Gianni Vancini, sassofonista dalla fama internazionale, è appena approdato in radio e nelle piattaforme digitali con il brano I’ll Missing You (distribuito da Artist First su etichetta Alta Sierra srl e prodotto da Vittorio Corbisiero) in coppia con la cantante inglese Sarah Jane Morris. Se ascoltando la canzone di Gianni Vancini provate una strana sensazione, vi diciamo sin da subito che non state sbagliando. Si tratta infatti della rivisitazione di Se stiamo insieme, iconico brano degli anni Novanta di Riccardo Cocciante e Mogol, vincitore del Festival di Sanremo 1991.
E questo è anche il motivo per cui Gianni Vancini ha messo il suo sax al servizio della cantante britannica: era lei a cantare il brano anche anni fa, quando Sanremo prevedeva la versione internazionale di ogni canzone in gara. “Conosco Sarah Jane fin dai tempi dell’acid jazz. L'ho sempre considerata un’icona di quel movimento straordinario. Passione, energia, cuore, spiritualità sono alcune tra le sue tante doti, oltre alla sua voce inconfondibile. È un privilegio per chi la ascolta. Inutile dire che collaborare con lei oggi, sia in questo brano che nei concerti, è un sogno diventato realtà», ha sottolineato Gianni Vancini.
I’ll Missing You è la canzone apripista di quello che è il nuovo progetto discografico di Gianni Vancini, Made in Italy, un nuovo album che unisce le sonorità del jazz contemporaneo alla musica italiana più rappresentativa dagli anni ‘70 ad oggi. Il progetto è realizzato con il supporto del Comune di Bologna, grazie al bando Nuove Produzioni Musicali.
Noto soprattutto nel Nord America, Gianni Vancini è da vent’anni il sassofonista ufficiale di Umberto Tozzi e ha al suo attivo numerose collaborazioni con i maggiori esponenti della jazz internazionale. Star del sassofono, viene considerato “l’Ambasciatore del jazz contemporaneo”, grazie al suo stile inconfondibile, ibrido tra pop e jazz moderno.
In quest'intervista, conoscerete il mondo di Gianni Vancini da vicino, un universo fatto di entusiasmo e di passione per il sax, uno strumento - chi l'avrebbe mai detto - che ha imparato a suonare quasi per caso.
Intervista esclusiva a Gianni Vancini
Hai appena pubblicato I’ll Missing You, nuovo singolo in collaborazione con Sarah Jane Morris, che riprende in lingua inglese e un nuovo arrangiamento Se stiamo insieme di Riccardo Cocciante. Com’è nato il progetto? Farà parte del tuo nuovo disco in preparazione in cui rileggerai in chiave jazz alcuni dei successi della musica italiana.
Parte tutto da lì. Dopo l'estate, uscirà mio nuovo disco. Si tratta di un tributo alla musica italiana un po’ dei miei anni, quella tra i Settanta e i Novanta. Ho cercato dei pezzi in quel trentennio e non è stato facile selezionarli: sono canzoni che hanno segnato tutte le epoche. Brani di artisti che vanno da Pino Daniele a Eros Ramazzotti.
Collaboravo già con Sarah da qualche anno e uno più uno fa due. Mi è venuto naturale chiederle di cantare insieme I’ll Missing You, la versione internazionale di Se stiamo insieme, con cui vinse Sanremo nel 1991 insieme a Cocciante. Ne abbiamo fatto una versione, ovviamente, con un nuovo arrangiamento, un nuovo mood più vicino a quello che è il mio mondo, insomma, ma senza snaturare troppo la canzone.
Avete rinverdito il brano e il connubio delle due voci con il sax a sottolinearle lo ha reso ancora più interessante, rispetto alla versione originale sicuramente più drammatica.
C’è stata una maggiore attenzione alle sonorità attuali. In linea di massima, ed è qualcosa che ho applicato a tutti i brani che comporranno il mio disco, ho cercato di essere il più fedele alle melodie originali: li considero imbattibili. Le belle melodie hanno una forza impressionante: se in molti dei brani togliamo il cantato e lasciamo solo la musica, le canzoni continuano a stare ancora in piedi, a comunicare da sole. Questo sottolinea come a essere forte sia già la musica, le parole non fanno altro che rafforzarla ancora di più, a riempirla di significato. Nella sola musica le persone si immedesimano e sentendola cominciano a pensare di tutto, lasciano andare la fantasia. La stessa melodia può scatenare emozioni diverse in persone diverse: c’è chi può mettersi a ridere e chi invece si commuove. Ognuno la interpreta a modo proprio: è il bello della musica!
Gli altri pezzi che comporranno il disco saranno in inglese o in italiano?
Saranno tutti in italiano. I’ll Missing You è l’unico in inglese ma ha sempre una matrice italiana. La scelta dell’inglese è un segno di rispetto verso l’ospite internazionale: era contestuale a quello che aveva fatto tanti anni prima.
La curiosità nasceva da un altro fattore. Nel tuo caso siamo davanti a un artista che, quasi paradossalmente, è più conosciuto all’estero che in Italia.
Ho scelto di mantenere il testo delle canzoni in italiano per esportarle nella nostra lingua nel resto del mondo. Non a caso, l’album si chiamerà Made in Italy ed è stato voluto, registrato e realizzato al 99% in Italia. Ho spinto affinché fosse così: altrimenti che tributo all’Italia e alla musica di un certo periodo sarebbe stato?
Come ci si sente, per rimanere in tema, a essere conosciuto più all’estero che in Italia, nonostante tu abbia collaborato e collabori ancora con il gotha della musica italiana. Non provoca una strana sensazione?
È particolare. Credo che sia dovuto al sax, al mio strumento, e al genere di musica che propongo che ha una matrice culturale che si è sviluppata più in altri Paesi che nel nostro. Dipende anche da quello che è stato il mio percorso. Un po’ per necessità di imparare e di conoscere, mi sono spostato inizialmente oltreoceano. Da cosa poi nasce cosa: si creano amicizie, nascono collaborazioni e ho trovato terreno fertile per la mia formazione musicale.
È ora molto interessante portare qui, in Italia, i frutti della mia esperienza. Tante volte, la parola jazz spaventa chi la sente. C’è la tendenza a pensare che sia qualcosa di complicato, di cervellotico. In realtà, la parola jazz è un ombrellone gigantesco sotto il quale sono racchiuse tante tipologie di jazz o, comunque, di musica improvvisata.
Per quanto mi riguarda, il jazz è tutto tranne che complicato. Anzi, la gente esce col sorriso dai miei concerti e in tanti mi fermano per dirmi “Anche questo è jazz’”. “Certo”, rispondo io, “ci si può anche divertire, ballare sui tavoli, non è un problema!”.
Anche perché poi l'immagine del jazz “seriosa” non è mai appartenuta al genere, se pensiamo alle sue origini popolari. È strano che oggi si abbia quasi paura nell'affrontare il genere prima di scoprire che in realtà è tutto molto più easy di quello che sembra.
Da un certo punto di vista, la vivo anche come una sorta di missione… piacevole, assolutamente: voglio far divertire la gente con qualcosa di diverso dall'usuale, insomma. Mi fa molto piacere, dico una parolona, essere una sorta di ambasciatore in questo.
Non è una parolona. Nel tuo caso potresti essere veramente un ambasciatore, visto che fai avanti e indietro tra Italia e Nord America. Trovi delle differenze di reazione nel pubblico che ti ascolta?
Sì e no. In Nord America sono abituati al genere, fa parte della loro cultura e, quindi, non hai bisogno di “conquistare” la gente. Qua, è diverso: ci sono degli amanti del jazz, è chiaro, ma una fetta del pubblico inizialmente è un po’ diffidente: basta però un primo pezzo per conquistarli per far sì che ridano, scherzino, ballino. Quando si crea un rapporto tra chi è sul palco e chi ascolta, è la cosa più bella del mondo.
Ed ecco la domanda delle domande. Perché hai iniziato a suonare il sax e quando?
Ho iniziato a suonare piccolissimo, avevo cinque, sei anni. Ma ho sempre suonato il pianoforte, un po’ per passione. Non lo avevo mai studiato, nel vero senso della parola. Sono sempre stato convinto di voler fare il musicista e di andare in conservatorio. Per me il conservatorio era il massimo.
E di fatto ci andai, convinto di suonare il pianoforte. Arrivai all’esame di ammissione ovviamente da autodidatta. Mi hanno allora detto, lo ricordo ancora, che al conservatorio era tutta un’altra storia: bisognava suonare in un certo modo, imparare tutta la letteratura classica dello strumento e così via. Mi hanno dissuaso a proseguire con il pianoforte.
Nell'elenco degli strumenti possibili da studiare c'era però anche il sassofono. E io l'ho scelto non avendo idea di che cosa fosse. Mi sembrava lo strumento più moderno. E c’è stato solo allora il mio primo approccio con il sax: è stato una sorta di ripiego! Durante il corso di studi, è nata invece la passione vera e propria. E da quel momento in poi non ce n’è stata più per nessuno!
Per quanti anni si studia sax al Conservatorio?
Il corso dura sette anni.
Facili o difficili?
Impegnativi. Anche studiando sassofono, ho dovuto comunque affrontare tutta la letteratura classica del sassofono… meravigliosa! Per fortuna io ci sono andato da incosciente: se me l'avessero detto prima probabilmente non avrei preso neanche il sassofono.
Poi, invece, mi sono veramente appassionato sia allo strumento sia alla sua letteratura classica. Tuttora, nonostante mi dedichi a una musica più orientati verso il jazz, continuo a suonare musica da camera: mi piace veramente tanto. Ho una formazione, un duo, con cui continuiamo a proporre una sorta di excursus della storia del sassofono, dai primi del Novecento ai giorni nostri.
Come si è coniugato il sax con la tua vita privata?
Non è facile, prima usavo il termine missione. Uso un termine quasi estremo: è una sorta di sacerdozio. La musica ti coinvolge a 360 gradi, ti cambia anche lo stile di vita. Sei sempre in giro e molte dinamiche prevalgono ti fanno sacrificare una buona fetta di vita privata. Nonostante gli alti e bassi, però, mi ritengono una persona fortunata: ho una moglie e sono padre di tre figli! Non è facile ma si può cercare di coniugare le due cose.
E durante gli anni dell’adolescenza, quando magari si è più distratti da altro?
È stata dura. Molto spesso, quasi sempre, mi ritrovavo a dire “no, io non vengo” perché mi tocca stare a studiare oppure ero via per suonare. Ho cominciato presto a suonare per lavoro, avevo sedici anni. Andavo a suonare, rientravo tardi la notte e dopo dovevo studiare. Da un certo punto di vista, era anche meglio: ho evitato determinate cose. Ancora oggi non so nemmeno come si accende una sigaretta! Oddio, non è che per certi aspetti il mondo della musica brilli, eh… ma io sono stato fortunato, sono sempre capitato in isole felici.
Hai iniziato a lavorare come musicista a 16 anni e ti ritrovi a 18 anni in tournée con Andrea Mingardi. Come sei arrivato a quel momento di svolta?
Seguivo un corso di musica a Mirandola, il mio paese natio in provincia di Modena. Sandro Comini, un trombonista di Mirandola che non smetterò mai di ringraziare anche pubblicamente, all’epoca era il direttore musicale della big band di Andrea. Uno dei sassofonisti dell’ensemble (erano in tutto cinque) ebbe dei problemi e Sandro mi chiese di sostituirlo. Si trattava di fare un tour di cinque giorni in Sicilia: non ci pensai nemmeno due volte, per un diciassettenne era un sogno che si avverava!
Chi avevo sostituito rientrò però dopo le 5 tappe. Fortuna però volle che un altro dei sassofonisti passò di ruolo in una scuola come insegnante: presi allora il suo posto. Il famoso treno della vita che va preso quando passa…
Poi, Andrea ha voluto fare una band un po’ più piccolina, con soli tre fiati… E non smetterò mai di ringraziarlo perché ha scelto di darmi questa grande opportunità quand’ero ancora un adolescente!
In questo modo sei passato dal jazz al pop. Se scorro la lista degli artisti con cui hai collaborato, è infinita.
Ho spaziato dal rhythm’n’blues di Andrea al funk, fino al pop di Umberto Tozzi. Quest’anno festeggio i venti anni di carriera come sassofonista di Umberto: lui è una colonna della musica italiana, un pilastro che ha esportato la sua “gloria” in tutto il mondo. È stata una bella scuola: le regole del pop sono diverse da quelle del jazz, si va più di sintesi. Gli assoli durano meno e deve essere bravo a condensare in poco tempo ciò che sai fare.
Tra i tanti con cui hai suonato c’è anche Lucio Dalla.
Ho avuto la fortuna di far qualche apparizione con lui nei suoi ultimissimi anni di fare qualche apparizione con lui, in qualche festival. Cosa posso dire di Lucio? Aveva un carisma unico: era impressionante salire sul palco e trovarsi di fronte a un artista così particolare, totale. Sono state poche le occasioni in cui abbiamo suonato insieme ma me le ricordo bene tutte.
Adesso ti ritrovi anche dall’altro lato della barricata: da studente sei diventato professore.
È una soddisfazione. I ragazzi sono forti, c’è poco da fare. Sono molto contento di quest’esperienza: i ragazzi sono sempre un passo avanti. Non è retorica: loro imparano da noi insegnanti ma anche noi impariamo da loro.
Non sono quindi così superficiali o distratti come li descrivono.
No, è un tipo di atteggiamento che mostrano solo all’inizio. Ma in realtà si tratta di una maschera per celare timidezza, paura e timore. Basta conoscerli un po’ meglio e ti regalano tanto.
Al di là della lavorazione del nuovo disco, cosa ti aspetta quest’estate?
Sarò in tour con Tozzi. E poi mi toccherà pensare alla promozione del mio disco. Sto cercando di organizzare anche qualche evento promozionale con Sarah. Ma il grosso arriverà dopo l’estate con la riapertura dei club, il mio habitat naturale.
Quindi, preferisci l’atmosfera dei club a quella dei grandi palchi?
Non si rinnega mai niente ma diciamo che il clima dei club è più intimo. Ti permette di avere maggior contatto con il pubblico, qualcosa che mi piace proprio tanto.