La Giornata della Memoria è stata instituita sono negli anni Duemila per ricordare la Shoah. L’importanza del non dimenticare gli orrori della Shoah, frutto di una scellerata volontà che ha spazzato mezza Europa, dovrebbe essere chiara a ognuno di noi. Milioni di ebrei, omosessuali, zingari, diversamente abili e resistenti, hanno trovato la morte nei campi di concentramento, nei lager appositamente realizzati dalla follia nazista per quel concetto di pulizia etnica che, solo a pensarci, fa venire i brividi.
Conosciamo tutti il resoconto della Storia. Non possiamo voltarci dall’altra parte e fingere che nulla sia accaduto. Eppure, ancora oggi ricordare non è semplice. Per due motivi fondamentalmente. C’è chi ricorda e ha ancora impressi in memoria gli orrori vissuti. E c’è chi sceglie di non ricordare, pensando che quanto accaduto non tocchi la sua esistenza. Ipocritamente, per un giorno all’anno tutti ricordiamo la Shoah con la Giornata della Memoria. Ma cosa facciamo concretamente per far sì che la Storia non ritorni?
Se ci guardiamo intorno, nulla. Osserviamo con indifferenza quello che è accaduto. Scorriamo le immagini come se appartenessero a un film. Ogni scatto o ogni ripresa video, come quelle straordinarie di Alfred Hitchcock, ci sembrano un lontano ricordo, una realtà riguardante un’altra dimensione.
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La Voce della Memoria
Chi ha avuto modo di visitare i campi di concentramento, invece, sa che la dimensione è la nostra. Varcando uno dei cancelli, si viene assaliti da un senso di angoscia che accompagna per tutta la vita. Lo sa bene Giuseppe Mazzola, fotografo palermitano che quei campi li ha visitati finora qualcosa come 17 volte. E non per semplice lavoro.
Giuseppe è spinto dall’esigenza di voler trasmettere a quante più persone possibili un’eredità che pesa e che non va dimenticata. La Memoria, oggi così labile, è rafforzata sdagli scatti che ha realizzato negli anni. Scatti che adesso diventano un prezioso docureportage, La Voce della Memoria, arricchito dalle testimonianze di chi ai campi e alla Shoah è sopravvissuto. Tra costoro, non si può non sottolineare la presenza di Eva Schloss, la sorellastra di Anna Frank ancora in vita, o quella di Vittorio Polacco, che porta sulle spalle il peso del rastrellamento al Ghetto di Roma.
Ho incontrato Giuseppe Mazzola quasi per caso. Eravamo a Palermo alla presentazione stampa di un romanzo pubblicato da Dario Mangiaracina e Veronica Lucchesi, meglio noti come La Rappresentante di Lista. In attesa che l’evento avesse inizio, Giuseppe Mazzola ha ricevuto una telefonata e nel silenzio generale non ho potuto fare a meno che sentire la conversazione. A chiamarlo era proprio Vittorio Polacco. Il trasporto, l’emozione, la passione e l’impegno mostrato da Giuseppe Mazzola mi hanno colpito. E ho deciso di contattarlo affinché la Giornata della Memoria, il ricordo della Shoah, non sia solo un’espressione di cui ci si riempie la bocca.
L’ho rivisto su appuntamento una domenica mattina sullo sfondo della Real Casina Cinese, a Palermo, e mi ha spiazzato. La Voce della Memoria, il suo docureportage, è qualcosa di unico, una testimonianza in fieri che è nata solo grazie alla sua determinazione. Non ha chiesto nessun fondo alle film commission, alla Rai o ai vari produttori. Non ha intenti commerciali, anzi ha messo mano al proprio portafogli. E senza rimpianto o rammarico.
Giuseppe Mazzola - Girando La Voce della Memoria
1 / 5Intervista a Giuseppe Mazzola
Lascio ora il campo alla conversazione con Giuseppe Mazzola, autore di La Voce della Memoria. Capirete cosa lo anima. Vivrete i tormenti che accompagnano il suo lavoro. Scoprirete chi ha incontrato. Nel condividere la sua perenne Giornata della Memoria, non potete non far vostri le sue linee guida: scelta, speranza e fiducia. E, a ogni suo scatto, dai campi sentirete quale brivido vi attraversa. È la voce di chi non vuole essere dimenticato. È la voce della memoria, che deve andare oltre una singola giornata della memoria per la Shoah.
- Da dove nasce l’idea di dedicarti a un progetto così toccante quanto importante per i tempi che viviamo?
Si tratta di un percorso che non nasce propriamente dalla Shoah. Ha avuto origine in quella fascia dell’età, l’adolescenza, in cui c’è un contesto che decide se tu sia giusto o sbagliato, la scuola. Ho ricordi molto vivi e influenti, ancora oggi, del fatto che io venivo considerato quello giusto, quello figo, quello carino. Paradossalmente, però, tutti coloro che diventavano i miei migliori amici erano sempre in qualche modo emarginati, bullizzati: l’amico sovrappeso, il ragazzino che comincia a mostrare una sessualità esplicita e “da che parte stare” …
A me, pur essendo tra i privilegiati, tutto ciò non portava giovamento: senza far nulla, ero quello ok mentre l’altro era sempre un gradino sotto. Mi faceva semmai star male: subivo di riflesso l’esclusione. Mi dispiaceva. Le sensazioni provate mi sono rimaste dentro. Mi dava fastidio che qualcuno decidesse per qualcun altro se fosse giusto o meno appartenere alla società.
Al liceo, nel 1999, ho poi vinto un concorso con la scuola e sono andato al campo di concentramento di Dachau, in Germania.
- Ricordi qual è la prima immagine che ti si è impressa nella mente?
Il cancello di Dachau. Non sono andato per mia scelta ma per il concorso scolastico. Andai con Tony Gentile, mio docente di fotografia noto per aver scattato la foto più nota dei giudici Falcone e Borsellino. Nello stesso istituto di grafica pubblicitaria insegnava anche la sorella di Falcone. Avevo intorno tutto un contesto di figure eticamente impegnate che avevano grande influenza, sebbene la scuola fosse una di quelle per cui, per cultura popolare, non saresti mai andato chissà dove. Ero allo Zen, uno dei quartieri più problematici di Palermo, in un ambiente quasi da film. La Giornata della Memoria per ricordare la Shoah non era stata nemmeno ancora designata.
Del viaggio ricordo che arrivammo carichi di emozione ma anche spaventati. Eravamo ragazzi, se vogliamo, ignorantelli che studiavano la Shoah sui libri o che si limitavano a guardare i film che passavano alla tv sull’argomento. Eravamo teoricamente preparati ma ignoravamo la vastità della tragedia. Vedevamo in prima persona ciò che era accaduto tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta. Mi sono ripromesso allora di ritornarci quando mi sarei sentito pronto, a livello personale, ad affrontare il dolore che emergeva a ogni angolo. E, quasi vent’anni dopo ho mantenuto la promessa, tornandoci nel 2017.
- E da quel momento non ti sei più fermato.
Ho girato l’intera Europa con i pullman. Polonia, Repubblica Ceca e Germania, vedendo con i miei occhi i campi di sterminio e di concentramento: Dachau, Auschwitz, Theresienstadt. E mi son detto: “Io non mi fermo più”. Nell’arco di quattro anni, vi sono tornato ben 17 volte sempre per approfondire un contesto che, al di là delle foto, avrei potuto approfondire anche da casa, a Palermo. Del cancello quante foto ti servono? Una, alla fine non cambia. Io dovevo invece tornare. A un certo punto, è subentrata in me l’ansia, l’angoscia, di rientrare a casa e avere la sensazione di non aver tutto sotto controllo. Di una condizione che, tutto sommato, nessuno di noi può controllare. La Storia è fatta di fatti, li studi, ne prendi atto ma finisce lì. È un po’ quando esci di casa e ti chiedi se hai chiuso l’acqua.
Sei sicuro che, voltando le spalle, è realmente tutto finito? Dovevo accertarmi che quel fatto di Storia fosse rimasto una storia finita, conclusa.
Giuseppe Mazzola
- Perché ansia?
Perché mi chiedevo: sei sicuro che, voltando le spalle, è realmente tutto finito? Dovevo accertarmi che quel fatto di Storia fosse rimasto una storia finita, conclusa. Mi sono pure domandato se stesse diventando un’ossessione. Se sei una persona onesta, il dubbio ti nasce. Ho dopo realizzato che il senso di urgenza che mi accompagnava deriva dalla situazione di emergenza che a livello etico viviamo.
La Voce della Memoria: Le toccanti immagini dai campi di concentramento
1 / 13- Come arriviamo al docureportage La voce della memoria?
Durante la pandemia da CoVid, ho fatto il punto. Dopo tutti i reportage fatti, non avevo più nulla da metter dentro a livello fotografico. Le strade erano due: o mettevo tutto in standby o trasformavo la mia dedizione in qualcos’altro. È nata allora l’idea del docureportage, mi piace definirlo così e non documentario perché non sono un regista. Ho cominciato a fare un paio di telefonate e a scrivere mail. Ho così conosciuto una persona fantastica: Federica Pannocchia, presidentessa di Un ponte per Anne Frank.
L’associazione è italiana ma Federica opera da Londra. Ha appoggiato sin da subito il progetto e mi ha anche fisicamente aiutato. Mi ha dato i contatti dei sopravvissuti alla Shoah, si è presa carico delle situazioni logistiche legate alla lingua e facendo da tramite mi ha permesso di dare il via ai lavori. Non ti nego che sono partito un po’ scoraggiato.
- Per quale ragione?
Mando avanti il progetto da solo e mi ritrovo sempre da solo.
È come se la gente si voltasse dall’altra parte e considerasse la Shoah solo come una cosa che non la riguarda da vicino, una cosa degli anni Quaranta.
Giuseppe Mazzola
- Il sentirsi solo nasce da una sensazione o dall’essere veramente solo perché nessuno supporta il progetto?
Ho dei punti di riferimento grandi, come Federica, che oggettivamente non mi lasciano solo. Quando ho cominciato il progetto ero già in contatto da tempo, per conto mio, con il Museo di Auschwitz, il vero e proprio corpo museale del campo di sterminio. Due anni e mezzo fa, il Museo mi ha anche permesso di fotografare il campo mentre era chiuso ai visitatori. Le mie foto sono anche entrate in alcuni pacchetti educational. Non ero però in grado, logisticamente, di muovermi con le interviste ai sopravvissuti, ai deportati. Non avevo contatti diretti. Federica è stata fondamentale.
Sono solo sul piano esecutivo, nelle cose di tutti i giorni. È come se la gente si voltasse dall’altra parte e considerasse la Shoah solo come una cosa che non la riguarda da vicino, una cosa degli anni Quaranta. “Nel 2020 nessuno mi viene a deportare. Sono italiano, non sono né ebreo né polacco”, è il pensiero comune. Non importa niente a nessuno, è un aspetto molto brutto.
Io non sono solo, lo so. Sarei uno stupido autolesionista nel dirlo. Oltre a Federica, ho il sostegno della Fondazione della Shoah, che mi ha messo a disposizione le sale per alcune riprese. E ho il supporto dei deportati: nel momento in cui scelgono di farsi intervistare, appoggiano il progetto e ne diventano parte. Però, è anche vero che, quando chiedo a qualcuno di aiutarmi ad attraversare la strada, nessuno ha voglia di interagire.
Del grande nome chiaramente mi importa anche perché senza Federica o senza Eva Schloss, la sorellastra di Anna Frank, l’intervista non potrei farla. Io vorrei arrivare alla gente ma il fatto che questa si volti dall’altra parte mi scoraggia. Anche se, al contempo, mi fornisce un’ulteriore spinta per andare avanti: se ci fosse la giusta sensibilizzazione sul tema, non ci sarebbe bisogno di La voce della memoria. Se la gente se ne frega, vuol dire che ancora qualcosa gliela devi spiegare. La Shoah non è stata un errore, è stata frutto di una volontà. La memoria va tramandata per far sì che la gente abbia la facoltà di scegliere. Il presupposto che vada tramandata per non ricadere nell’errore è sbagliato.
- Scelta è una parola che ritorna spesso nelle note di intenzione di La Voce della Memoria, disponibili nel tuo blog personale.
La scelta è lo strumento più grande che abbiamo, la più grande manifestazione di libertà di cui siamo dotati. Un uomo che può scegliere è un uomo libero. La Shoah non ha lasciato scelta.
Accanto a “scelta”, aggiungerei una nuova parola che ho imparato: speranza. L’avevo totalmente sottovalutata. L’ho imparata grazie a Eva Schloss, la sorella di Anna Frank. Nella sua autobiografia, After Auschwitz, tradotta in Italia con il titolo di Sopravvissuta ad Auschwitz, usa sempre la parola “speranza”, che non vuol dire gettare la spugna. Sperare sembra quasi un atto di vigliaccheria che lascia tutto al caso. Eva mi ha invece spiegato che la speranza è invece l’unico strumento che hai quando le forze ti abbandonano: “senza la speranza, io sarei morta”, mi ha detto.
Un ragazzo dell’Istituto Pacinotti Archimede, in cui sono stato per un convegno sull’argomento, mi ha invece insegnato il valore della parola “fiducia”. Quando gli ho chiesto se ci fosse una parola chiave, mi ha spiazzato. “Io ho la speranza, però, mi fido dei miei amici, della società, del futuro. Mi fido della gente e so che ce la faremo”, è stata la sua risposta.
Devi fotografare il mio tatuaggio perché tu sei la mia eredità.
Sami Modiano
- Come hai scelto gli intervistati del tuo docureportage, La Voce della Memoria? Avevi già i nomi in mente per questa tua personalissima Giornata della memoria per la Shoah?
Federica mi ha aiutato con i contatti. I nomi non erano stabiliti a priori. L’unica persona che avrei voluto intervista ma che poi non ho intervistato, l’ho solo incontrato, è Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz. Non sta molto bene, ha quasi 94 anni. Carinamente, ci siamo incontrati per un caffè che è durato un’ora e quaranta: questo fa capire quanto la sua volontà di non essere intervistato sia dipesa da perché, fisicamente, non se la sentiva. A un certo punto dell’incontro, mi ha detto: “Devi fotografare il mio tatuaggio perché tu sei la mia eredità”.
- Incontri nomi come Vittorio Polacco, Emanuele di Porto (vittime del rastrellamento del Ghetto Ebraico di Roma), Eva Schloss (sorellastra di Anne Frank, sopravvissuta a Birkenau) e altri che hai ancora in programma. Ma anche i ragazzi dell’Istituto Pacinotti Archimede di Roma. Quale sarà la destinazione del docureportage?
Quale vorrei che fosse? Le scuole, i ragazzi, le fondazioni.
- Tra gli incontri che hai fatto, quale ti ha colpito particolarmente?
Tutti. E non lo dico per essere politicamente corretto. Ognuna delle persone incontrate mi ha trasmesso qualcosa. Vittorio Polacco è un bambino mai cresciuto, quel bambino che si nasconde dalle SS o, comunque, dalla polizia fascista prestata alle SS. Eva Schloss è una donna che ha fatto pace con tutto. Emanuele Di Porto è un uomo che ha in sé la consapevolezza del dover tramandare tutto: ha un rigore e una nobiltà che lo portano a raccontare la sua storia come se fosse un abito, l’abito della domenica.
Tutte le figure che ho intervistato, come Federica Pannocchia o Lisa Shames, sono tutte persone che portano sulle proprie spalle la consapevolezza del debito. Tutti noi abbiamo un debito con i sopravvissuti ma anche con quelli che non ce l’hanno fatta: lo dobbiamo riscattare.
Hanno in comune un aspetto che colpisce: sono grati alla vita.
Ci sono stati ovviamente dei momenti molto particolari. Quando ho chiesto a Eva Schloss se avesse ancora la Leica di Otto Frank, non mi risposto né sì né no. Si è alzata e andata a prenderla. Me l’ha fatta tenere in mano e l’emozione è stata forte. Avevo tra le mani quello strumento che ci ha permesso di avere le uniche testimonianze fotografiche di Anna Frank. Un fortissimo ponte tra quello che è stato e quello che possiamo percepire oggi della storia del Diario e di quella pagina di Storia dell’Umanità.
Così come forte per me è stato l’abbraccio con Sami Modiano, un uomo che, pur non andando in video, mi ha concesso quasi due ore di confronto.
- La Leica di Otto Frank ha chiaramente per te anche un altro significato. La fotografia è la tua ragione di vita. Quando è nata in te la passione per la fotografia?
Al liceo. È nata da un tormento, un tormento generazionale per ammorbidire il termine: la classica ricerca di un linguaggio per esprimersi. Da autodidatta, ero bravissimo a disegnare. A 14 anni disegnavo parecchio e avevo incontrato Michael Jackson. Ma rimanevo sempre quel ragazzino umile che voleva rimanere a scuola allo Zen. Il disegno, però, non era immediato, non mi permetteva di esprimere tutto ciò che sentivo. Conoscendo a scuola Tony Gentile, ho capito che la fotografia era ed è il mio linguaggio. Ti permette di scegliere come muoverti, in che modo farlo e quando farlo. E, poi, la fotografia è talmente onesta che non puoi plagiarla più di tanto. Puoi ingannare l’ignorante. La fotografia è immediata, più del video. Quando la scatti, non ne hai più il controllo. La fotografia fa di te padrone ma anche strumento.