ritrova gli amici dell’infanzia in maniera inaspettata. Sono tuti rientrati in Calabria avvisandosi tra loro e lasciandolo fuori: pur rimanendoci male, quando li rivede, in lui si riaccende una luce negli occhi che, comunque, non ha mai perso. È in quell’attimo che rivediamo una punta di quel bambino che è stato e che porta ancora con sé”. Si scusa Giancarlo Commare per la lunghezza della sua risposta ma, a detta sua, quando comincia a parlare è difficile fermarlo, non sapendo che così facendo fa la gioia di tutti coloro che hanno la fortuna di ascoltarlo o intervistarlo.
Intervista esclusiva a Giancarlo Commare
Qual è stata la tua reazione quando ti hanno proposto il personaggio di Peppino?
Innanzitutto, sono stato super contento. Intanto, perché è il primo film per cui ho semplicemente ricevuto una chiamata: il regista mi ha convocato dopo avermi visto a teatro per offrirmi il ruolo. È la prima volta che mi capita ed è stata una bellissima soddisfazione: la ricordo molto volentieri. Mi ha spiegato che sarebbe stato un film pieno di attori della mia età e qual era il progetto: sin da subito, mi ha entusiasmato l’idea di poter sperimentare qualcosa per me di nuovo e di poterlo fare con colleghi della mia generazione che stimo. Sul set, mi sono effettivamente sentito come un bambino dentro a un parco giochi.
In Eravamo bambini c’è un continuo confronto tra gli adulti protagonisti e la loro infanzia. Tu che bambino sei stato?
Un bambino con le idee abbastanza chiare. Ho capito quello che volevo fare quando mi hanno offerto la prima recita natalizia con i compagni del catechismo. Non volevo nemmeno farla perché c’erano degli elementi che mi disturbavano: mi vergognavo e mi avevano affidato il ruolo del cattivo, quello di re Erode. Non volevo stare al centro dell’attenzione: ero un bambino che veniva non dico bullizzato (non è quello che succedeva) ma preso un po’ in giro perché aveva la pancetta e, quindi, non mi piaceva essere sotto gli occhi di tutti.
Ma non potevo esimermi dal farlo. Quando è arrivata la sera della recita, prima di iniziare ero nel panico: il nervosismo è però andato via nel momento in cui ho cominciato a fare i primi passi percorrendo la navata centrale della Chiesa per arrivare sull’altare. Ci credevo talmente tanto in quello che stavo facendo che, come per magia, mi sono sentito forte e potente: mi sentivo bene. Non ricordo tutto nei dettagli ma ho ben impressa nella mente l’emozione nel vedere, facendo il percorso inverso per tornare indietro, le persone alzarsi in piedi e applaudire.
A quanto pare, avevo recitato bene. Tra l’altro, la scena prevedeva che io dovessi lanciare sul mio servo in scena il calice dal quale bevevo. Essendo lo stesso che usava il prete per bere il vino durante la messa, mi era stato chiesto di poggiarlo in maniera “tranquilla” ma, preso dal ruolo, l’ho scagliato addosso al povero servo, rischiando anche di fargli molto male.
Finito il tutto, mia madre mi ha raggiunto. Ero super contento e felice. Le ho in quell’attimo chiesto che cosa fosse quella cosa bella che avevo appena fatto: era recitare ed era ciò che avrei voluto fare da grande… l’ho deciso lì, in quel preciso istante.
Eravamo bambini: Le foto del film
1 / 12Decidere di fare l’attore a Castelvetrano, un comune nel trapanese con poco meno di 30 mila abitanti, non è come decidere di farlo a Milano. Sia per una questione di logistica sia per una questione, ahinoi, di mentalità.
Non era ovviamente così comune. Ma, dopo quella recita, ho provato sostanzialmente a far di tutto pur di concretizzare il mio desiderio, nonostante non ci fossero le possibilità. Il grande sogno era quello di andare a studiare fuori e di conoscere altre realtà. Ma la voglia di confrontarsi con altro era insita in me sin da molto più piccolo: mi ha sempre affascinato l’idea della scoperta, tant’è che ancora oggi amo tantissimo viaggiare e scoprire ciò che non conosco.
Resta il fatto che, comunque, era molto difficile recitare a Castelvetrano. Anche grazie al catechismo, ho cominciato ad affiancare la ragazza che aveva curato la recita, molto più grande di me, e a lavorare sostanzialmente insieme trasformando l’oratorio in un posto in cui i ragazzi, invece di stare in strada, potevano riunirsi per organizzare qualcosa di costruttivo. Recite, prove, stacchetti musicali e piccole coreografie erano il mezzo con cui ci intrattenevamo, anche per passare il tempo in maniera diversa.
Tuttavia, che lo facessi io che ero un maschietto era un po’ un problema. Preferire l’oratorio al giocare a pallone era causa di derisione da parte dei ragazzi ma anche di disillusione da parte degli adulti, che mi ripetevano che quello non poteva mai essere un lavoro. Diversi fattori hanno provato ad abbattermi ma, nonostante i momenti che non vivevo proprio felicemente, continuavo a credere in quel sogno.
La realtà che vivevo non mi offriva molto, ne ero scontento ma non scalfiva l’amore che sentivo dentro per la recitazione. Non me ne fregava niente di nessuno e di tutto quello che poteva essere. Le ho provate davvero tutte iscrivendomi anche a una scuola di ballo, complicando ulteriormente i giudizi e i pregiudizi nei miei confronti: non volevo nemmeno una volta prender parte a uno spettacolo in piazza organizzato dalla scuola proprio per paura della presa in giro… ma poi ho realizzato che non dovevo darla vinta agli altri: non potevo rinunciare a qualcosa che mi piaceva fare solo perché qualcun altro la trovava ridicola.
Più che realizzazione si chiama autodeterminazione.
Il giudizio è comunque qualcosa che mi sono portato dietro. Non che ci abbia sofferto molto ma ci sono cresciuto in quell’ambiente: è solo a 28 anni che ho risolto i segni che ha lasciato. Ma, comunque, non potevo permettere agli altri di decidere per me. L’amore per quello che facevo, mi ripeto, era più forte di tutto e di tutti. Ed è qualcosa che dico anche quando mi chiedono il perché della scelta di interpretare il personaggio di Jamie a teatro: è una domanda stupida… perché mai avrei dovuto rinunciarci?
È semmai grave che te lo chiedano.
Ma lo fanno. Qualcuno mi chiede pure se è stato difficile farlo cercando di carpire il mio orientamento sessuale. È ridicola come cosa e sono ridicoli determinati pensieri, soprattutto se rivolti a una storia in cui sto mettendo in pratica il mio mestiere. L’attore deve portare in scena anche altro da sé e per farlo occorre studiare, formarsi e prepararsi.
A parte che poi in Italia non si capisce bene perché l’attore deve fare l’attore e basta, e così il cantante o il ballerino. Sembra quasi che non si possa fare altro quando negli Stati Uniti gli attori escono da scuole che li formano in ogni disciplina. Sanno far tutto e li ammiriamo come divinità ma la ragione è semplice: studiano. Da noi invece si cercano le facce pronte per il ruolo, senza che ci sia una ricerca dietro: è chiaro che poi a perderci sia la qualità. Occorre studiare per mettersi nei panni di qualcuno e restituirlo in maniera rispettosa: è nostra responsabilità farlo.
Hai detto prima di esserti liberato del peso del giudizio solo a 28 anni. Qual è stato lo switch?
Hai tempo fino a domani (ride, ndr)? Credo che nella vita di ognuno arrivi sempre quel momento in cui ci si dice che non importa più nulla del giudizio degli altri perché la vita in fondo è tua. Preoccupandomi degli altri, pur facendo la cosa che più amavo fare, la vivevo malissimo: era un continuo dimostrare che valevo qualcosa e che ero bravo. Oggi ho fortunatamente superato il pensiero: ho capito ciò che i miei professori e maestri mi dicevano in accademia, “dovete giocare… dovete imparare a giocare come facevate da bambini”.
Non riuscivo a divertirmi come se fosse un gioco mentre ora sì: mi sono tolto dalla testa ciò che gli altri potevano pensare di me. L’ho fatto con un percorso di psicanalisi che mi ha permesso di capire molto di me, analizzando aspetti riguardanti la mia vita, anche in merito al rapporto con i miei genitori. È solo dopo aver risolto i miei nodi che magicamente mi sono sentito meglio e ho compreso il valore di quanto sia importante star bene: pur facendo ciò che ami fare, se non stai bene non vivrai mai nulla di buono, nemmeno i tuoi successi.
Fino a qualche anno fa, pur ottenendo soddisfazioni e riconoscimenti anche sul piano lavorativo, per via di ciò che mi portavo dietro sin da piccolo, non riuscivo a godermeli: pensavo di non meritarmeli. Grazie al percorso di analisi affrontato, mi sono scoperto, ho capito quali sono i miei limiti e quali le mie consapevolezze. Quando faccio qualcosa è solo perché mi fa star bene, altrimenti la evito.
Hai citato il rapporto con i genitori, qualcosa che in Eravamo bambini è abbastanza complesso. Il tuo Peppino ha un rapporto che definir complesso con il padre, interpretato da Massimo Popolizio, è riduttivo. Che rapporto hai avuto tu con i tuoi?
Ho sempre avuto un rapporto bellissimo con mia madre: è la persona che mi ha cresciuto, il mio costante punto di riferimento e la mia colonna. Tutto quello che di bello ho potuto ricevere nella vita l’ho avuto da lei. Non ho purtroppo alcun rapporto con mio padre: i miei si sono separati e tra me e lui non è andata bene. Niente, comunque, più di irrisolto da parte mia.
La vita prima poi presenta il conto da pagare: è un po’ la summa di Eravamo bambini. Qual è il conto che pensi di aver pagato?
Tra le righe, ce lo siamo anche detti. Ci son tante cose, di cui avrei potuto godere o che avrei potuto vivere diversamente, che ho perso e che non torneranno più.
Hai chiuso anche i conti con il tuo corpo o la derisione per quella pancetta da bambino ha lasciato qualcosa in sospeso?
Purtroppo, qualcosa è rimasto. Ho un rapporto migliore con il mio corpo rispetto a prima: lo apprezzo, ad esempio, molto di più. Ma, se qualche volta mi lascio andare, ne noto subito gli effetti e mi colpevolizzo. Non riesco a viverlo ancora bene ma ci sto lavorando. Ho capito che allenarmi con costanza e prendermi cura del mio corpo mi fa stare bene prima mentalmente e poi fisicamente. Ho salito un gradino: mentre prima lo facevo per piacere agli altri, ora lo faccio per me stesso.
Ti stai preparando per portare a teatro una nuova versione di 1984, il romanzo di George Orwell, per la regia di Giancarlo Nicoletti e a fianco di Violante Placido e Ninni Bruschetta.
È sempre stato uno dei miei libri preferiti: sposo totalmente l’autore e quello che vuole raccontare. Secondo me, racconta una realtà che già viviamo da qualche tempo tutti senza nemmeno rendercene conto.
Cosa ti spaventa del futuro?
Sono tante le cose che mi fanno paura: basta guardarsi intorno e vedere ciò che accade nel mondo. Solo dei cretini non potrebbero accorgersi di quanto l’umanità si stia allontanando sempre più dall’umanità stessa e dalla natura: non abbiamo capito molto di quello che avremmo dovuto fare su questo pianeta e di come avremmo dovuto vivere. In che realtà stiamo vivendo e che realtà vivranno quelli che vivranno dopo di noi?
Stiamo distruggendo il nostro pianeta ma continuiamo a farci le guerre tra di noi mettendo in primo piano solo quel potere di cui tutti si vogliono impossessare per governare e controllare qualcosa che non si pensa a salvaguardare. Anziché pensare al progresso dell’umanità stessa, si pensa al progredire del singolo e dei suoi interessi. E il mio è un ragionamento apolitico: come si può star tranquilli quando si pensa a negare e togliere i diritti agli esseri umani?
Il teatro, comunque, ti permette di avere un confronto diretto con il pubblico. Ti rendi subito conto di quando la tua prova è arrivata alla gente in platea?
Per quanto mi riguarda è sempre un casino. Prendendo come riferimento Tutti parlano di Jamie, c’erano sere in cui credevo di aver spaccato perché vedevo la gente entusiasta e che invece, a detta dei tecnici dietro le quinte, presentavano qualche problema. E altre in cui accadeva l’esatto contrario. Comunque, chi sta sul palco ha una percezione distorta del pubblico che ha davanti: non sempre riesci a vedere le persone e le loro reazioni ma, se trasmetti energia, alla fine ti ritorna indietro.
Mi reputo molto fortunato: ho sempre incontrato pubblici molto calorosi… dopo quasi due ore di spettacolo, trovavo sempre una marea di persone ad attendermi per la voglia non solo della foto di routine ma anche del confronto con quanto visto: la gente aveva il desiderio di raccontarmi qualcosa di inerente alle loro vite. Ho ricevuto anche moltissime lettere, disegni e messaggi, soprattutto da chi finalmente si sentiva rappresentato e aveva voce. E ho ancora i brividi a pensare a quella ragazza che mi ha rivelato come grazie allo spettacolo abbia cambiato proposito su ciò che voleva fare fino a una settimana prima, togliersi la vita.
Il teatro è qualcosa che ti forma e cambia la vita: si dovrebbero portare tutti sin da bambini. Eppure, chiudono i teatri... È quel luogo in cui si crea uno scambio di empatia tra l’artista e il pubblico ma anche tra la gente del pubblico stesso: grazie all’arte si impara a condividere. L’arte è cultura e la cultura rende liberi.
Ti abbiamo già visto interpretare in Rinascere un personaggio reale ed esistente: Manuel Bortuzzo. Ti vedremo presto calarti nei panni di Ivano Russo, personaggio chiave della cronaca legata al caso Sarah Scazzi, nella serie tv Avetrana – Qui non è Hollywood. A differenza di un personaggio come Stefano Pirandello, il figlio dello scrittore Luigi, che interpreterai in Eterno visionario, il nuovo film di Michele Placido, ti confronti con qualcuno che è ancora in vita. Come ti muovi in questi casi?
Come faccio? Beh, innanzitutto, non mi piace lavorare di imitazione e restituire una replica. Devo sempre attenermi a una sceneggiatura e a come quel personaggio è stato tratteggiato. Non ho mai incontrato né Bortuzzo né Russo prima delle riprese: non ho avuto la possibilità di vedere da vicino come si muovessero, parlassero o agissero nello spazio.
Di Manuel avevo letto il suo libro per tentare di entrare nella sua psiche e visto le interviste per capire un po’ come si muovesse ma non con l’idea di imitarlo. Per Ivano Russo, ho dovuto invece fare un lavoro differente ma anche molto interessante: Pippo Mezzapesa, il regista, mi ha invitato a lavorare sul “mio” Ivano, sicuramente differente fisicamente dall’originale. Oltre alla sceneggiatura, mi sono tornati utili la conoscenza dei fatti e gli articoli di giornali e i documentari realizzati, anche perché di Russo sono sparite quasi tutte le immagini a eccezione di qualche minuto video estratto da Chi l’ha visto?, in cui comunque lo si vede poco.
Com’è invece essere diretti da un maestro come Michele Placido?
È tosto. Michele Placido ha in mente tutto il quadro generale di ciò che sarà una scena che ti appresti a girare. Può capitare che ci siano delle richieste che, in un primo momento, non comprendi perché non sai cosa c’è dietro ma è un genio a cui affidarsi con completa fiducia. Sebbene tu non conosca quel qualcosa che ancora non ti ha comunicato, è bravissimo nel fartelo capire ciò che vuole per far sì che la magia cominci.
È stato appena presentato alla Festa del Cinema di Roma, Nuovo Olimpo, il film di Ozpetek su Netflix dal 1° novembre. Interpreti Ernesto (“Molotov”), uno dei ragazzi che nel 1978 si aggira tra i corridoi del cinema che dà il titolo al lungometraggio in cerca di avventure omosessuali. Ancora una volta, un personaggio dall’identità queer…
(Giancarlo Commare non mi lascia finire la domanda, ndr) No, ti prego, non puoi farmi questa domanda anche tu!
Non era per chiederti se temessi di rimanere incastrato nel ruolo. Volevo sapere come si fa da attore a differenziare i personaggi senza correre il rischio di risultare sempre uguale.
Se così non fosse, potremmo dire che gli omosessuali sono tutti uguali, cosa che in realtà non è, come non lo è per tutti. Si tratta nel caso di Maschile singolare, Tutti parlano di Jamie e Nuovo Olimpo di tre personaggi completamente diversi tra di loro: uno fa le manifestazioni e si atteggia da maschio, un altro sottende la sua personalità alla persona che gli sta vicino e un altro ancora si batte andando contro tutto e tutti pur di farsi accettare dagli altri. Tutti i ruoli per me sono diversi e mi impegno a farlo ricordare a chi se lo scorda.
Come definiresti il tuo lavoro?
Metaforicamente, sono come un falegname che per realizzare un cavallino di legno sceglie materia, forma, colore e i dettagli dell’involucro, la scatola, in cui inserirlo. Dopo averlo fatto, lo porta in scena per regalarlo a qualcuno che ha voglia di riceverlo.
E in questo che ruolo gioca la vanità?
È una componente che chiaramente, anche in piccola parte, è presente in chi fa il mio lavoro: sarei un ipocrita a negarlo. Non faccio però parte della categoria di chi si preoccupa su come mettersi in scena o in posa per farsi inquadrare meglio o restituire il suo profilo migliore. A me interessa semplicemente stare in scena, non mi preoccupo dell’eventuale doppio mento che si vede: in quel momento non sono io, mi preoccupa semplicemente quello che devo raccontare e vivere.
È stata appena importata anche in Italia la figura del coordinatore di intimità sui set. Ti preoccupa il nudo sul set?
Il mio corpo è uno strumento di lavoro. In passato, mi sono posto la domanda e probabilmente se mi avessero proposto un nudo avrei detto di no, per via di come vivevo il mio corpo. Crescendo, ho però capito che il corpo è un ulteriore mezzo di espressione: se mi chiedessero un nudo funzionale al progetto e alla storia, non direi di no, seppur consapevole dei commentini che ci saranno e di cui non mi importa niente… Comunque, in qualche modo, l’ho già fatto anche se poi non si vedeva in scena: per Maschile singolare, eravamo quasi del tutto nudi sul set.
Quindi, sarebbe un sì anche a una possibile scena di nudo frontale con erezione, come capitato ad alcuni dei tuoi colleghi?
Dovrei prima riuscirci, anche perché per quanto un set sia ristretto non si è mai da soli… ma, se mi danno il tempo di concentrarmi, perché no? (Scoppia a ridere, Gianluca Commare, spiazzato dalla domanda tanto quanto chi l’ha fatta, ndr).