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Giorgio Belli: “La recitazione, il mio imprevisto voluto” – Intervista esclusiva

Giorgio Belli
Il peso di un’eredità criminale e la ricerca di sé: Giorgio Belli racconta il tormento di Daniel in Il Patriarca 2, un personaggio che costringe l’attore a esplorare i propri lati più oscuri. Ma è il solo punto di partenza di un’intervista in cui racconta chi è e il suo percorso.
Nell'articolo:

Giorgio Belli è tra quegli attori che, con estrema onestà, accetta la sfida di immergersi nella psiche dei suoi personaggi, scavando nelle proprie ombre per dare vita a emozioni che oscillano tra la luce e l’oscurità. "Daniel è il figlio di Raoul, il nemico giurato di Nemo Bandera", esordisce Giorgio Belli nel presentarci il personaggio di Il Patriarca 2, che debutterà il 15 novembre su Canale 5. Daniel rappresenta per lui un viaggio all’interno di un contrasto interiore, tra l’autonomia dai legami famigliari e la spinta verso un destino che non ha scelto.

In bilico tra le aspettative di un padre dominante e il desiderio di autodeterminazione, Daniel riporta a galla una delle sfide universali della crescita: l’equilibrio tra ciò che ci viene imposto e ciò che realmente desideriamo. Giorgio Belli ci racconta il suo legame con questo personaggio come un’esperienza in cui ha dovuto svelare i lati meno luminosi della propria personalità, accettandoli per poter portare in scena un’interpretazione autentica e intensa.

Questo approccio lo ha spinto a interrogarsi sul rapporto tra finzione e realtà, costringendolo a esplorare il confine sottile che separa l'attore dall'uomo. Interpretare Daniel non è stato solo un viaggio professionale, ma una vera e propria immersione nell’animo umano, in cui Giorgio Belli ha trovato un riflesso di quei conflitti e paure che, forse, tutti portiamo dentro di noi: il timore del rifiuto, il bisogno di appartenenza e l’incessante ricerca di uno spazio personale.

Giorgio Belli non si limita a interpretare un personaggio, ma accetta l’invito a guardarsi dentro, rendendo la sua arte uno strumento di indagine psicologica. Con Il Patriarca 2, Giorgio Belli ci offre un ritratto complesso e stratificato di Daniel, un uomo diviso tra il suo desiderio di libertà e il peso di un’eredità criminale, un conflitto che, in fondo, è anche la storia di chiunque lotti per trovare la propria identità in un mondo di aspettative.

Giorgio Belli (Foto: Alessandro Rabboni; Press: Davide Musto).
Giorgio Belli (Foto: Alessandro Rabboni; Press: Davide Musto).

Intervista esclusiva a Giorgio Belli

“Daniel è il figlio di Raoul, il nemico giurato di Nemo Bandera”, esordisce Giorgio Belli nel raccontare il personaggio che dal 15 novembre lo vedrà tra i protagonisti della serie tv di Canale 5 Il Patriarca 2. “Raoul è un uomo abbastanza violento, caratterizzato da delle linee molto dure: non solo è al comando del suo impero ma anche della sua famiglia. Cresciuto lontano dal padre in un contesto in cui la formazione dei figli avviene quasi sempre in esclusivi ambienti all’estero, Daniel viene richiamato da Raoul al suo cospetto affinché ne segua le orme e lo affianchi nella gestione di quegli affari che un giorno erediterà. E, sebbene si sia distaccato da un certo mondo, sarà costretto a fare i conti tra ciò che realmente vuole e ciò per cui è designato, vivendo un contrasto interiore molto forte”.

“Quello che accade a Daniel è quello che in fondo succede a molti di noi, divisi tra i nostri desideri e le aspettative dei genitori”, prosegue Giorgio Belli. “Tuttavia, il legame che ha con il padre è molto forte: non c’è soltanto la violenza a segnare la loro relazione: alla base c’è sempre un rapporto d’amore tra padre e figlio che Raoul a volte manipola a suo piacimento”.

Quanto un personaggio come quello di Daniel costringe a guardarsi dentro per poi mettere in scena una gamma di emozioni che varia dal bene alla rabbia?

Molto, mi sono guardato molto dentro. Ci sono personaggi che rappresentano quasi degli spartiacque: vivendo un equilibrio molto delicato, ti spingono a cercare le loro motivazioni dentro te e a guardare quegli aspetti positivi e negativi che hai cercato costantemente di bilanciare. C’è stato, quindi, un gran lavorio interiore da parte mia per scovare e capire le ragioni che spingono un personaggio come Daniel a comportarsi in una certa maniera. Laddove quelli positivi che ci caratterizzano sono evidenti a tutti, è più sorprendente immergendosi in profondità rintracciare quegli aspetti negativi che, sopiti nella vita di tutti i giorni, sono richiesti e, dunque, necessari per la recitazione. Ho dovuto scendere a compromessi con la stessa mia interiorità…

Farlo non significa in qualche modo rimodellare anche la propria identità?

Sicuramente tira fuori lati caratteriali che erano già in seno e reali. A volte, è facile farci i conti mentre altre volte lo è un po’ meno perché non li si accettano in toto. Nel mio caso, ho dovuto confrontarmi con il concetto di violenza, non solo fisica ma anche psicologica e con le sue relative conseguenze. Tutti noi pensiamo di essere buoni e bravi ma subire una violenza potrebbe scaturire proprio quei lati e vederli trasformare in irrefrenabili, realizzando quanto sia veramente così facile essere spinti all’eccesso.

Quando si approfondisce un personaggio negativo e si va alle sue radici per capirne le motivazioni, quasi sempre emerge come dietro alle sue azioni ci sia un forte dolore. Venire a capo del “filo d’Arianna” è necessario per te come attore per capire l’origine del comportamento del tuo personaggio, altrimenti rischi che ti appaia tutto superficiale. Nessuno è violento perché si diverte, a parte pochi psicopatici: la radice è sempre intima.

Il Patriarca 2: Le foto della serie tv

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Daniel è un personaggio molto lontanissimo da quello che ti vediamo interpretare nel film Amici per caso, che mette invece in risalto il tuo lato da attore comico. Personalmente, ti senti più portato per il dramma o per la commedia?

Penso di tendere naturalmente più verso il dramma: la commedia mi ha sempre spaventato molto. È stato solo grazie al film di Nardari che ho scoperto che ha anche dei lati molto belli: è ad esempio molto stimolante oltre che divertente lasciarsi andare alla leggerezza e alla spensieratezza che un’opera comica richiede… vivi in un mood molto meno pesante di quello richiesto dal dramma, che ti chiama costantemente a una grandissima concentrazione sul set, a un forte isolamento in certi frangenti e a una costante focalizzazione sul personaggio. Forse, lo sto realizzando pian piano, il lavoro nella commedia è più “libero” perché ci può lasciare andare più facilmente alla battuta e al divertimento: è tutto ritmo.

La commedia solitamente fa ridere gli spettatori. Ma cosa fa scattare una risata in Giorgio Belli?

Mi fanno letteralmente morire gli imprevisti: quando qualcosa che non mi aspetto mi sorprende, non riesco a trattenermi… a cominciare dal classico inciampo: sperando che chi cade non si sia fatto male, non riesco a non ridere.

La recitazione nel tuo caso è stata un imprevisto?

È stata un imprevisto voluto. Facevo tutt’altro prima: mi ero iscritto all’università, studiavo Economia e tendevo in quella direzione fino a quando, al terzo anno di frequenza, mi sono risvegliato una mattina e, seduto sul letto in mutande, ho cominciato a pensare al mio futuro, non si sa bene neanche perché. Ho visto come sarebbe andata a finire una volta laureato: avrei cercato un lavoro, lo avrei probabilmente trovato e la mia vita sarebbe andata avanti senza sobbalzi, una visione che non ho particolarmente amato. Anzi, mi ha persino spaventato per quanto non mi piacesse…

Perché avevi scelto quella strada?

Perché quando usciamo dai licei nessuno di noi ha le idee chiare su chi vuole essere o cosa vuole fare: sono solo in pochi ad avercele. Avevo scelto Economia perché la consideravo come la base per poi specializzarmi in altri campi e perché in famiglia ho un fratello che ha sempre lavorato con le startup (non a caso di recente abbiamo fondato insieme un brand di abbigliamento aprendo un negozio a Roma). Al di là della strada che ho poi intrapreso, mi ha lasciato anche una certa apertura mentale per affrontare anche meglio la vita.

Tuttavia, è quando ho avuto anch’io le idee chiare che ho deciso, prima che fosse troppo tardi, di provare a fare ciò che realmente mi interessava e divertiva. Avevo da sempre dentro di me una certa ammirazione nei confronti del mestiere dell’attore… Anche se non l’avevo mai espressa prima, tutte le volte che qualcuno mi raccontava di lavorare su un set, ero capace di restare anche ore e ore ad ascoltarlo e a porgli mille domande!

Su due piedi ho allora deciso di provare il test di ingresso in un’accademia ed è dopo averlo passato che ho rivelato ai miei genitori il mio nuovo proposito. E loro ne sono stati felici: da artisti, hanno capito la mia esigenza. Una volta poi cominciata l’accademia non ho più avuto dubbi su cosa volessi fare: il mio impegno è stato totale, ho rinunciato a qualsiasi altra cosa pur di riuscire a intraprendere questo mestiere. “Trova nella vita quello che ti piace fare e non lavorerai nemmeno un giorno” si dice… ed è vero: non mi è mai pesato alcun sacrificio fatto fino a ora e ciò mi dà la spinta per andare avanti, nonostante i momenti più o meno difficili.

Giorgio Belli (Foto: Alessandro Rabboni; Press: Davide Musto).
Giorgio Belli (Foto: Alessandro Rabboni; Press: Davide Musto).

Il lavoro di attore, se vogliamo, è un investimento molto rischioso dal punto di vista psicologico perché ti porta a confrontarti costantemente con l’attesa e i rifiuti. Come si sopravvive a un “no” a un provino?

Per indole, tendo a vedere sempre il lato positivo delle cose perché, comunque, vederne il negativo non mi aiuterebbe in nessun modo. Cerco quindi di cogliere il “no” in maniera costruttiva: mi interrogo su cosa mi ha lasciato o su cosa è mancato per farmi fare quel piccolo passo in più. È chiaro che in un primo momento mi incazzo, non sono un automa, ma occorre subito ragionare e rialzarsi in piedi: non si può pensare che il mondo intero ce l’abbia con te. Occorre quindi, smaltita la delusione, metabolizzarla e provare a continuare dritto per la propria strada.

A chi mi chiede un consiglio, dico sempre di dimenticarsi di un provino sostenuto e di avere come una specie di amnesia: toglierselo dalla testa e non ricordarselo, aiuta a non vivere nell’attesa, a rimanere con i piedi per terra e ad avere una stabilità che miri al tuo obiettivo. Stare in attesa di una risposta logora dentro, uno stato psicologico che di certo non è funzionale alla crescita.

Come hai vissuto il tuo primo “sì”?

Con grande esultanza. Era per un progetto molto importante: dopo svariati call back, la decisione finale spettava a Netflix, che si riservava due settimane di tempo per decidere tra me e un altro candidato al ruolo per la serie Luna nera. Alternavo fasi di euforia e disforia nel pensare all’eventuale esito per cui, quando è arrivato il “sì”, è esplosa tutta la tensione che avevo accumulato dentro.

La parola “amnesia” riporta alla mente all’Alzheimer che cancella pian piano i ricordi a Nemo, il protagonista della serie Il Patriarca. Quali sono i ricordi a cui Giorgio non rinuncerebbe mai?

Quelli legati agli affetti a me più cari. Quando viviamo particolari momenti, non abbiamo quasi percezione della loro importanza: è solo quando perdi qualcuno o qualcosa che ti rendi conto di quanto invece fossero fondamentali. Come tutti, ho perso persone a cui volevo molto bene e capita che a volte mi sforzi, chiudendo gli occhi, di rivivere quegli attimi insieme per tenerli stretti al cuore perché, purtroppo, il tempo da questo punto di vista è un nemico inattaccabile: cancella tutto. Ed è questo che mi fa molta paura.

Lo scorrere del tempo significa anche crescere: ti spaventa diventare “grande”?

Crescere fa sempre paura ma appartiene a quella lista di cose che nella vita non si possono controllare. Il tempo la fa padrone e occorre farsene una ragione e cercare un approccio per vivere più serenamente. A noi attori, ad esempio, il tempo incute terrore perché a livello estetico ci porta a invecchiare: vedo in molti farne un dramma personale interiore mentre per me la questione quasi non si pone, mi interessa più vivere a pieno ciò che sarà. Di contro, sono consapevole che perderò quei momenti di spensieratezza che la gioventù ha connaturati in sé ma anche in questo caso spetta forse a noi decidere se farsi sormontare dalle preoccupazioni o se esserne liberi.

Quale lato di te ti dispiacerebbe perdere?

Quello più umano, la sensibilità. Mi rendo purtroppo conto che a volte crescendo lasciamo più spazio al disincanto e al cinismo. E questi ti anestetizzano dal dolore e dai sentimenti per lasciare spazio a una corazza che non sempre fa bene.

Hai citato il lato estetico: quanto conta per chi come te decide di intraprendere un percorso attoriale l’aspetto fisico?

È un tema con cui mi confronto spesso con i miei colleghi e per cui mi becco talvolta un bel po’ di insulti: per me, l’aspetto fisico conta ben poco… è solo funzionale al personaggio che devi portare in scena e interpretare. È solo il ruolo a dover decidere se devo avere il corpo scolpito o se devo perdere trenta chili come ha fatto Christian Bale nel film L’uomo senza sonno: il fisico è uno strumento a nostra disposizione che possiamo modellare e modificare. Basta avere dalla propria la volontà, la dedizione e il tempo, cosa che non sempre le produzioni concedono. Per BAE, il film che ho girato e che vedrete prossimamente, ho avuto ad esempio la possibilità di lavorare sia sulla mia fisicità sia su un dialetto che non è il mio.

Qual è la prima cosa che pensi al mattino guardandoti allo specchio?

Che faccia di cazzo, con tutti quei capelli dritti e scombinati (ride, ndr). La cura estetica non è una mia ossessione, per cui al mattino mi sveglio quasi deformato ma sono ugualmente contento. Ma, tornando seri, sono contento dell’uomo che sto diventando perché comunque mantengo una certa coerenza con quello che sono a livello interiore. E mi va più bene: non amo le costruzioni e chi è costretto a fingersi chi non è per apparire o risultare più vincente agli occhi degli altri.

Ricordo ancora come, quando iniziando a fare questo lavoro, mi interfacciassi con giovani che pur di farsi notare facevano a gara a chi risultasse più “strano” solo per mostrare di essere degli artisti tormentati. Ne sentivo in qualche modo anche il peso perché mi facevano sentire “sbagliato”: ho anche provato a uniformarmi ai loro comportamenti ma non ero più io. Chi l’ha detto che l’attore deve necessariamente essere un artista tormentato? È uno stereotipo che si dimentica quasi della persona e di chi è realmente.  

Cosa non vorresti che si scrivesse sul tuo conto?

Mi darebbe fastidio se dicessero che sono una persona che si approfitta dei più deboli o delle situazioni. Non ho mai indossato i panni dell’approfittatore, non ce la farei. Ma non mi sento nemmeno così debole da lasciare che gli altri si approfittino di me. Quando incontro sul mio cammino personalità che cercano di prevaricare, antepongo dei paletti che evitino la sopraffazione.

Qual è la più grande ingiustizia che si può perpetrare a danno degli altri?

La violenza, psicologica o fisica, nei confronti di chi non può difendersi e non ha comunque la possibilità di rispondere: è un atto di vigliaccheria totale. Forse è anche per questo che ho lavorato molto su di me stesso per non portare nessuno a pensare di potersi approfittare di me.

Sei consapevole di come Il Patriarca 2, andando in onda su Canale 5, possa farti venire a contatto con la fama?

È un aspetto di cui non mi preoccupo particolarmente e su cui non voglio nutrire chissà quali aspettative. Già in passato, la gente intorno a me aveva cominciato a paventare chissà quale grande cambiamento sarebbe occorso nella mia vita dopo Luna nera ma, nonostante ne fossi uno dei protagonisti, non è successo nulla di ciò che mi si prospettava: sono rimasto in attesa di quello che sarebbe stato ma niente… ma anche dal punto di vista della sola carriera professionale: l’arrivo del CoVid ha bloccato persino la possibilità di rimettersi subito al lavoro, per cui sono rimasto inerme per due anni a guardare il soffitto. Ed è stato psicologicamente un momento molto, molto duro.

Detto ciò, potrebbe certo preoccuparmi il risvolto che la fama porta con sé. Di mio, sono una persona molto riservata: non mi destabilizzerebbe se mi fermassero per strada per una foto o per scambiare due chiacchiere ma vorrei pur sempre conservare la mia intimità e non sentire il dovere di dover mettere in piazza tutto ciò che riguarda la mia sfera privata. Credo che basti tutto ciò che porto in scena attraverso i miei personaggi: è anche quello un modo per farsi conoscere fino in fondo e lasciare andare parti di te inaspettate.

E che sia abbastanza riservato può confermarlo chi mi sta intorno: difficilmente mi siedo a tavola e comincio a raccontare i fatti miei. Chi mi vuol bene spesso fatica a capire perché io non parli tanto e mi dispiace anche molto ma nasce dal mio desiderio che gli altri non i preoccupino per me.

Che hai rapporto allora con i social?

Sto imparando a usarli. Non postavo quasi nulla prima ma ho capito che non farlo avrebbe potuto rivelarsi anche un’arma a doppio taglio dal punto di vista professionale. Oggi invece cerco lo scambio con chi mi segue per mostrare loro qual è il mio lavoro, che non si limita solo alla preparazione o allo svolgimento di una parte: c’è anche un dopo e un oltre, con cui cerco di far empatizzare gli altri per creare un rapporto che vada ben oltre lo schermo.

“Non c’è niente di male a vivere una vita che gli altri non capiscono”, si legge in un tuo post. Hai la percezione di non essere capito?

A volte sì, ma non ne ho mai dato la colpa agli altri o a me stesso. Anzi, sono contento che ognuno abbia una propria opinione.

E tu quando ti sei capito?

Quando ho cominciato a recitare… Ho avuto allora la possibilità di mettere in scene aspetti o elementi che nella vita di tutti i giorni non riuscivo a tirare fuori. Forse perché mi dava l’alibi della protezione: in scena non c’è Giorgio Belli da giudicare ma il personaggio che sto vivendo. E questo mi ha dato la possibilità di esprimermi come volevo, un escamotage per sfuggire ai giudizi sulla persona.

Ecco perché ammiro chi come Elio Germano si impegna per riportare il teatro nelle scuole: su un palco puoi tirar fuori tutto ciò che vuoi di te, anche i lati più oscuri, senza far male a nessuno. In più, aiuterebbe il mondo a diventare anche un posto migliore perché si impara a mettersi realmente nei panni degli altri e a non limitarsi al mero giudizio.

Cosa ti ha permesso la recitazione di scoprire di te stesso che non conoscevi ancora?

Mi ha aiutato a capire quanto prima fossi molto represso: tenevo tanto dentro di me mentre sul palco ho avuto modo di liberare la mia energia, capendone i risvolti più belli ma anche quelli più brutti. Di sicuro, mi ha lasciato e mi lascia tanto.

Ti fidi di te stesso?

Più che altro, sono fedele ai miei principi: per carattere tendo a rispettarli.

Di chi ti fidi, invece, quelle poche volte in cui decidi di parlare e di aprirti? Chi è la persona predisposta all’ascolto?

Oltre ai miei genitori e alla mia ragazza, mio fratello. È anche la persona che più frequentemente mi viene anche a prendere fisicamente per le orecchie per chiedermi conto del mio modo di fare o dei miei atteggiamenti: a lui non riesco a nascondere nulla.

Di cosa hai paura?

Come detto prima, del cinismo e di diventare cinico. Spesso ci costruiamo una corazza molto, molto spessa per proteggerci ma dobbiamo essere anche bravi a non far morire quella rosa che custodiamo: dobbiamo prendercene cura sempre, lasciandola libera di respirare e di connettersi con l’esterno, decidendo anche di chi fidarci o meno.

Attore per ambizione o per necessità?

Entrambe. Dipende poi da cosa intendiamo per ambizione: la mia è quella di raggiungere i miei obiettivi e non di essere riconosciuto. Forse una delle mie paure è proprio lo stabilizzarmi mentre inseguo qualcosa…

Giorgio Belli (Foto: Alessandro Rabboni; Press: Davide Musto).
Giorgio Belli (Foto: Alessandro Rabboni; Press: Davide Musto).
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