Gioia Salvatori è uno dei volti di Play Books, la produzione Rai Contenuti Digitali e Transmediali disponibile con la sua settima edizione dal 28 settembre in esclusiva su RaiPlay. Programma original dedicato al mondo dell’editoria ripartito con uno speciale su Lisbona, Play Books si ripromette da sempre di far conoscere i segreti di scrittori e artisti di altri Paesi (e non solo) agli amanti della lettura in compagnia della “filosofa pop” Ilaria Gaspari. Ad accompagnarla, ci sono diversi volti, come la fumettista Zuzu, l’astrologo Simon and The Stars, lo scrittore Claudio Morici, il critico cinematografico Matteo Vitelli, il poeta Guido Catalano e, appunto, Gioia Salvatori.
Sta di Instagram con il suo video diario Cuoro in cui racconta le inadeguatezze quotidiane di una ragazza del Terzo Millennio, Gioia Salvatori è un’attrice a tutto tondo dalla formazione votata alla drammaturgia che da sempre conosce il potere delle parole e ama giocarci. In questi giorni in scena anche con Ghost Track, un progetto che si tiene presso il celebre Mattatoio di Roma in cui con tanti ospiti speciali e giovani voci si attraversano temi, difficoltà, angosce e relazioni possibili ed impossibili dei nostri tempi, Gioia Salvatori si racconta a tutto tondo nel corso di una delle (poche) interviste che concede in cui mostra un lato per lei inedito, quello serio, lontano da come si mostra sui social.
Ma è inevitabile che emerga il suo spirito di battura e la sua ironia, anche quando c’è chi come l’intervistatore – per un continuo lapsus freudiano – la chiama Giulia anziché Gioia…
Intervista esclusiva a Gioia Salvatori
Che ruolo hai in questa nuova edizione di Play Books?
Sicuramente faccio da disturbatrice alla presentatrice Ilaria Gaspari: mi rivolgo a lei per farmi spiegare come risolvere tutta una serie di problemi o di curiosità cercando risposte nei libri che mi consiglia di leggere. Una disturbatrice, mi sembra un’ottima definizione.
Leggi sul serio i libri che ti indica?
Sì, direi che sono una buona lettrice, ma sin da sempre.
Un libro che pensi ti abbia non cambiato la vita ma aperto nuovi scenari?
Ci sono tantissimi libri che mi hanno aperto nuovi mondi e non so sceglierne uno in particolare. Da ragazzina mi piaceva leggere Nietsche, una roba leggera direi: il mio primo approccio con la letteratura è stato con le sue parole. Oggi mi verrebbe da dire anche tutta la letteratura sudamericana ma anche Chiedi perdono di Ann-Marie MacDonald e Madame Bovary, letto e riletto diverse volte nel corso del tempo. Da attrice, aggiungerei anche tutto Cechov ma anche Dostoevskji o Thomas Bernhard… a seconda delle fasi della vita ho incontrato degli autori che mi hanno accompagnato: mi sembrava che potessero anche consolare. Per me, la letteratura e la poesia hanno una valenza soprattutto consolatoria: mi tengono compagnia e mi tolgono dalla solitudine.
Sorrido: appassionarsi alla letteratura con Nietzche da ragazzini…
Beh, quando si frequenta il liceo, si un approccio particolare con la filosofia: si presenta come una materia nuova e ti fa incontrare forti domande esistenziali. Da adolescente, hai le tue irrequietezze e cerchi lì le risposte: è uno sprono anche alla vita perché ti stai facendo domande che già altri si sono fatti. Rientra nella tua stramberia adolescenziale e ti senti parte del consesso umano.
Come si arriva a quel momento in cui tutto ciò che si raccoglie con la lettura si ha bisogno di esprimerlo e di tirarlo fuori in qualche modo?
Nel mio caso, tutto ha coinciso con la formazione scolastica. Ho frequentato il liceo quando andavano di moda i laboratori teatrali. Sono sempre stata attratta dalle parole e, essendo molto un’autrice, il palcoscenico è fondamentalmente un momento di grande divertimento: più ci stai sopra, più ti diverti e alzi l’asticella rispetto alle richieste performative. Il palcoscenico è così divenuto per me il luogo delle parole che vanno dette: mi approccio anche con un bisogno comunicativo perché mi dà la possibilità di dire la mia.
Che liceo hai frequentato per aver avuto un laboratorio teatrale?
Il classico ma sono stata fortunata con le scuole: ho fatto un bel ciclo di studi che mi ha fornito molti strumenti per il mio lavoro. All’università ho scelto Storia del Teatro, negli anni in cui si potevano seguire molti laboratori tanto che ho avuto proprio in quel contesto la mia formazione di attrice.
Formazione da attrice e bisogno di dire la tua usando bene le parole e dando loro nuovo significato ti sono tornate utili nel momento in cui è nato “Cuoro”.
Cuoro è un errore che altrimenti si chiamerebbe “cuore”. È frutto della mia ricerca sugli errori ma, scavando, ho scoperto che errore e errare sono parenti: si sbaglia quando si sta cercando qualcosa. Mi piace che sia un errore per varie ragioni. Per pudicizia, prima di tutto: cuore è una parola difficile da dire, almeno per me, e quindi mi viene più facile dire “cuoro”. Poi, per vocazione: il suo intento è quello di indagare le storture del costume e di puntare un faro su tutto ciò che è ridicolo del tempo presente. E, infine, per fantasia: un errore è anche fantasioso e nell’esserlo ha un suo lato comico.
Ed è un errore che spesso ti porta a decostruire cliché e stereotipi. Dal tuo punto di vista, qual è quello più difficile da decostruire o estirpare su una giovane donna?
A noi donne viene richiesto una performatività maggiore rispetto agli uomini: dobbiamo sapere coniugare i vari aspetti della nostra vita lavorativa con quella sentimentale o privata. Ci viene attribuita una specialità che a volte ti porta a dire di volere essere considerata anche meno e di desiderare di essere aiutata maggiormente nel pratico e lasciata libera. La libertà è un diritto che si esercita e in quanto tale va esercitato.
Professionalmente, c’è ancora la convinzione che le donne non facciano ridere. Eppure, storicamente abbiamo un bel corpus di modelli di donne che hanno fatto la storia della televisione ma anche del teatro e dell’autorialità che avevano e hanno un lato comico altissimo, la capacità di prendere la parola e la possibilità di dire la propria. “Bene, sono felice: ho detto la mia” era anche la frase con cui concludevo tutti i post del blog da cui poi è nato Cuoro.
Ecco, forse per me l’esigenza è proprio quella di dire la mia con una forma di linguaggio volutamente erratico, pieno di errori e giocoso. Quel margine di libertà che mi prendo nello sbagliare le parole apre una squarcio nella fantasia: quando dico “cuoro”, posso evocare anche dieci immagini diverse in chi mi ascolta dando il via a quello che a me sembra un grande esercizio di libertà e fantasia.
Questo tuo esercizio di libertà e fantasia ha incontrato subito il favore dei webnauti?
Onestamente? Sì. Ma anche del pubblico a teatro perché da blog è diventato anche uno spettacolo teatrale che ha diverse versioni, a seconda dei temi che affronto. La gente capisce che è il mio è un codice e il riscontro è favorito anche dal fatto che raramente affronto argomenti di attualità o di quotidianità: cerco di filtrarli in senso formale e le persone si ritrovano di fronte a un contenuto che è stato da me codificato e da loro accettato. Semioticamente, è come se fossimo dalla stessa parte: è quando non si capisce il codice che potrebbero nascere scontri e divergenze.
Quanto tempo impieghi solitamente a scrivere?
Veramente poco. Uso semmai tantissimo il cellulare per appuntarmi delle idee mentre sono sull’autobus o al supermercato. La maggior parte degli spunti arriva da situazioni che vivo sul momento. Quindi, tendenzialmente poi impiego poco a lavorare sui pezzi ma questo non vuol dire che non ci debba rimettere mano altre seimila volte.
Cosa deve avere una situazione che vivi per stimolare la tua scrittura?
Deve manifestare una sorta di paradosso e mi deve far ridere. Sono anche una che ride facilmente quasi di tutto (caratteristica pessima!) e di moltissime cose. Mi colpiscono l’umanità delle persone, i dialoghi o le frasi che mi capita di sentire: finisco spesso per immaginare quello che si diranno dopo, anche se questo non c’entra niente con quello che si stanno dicendo in quel momento. A volte, prendo spunto anche dai suoni o dai colori: ecco perché parlo poi di esercizio della fantasia.
Al di là di Cuoro, che direzione ha preso la tua carriera di attrice?
Ho alle spalle una formazione da commedia dell’arte e, quindi, una propensione al comico forte e solida. Negli anni ho collaborato con diverse compagnie, anche come drammaturga. E, negli ultimi tempi, lavoro con Lucia Calamaro, una drammaturga che fa un tipo di teatro che mi piace: è una collaborazione che mi rende felice e che mi permette di portare in giro un bellissimo lavoro con colleghi incredibili (Riccardo Goretti, Simone Senzacqua e Maria Grazia Sughi) dal titolo Darwin inconsolabile, uno degli ultimi spettacoli in cui le parole non sono mie. Ed è più facile quando le parole non sono tue perché si riesce a fare un passo indietro e di stare maggiormente in ascolto: quello di attrice è un mestiere che di richiede di esserci spostandoti.
Ma è anche un mestiere che ti richiede di essere in perfetto contatto con il tuo corpo, spesso oggetto anche delle storie di Cuoro. Che rapporto hai con il tuo corpo di attrice e con quello di donna?
Il teatro ti libera. E mi ha molto liberata: per stare in scena devi sapere chi sei come sei e qual è il tuo segno semiotico, costringendoti a saperlo usare come si deve. In pratica, come ci si muove, come si balla, come si cade, come si colpisce un collega senza fargli male: tutte operazioni che richiedono un modo diverso di rapportarsi con lo spazio e creare dinamiche relazionali. Tutto ciò ha aggiustato il mio rapporto con il mio corpo, anche perché la cosa bella del teatro è che c’è spazio per tutti: è un luogo in cui ogni fisicità trova casa, qualcosa che più difficilmente accade nella quotidianità. In poche parole, direi che il mio rapporto col mio corpo d’attrice è di scoperta mentre quello con il mio corpo di donna è di accettazione: siamo tutti chiamati a conoscerci da questo punto di vista.
Accettazione: qualcosa non è andato bene nel corso degli anni?
Beh, il rapporto con se stessi è il più complicato da risolvere o sciogliere. Ci si confronta con tanti livelli di difficoltà, dall’aspettativa sociale all’estetica. Per me, è stato un percorso di conoscenza prima di tutto che ha portato anche a delle conflittualità: nel conoscersi, non sempre ci si fa piacere tutto ciò che si scopre. Alcune cose piacciono mentre altre no e gli strattonamenti fanno parte della vita: li ho avuti io come li hanno avuti tantissimi altri.
Ma hanno pesato più le aspettative sociali o quelle individuali, le tue?
Più quelle individuali. Per indole, mi ribello con la risata quando non ce la faccio più. Mentre lo subisco, mi fa molto ridere tutto ciò che è costipante e costringente prima di levarmelo di dosso. Il rapporto con me stessa è stato più conflittuale proprio perché ci si impiega molto a conoscere la complessità di ciò che siamo e che vogliamo.
Ti definisci “l’alternativa sexy alla pulsione di morte”. Ce lo spieghi?
È una boutade ma è come dire di essere una forma di distrazione dal grande disastro che è la nostra posizione nei confronti della morte in senso freudiano, un’alternativa divertente che ha una sua sensualità che manifesta attraverso parole che aiutano a divergere e ad andare oltre a ciò che sta in superficie e che è orrorizzante.
Eros e Thanatos sono però compagni di gioco…
Tutto ciò che sembra all’opposto sono compagni di gioco che si compenetrano. Mi sembra simpatico non dare retta né all’uno né all’altro.
La salute mentale è uno di quei temi con cui tutti ci confrontiamo giornalmente e su cui qualche tuo video è stato incentrato.
La mia considerazione è di natura letteraria. In letteratura, si assiste a tutta una serie di discese negli inferi, nel buio, accompagnati da qualcuno che tiene la luce. Non vorrei farlo ma scomodiamo ad esempio Virgilio che accompagna Dante all’Inferno ma non solo: ci sono molti altri casi in cui ogni volta che l’eroe ha un’empasse viene chiamato a esplorare zone oscure di sé. Ma se Dante viene accompagnato all’inferno perché non posso io essere accompagnata da qualcuno nel mio buio? Non ho alcuna intenzione di calarmi nel mio pozzo da sola e quindi serve chi mi ci porti e conosca cosa c’è dietro quel buio.
L’umanità ha sempre avuto delle zone di confidenza a cui rivolgersi nel corso dei secoli, dalla filosofia alla religione. Dal Novecento in poi esistono le figure dello psicologo e dello psicanalista: mi sembra abbastanza consequenziale. E, quindi, non ci trovo niente di male nel lasciare che siano loro i nostri accompagnatori. L’intimità con se stessi è molto difficile da raggiungere se non c’è una mediazione: fa parte della natura umana stabilire un dialogo e chiedere aiuto.
Siamo a ottobre: il Natale è alle porte. Perché ce l’hai tanto con le feste comandate?
Più che con le feste comandante, direi che non c’è niente di peggio, in generale, di un appuntamento imposto al quale ti devi presentare: per me, c’è un bacino di totale comicità che va dal Ferragosto al Natale, passando per i compleanni (compreso il mio) e tutto ciò che è obbligato. È la costrizione che fa andare il comico a nozze, altro appuntamento in cui accadono cose che mi fanno molto ridere. Mi piace tutto quello che è umano e di cui ovviamente mi lamento. Lamentarsi è la mia attività preferita: tutto ciò che è degno di lamentazione è degno di risata. E, quindi, per quanto mi riguarda, vado ben volentieri agli appuntamenti imposti lamentandomi!
Che segno zodiacale sei?
Capricorno, 29 dicembre. Un segno di grande eleganza, no? Mi ritrovo bene nell’avere quest’aria un po ritrosetta: un po’ di alterigia non mi dispiace (ride, ndr).
Ammettilo quindi che ti lamenti del Natale solo perché per il tuo compleanno ricevi un regalo unico…
Ti ringrazio per avermi capita!
Comunque, i Capricorno hanno sempre dei rapporti difficilissimi con l’amore…
Moltissimo. Sull’amore sono preparatissima ma anche il suo contrario…
C’è qualcosa che vorresti dirmi e che non ti ho chiesto?
Non chiamarmi più Giulia sarebbe già un gran bel passo!