Napoletana doc, Giovanna Rei è da poco tornata al cinema nelle vesti di attrice con il film Quel posto nel tempo. Firmato da Giuseppe Alessio Nuzzo, Quel posto nel tempo si affida al grande Leo Gullotta e alla brava Giovanna Rei per raccontare una storia delicata con al centro un professore di musica affetto da morbo di Alzheimer. Giovanna Rei interpreta la moglie del protagonista ed è la sua scomparsa che determina un’evoluzione tra il marito e la loro figlia, mettendo in scena un delicato rapporto padre-figlia.
Ma di Quel posto nel tempo Giovanna Rei è anche coproduttrice. Per la prima volta, Giovanna Rei ha voluto fare un passo in più e cimentarsi con un ruolo solitamente maschile, rompendo quasi un tabù: non è infatti facile cimentarsi con una professione e un mondo che da sempre sono fortemente maschili e maschilisti. Ed è dalle dinamiche che si celano dietro alla produzione che con Giovanna Rei abbiamo portato avanti un’intervista esclusiva a tutto tondo legata alla sua sfera professionale ma anche privata.
Con Giovanna Rei, diciamolo subito, abbiamo affrontato il capitolo molestie senza girarci intorno. Come ricorderete, è stata tra le pochissime attrici italiane a parlarne pubblicamente e a subire un’ondata d’urto pericolosissima: quella della mancata solidarietà, soprattutto femminile. Su di lei sono piovute parole che francamente rabbrividiscono. Oggi, a distanza di anni, Giovanna Rei parla delle motivazioni che l’hanno spinta a rendere pubblica la sua vicenda e non sono quelle che tutti si aspettano.
Ma quello con Giovanna Rei è stato anche un incontro molto delicato. È venuta fuori tutta la sensibilità di una donna che sin da quando era piccola ha dovuto fare i conti con le difficoltà della vita, a cominciare da un padre assente e dall’ennesimo stigma da abbattere: essere bella non vuol dire essere scema. Abbiamo discusso del suo impegno sociale, delle sue prime volte, degli amori naufragati, della fede e, persino, della maternità. Senza tirarsi mai indietro, Giovanna Rei con solare vulcanicità fa un bilancio del suo percorso, consapevole di non potere mai dimenticare l’esperienza di Camera Café o quella timidezza che non l’ha mai abbandonata.
Intervista esclusiva a Giovanna Rei
Quel posto nel tempo è il film che ti vede protagonista in questi giorni al cinema al fianco di Leo Gullotta. Il film narra la storia di professore di musica alle prese con il morbo dell’Alzheimer e con il complicato rapporto con la figlia. Tu interpreti Amelia, la moglie del professore, colei che con la sua “presenza assenza” determina gran parte dello svolgimento narrativo.
Mi era arrivata la sceneggiatura scritta da Giuseppe Nuzzo, il regista del film che aveva deciso di partire da una sua esperienza personale. Ha vissuto per molti anni con la nonna in casa, accudita dalla madre, e ha potuto toccare con mano gli effetti dell’Alzheimer. È una malattia che da sempre ha interessato tutte le famiglie, solo che adesso si dà un nome preciso a quello che un tempo veniva considerato semplice deterioramento sia del corpo sia della mente.
Della sceneggiatura mi ha colpita il racconto del dolore del protagonista ma anche di chi gli sta intorno. In particolar modo, ha fatto presa su di me il legame tra il protagonista e la figlia adulta. Sin da piccola, ho una certa sensibilità: mi accorgevo di tutto quello che accadeva e soffrivo per alcune cose spiacevoli che sono accadute, come la mancanza di mio padre. Non potevo non rivedermi in qualche modo nella figura di Michela, la figlia che rinfaccia al padre protagonista la sua assenza.
Cosa rappresenta per te il cinema?
Il cinema in qualche modo è stato il mio grande maestro di vita, per tutto. Ho avuto una madre che, molto giovane, si è ritrovata a crescere da sola due figlie. Quando sono nata io, mia madre aveva solo 18 anni e in qualche modo siamo cresciute insieme, anche lei doveva prendere le misure con la vita. Il cinema mi ha aiutata, è sempre stato il mio rifugio. Ancora oggi, quando devo fare qualcosa che non mi piace, metto su un film per buttare giù la pillola. Spesso rivedo anche film che ho già visto decine di volte e mi stupisco sempre di intravedervi qualcosa di nuovo, soprattutto se si tratta di film di qualità.
Attraverso il cinema ho imparato anche a capire come funziona la psiche umana, a entrare nella testa dei personaggi. Ma mi sono appassionata anche all’arredamento, all’architettura, alla moda e al trucco. Tutte le mie più grandi passioni si racchiudono nel cinema e girano intorno a un film. Al cinema devo tanto, mi ha fatto veramente da scuola. È come se mi sentissi in debito nei suoi confronti.
Del film, sei anche coproduttrice, un ruolo per te inedito e come sempre difficile per una donna.
Una delle funzioni del cinema è quella di puntare un faro su determinati argomenti e portarli all’attenzione di tutti. Ecco perché quando ho avuto tra le mani la sceneggiatura di Quel posto nel tempo ho capito che era arrivato il momento di cimentarmi con la produzione. Insieme all’altro produttore, ho cercato personalmente tutti gli sponsor andando da quegli imprenditori che potevano avere una certa sensibilità verso il tema trattato. Ma non è stato semplice: all’inizio, tutti dicevano di sì ma quando si trattava di mettere mani al portafoglio scomparivano.
Sono ormai a un punto della mia vita in cui non mi importa molto dei giudizi e quindi posso dirlo tranquillamente: viviamo in una società in cui si fa ancora fatica a riconoscere che le donne hanno voce in capitolo, hanno intuizioni, abilità ed esperienza. Da donna devi faticare il doppio ma ormai ho capito come funziona il gioco. Spesso mi affianco professionalmente a degli uomini ma sono solo di facciata: fondamentalmente, decido e scelgo io.
Quel posto nel tempo: Le foto del film
1 / 73Nel tuo caso ti porti anche dietro lo stigma dell’essere una bella donna.
Esatto. E il parallelismo è il solito: bella per molti equivale a sciocca per non dire altro. Lo stereotipo nella testa delle persone è duro a morire, è ancora molto vivo. E l’ho provato personalmente quando ho raccontato la mia personale esperienza con Weinstein, il produttore americano condannato per abusi e violenze. L’ho fatto non per cercare pubblicità ma per mettere in guardia soprattutto le ragazze più giovani o inesperte.
Chi va in televisione ha il compito di trasmettere un messaggio: ricordiamoci che una delle funzioni della tv è quella di educare e di informare. La mia testimonianza nasceva da un senso di protezione, di affetto e di solidarietà rivolto a qualcuno di più debole o meno esperto. Era per dire: “Ragazze, state attenti: non è cedendo alle avances che si fa carriera, esiste la possibilità di muoversi diversamente”.
E di criminali ce ne sono tanti, come dimostra anche la cronaca recente di chi adescava ragazze su Facebook per fantomatici provini. Non è quello il metodo. Esiste un modus operandi sicuro: si va da un agente e l’agente a sua volta con i suoi contatti ti procaccia lavoro. Le figure professionali vanno rispettate: non dobbiamo cedere alla mania di onnipotenza che sembra aver pervaso il mondo anche per colpa dei social. Non arriva tutto e subito, occorre la gavetta e affidarsi alle mani giuste.
In quel caso, ti ha fatto male la mancata solidarietà femminile?
Tantissimo. Mi ha ferito la cattiveria, anche questa figlia dei social che ci hanno fatto credere che dobbiamo avere un giudizio o un parere su tutto. Quelle che prima erano le chiacchiere da bar ora si sono trasformate in chiacchiere da social, amplificate purtroppo in negativo. Hanno agito alla stessa maniera un po’ con tutte quelle donne che denunciavano o raccontavano. Ironicamente posso dire che non ce l’avevano con me.
Non sono una santa e non volevo passare per te. Se mi capitasse una certa sintonia con un regista o con un produttore, non mi farei scrupoli a vivermi con lui una serata. Non giudico chi va volontariamente a letto con qualcuno e non giudico nemmeno chi può “dare una mano”. Io condanno l’imposizione, l’aut aut. Non bisogna mai forzare le situazioni o cedere contro la propria volontà: ci si potrebbe portare dietro un trauma con cui fare i conti per tutta la vita.
Mi hanno all’epoca tacciata di bigottismo… è vero che mi piacciono le regole sociali ma perché indicano rispetto verso il prossimo o educazione. Non possiamo certo svegliarci al mattino, uscire nudi per strada e fare quello che vogliamo: dobbiamo ricordarci che la nostra libertà finisce nel momento in cui inizia quella degli altri.
Ma nel corso della tua carriera sono stati tanti i casi in cui ti sei mostrata vicina ai giovani. Non posso non ricordare che hai posato per il calendario del grande fotografo Bruneau contro i disturbi del comportamento alimentare. Cosa ti ha portata a maturare questo senso di protezione?
Come dicevo prima, la mia non è stata un’infanzia facile. Ho dovuto capire molto in fretta come funziona la vita. Riguardando indietro, se mi chiedessero cosa mi è mancato di più, non ho dubbi: non essere stata bambina, non mi è stato permesso. E questo mi ha fatto sviluppare quel senso di protezione che mi accompagna. In casi come il mio, due possono essere le reazioni: o ti indurisci o ti ammorbidisci a tal punto che vorresti salvare il mondo.
A me è accaduta la seconda cosa, non riesco nemmeno a uccidere un insetto in casa! Non vuol dire che non sappia arrabbiarmi o mordere quando la situazione lo richiede. Spesso mi arrabbio proprio perché dietro ho tanto dolore, delusione e disagio. Non ho mai avuto tante figure di riferimento, non ho avuto qualcuno pronto a tendermi la mano quando ne ho avuto bisogno: non è facile chiedere aiuto, spesso ti sbattono solo portoni in faccia. Ecco perché tendo a proteggere chi è in situazioni di difficoltà: so cosa si prova.
Sei sempre stata una persona molto timida. Come si concilia la timidezza con la recitazione?
La recitazione per me è stata la terapia alla timidezza. All’interno del metodo Stanislavskij c’è anche la psicoterapia: il lavoro su di sé è alla base del lavoro attoriale. Devi fare un grosso lavoro su di te e andare a toccare tutti i tuoi punti oscuri. L’obiettivo è quello di liberarsi di tutti quei blocchi che ti attanagliano. Ricordo che quando da giovanissima dovevo parlare in pubblico, sebbene venissi dal classico e mi esprimessi “bene”, era un problema. I primi debutti a teatro sono stati disastrosi: mi mancava la voce! Solo pian piano ho cominciato a prendere sicurezza.
E, poiché non ti piacciono le cose facili, hai esordito con un film che facile non era: L’ultimo Capodanno.
Un film che non venne apprezzato dal pubblico e che oggi è un cult considerato avveniristico. Quando uscì, l’Italia non era ancora pronta ad accettare il pulp, lo si considerava un’americanata.
Com’è stata la prima volta che sei andata su un set?
La sera prima mi è venuta la febbre a 38 per l’emozione.
E la prima volta in cui hai detto a tua madre che volevi fare l’attrice?
Non era particolarmente contenta. Avevo una certa predisposizione per l’architettura e, conoscendo il mio carattere, era convinta che quello d’attrice non fosse il mestiere adatto a me. Da piccola, cambiavo continuamento l’arredamento in casa, costruivo casette e le arredavo. Ma, contemporaneamente, curavo la regia delle scenette con i miei cugini a Natale e ne scrivevo i testi. Secondo lei, far l’architetto mi avrebbe risparmiato certe dinamiche sociali e mi avrebbe permesso maggiore indipendenza: sarei stata più autonoma e avrei gestito io il mio spazio lavorativo.
Non parli mai, per ovvie ragioni, di tuo padre.
Non ho mai avuto rapporti con lui. Nella mia vita non ho mai provato invidia per niente o nessuno, tranne che per i bei rapporti che si instauravano tra i padri e le figlie. Mi è mancata una figura di riferimento che potesse darmi consigli o protezione. Alla lunga, ciò mi ha fortificata e mi ha permesso di autogestirmi. C’è sempre il rischio che la troppa protezione porti difficoltà ad auto proteggersi.
Com’è stata, invece, la prima volta che hai detto a un ragazzo che facevi l’attrice?
Il mio lavoro è sempre stato un deterrente per le relazioni, soprattutto se l’altro non faceva parte dell’ambiente comunque dello spettacolo. Il mio mestiere da un lato ti dà un certo glamour e affascina. Però, poi, ha un risvolto negativo: la gelosia su chi vedessi, su cosa facessi o con chi tradissi. Non si capisce perché ma secondo molti l’attrice ha una certa attitudine al tradimento. E tutte le mie relazioni sono finite perché a un certo punto non riuscivano più a convivere con questa spada di Damocle sulla testa.
E la prima volta in cui hai pensato di avercela fatta come attrice?
È una sensazione che non ho mai avuto. Ho sempre mirato ad alzare l’asticella: finire di imparare è impossibile, ho sempre cercato di migliorarmi. Posso però dirti quando ho avuto la consapevolezza che avrei potuto farcela: quando sono stata scelta per il ruolo da protagonista in Anni ’50.
Carlo Vanzina mi fece una serie di provini e non sapevo nemmeno come fossero andati. Doveva partire per le vacanze con la famiglia e rimandò il responso a quando sarebbe tornato. Non avevo idea di quanto sarebbe rimasto fuori ma dopo un mese pensavo ormai di non essere stata scelta. Quando non ci credevo più, è arrivata la sua telefonata: “Pronto, Carmela?”. È stato il suo modo per farmi capire che ero stata scelta. Carlo era un uomo eccezionale a cui vorrò bene per sempre e che sia felice nell’aldilà.
Sei credente?
Io credo molto. La fede mi ha aiutato tanto nella vita, Dio è sempre stato presente forse perché conosce la parte più profonda di me sin da quando sono nata. Tutte le volte in cui ho provato ad allontanarmi da lui per rabbia, in qualche modo mi ha cercata e riavvicinata a Sé.
E come si fa a conciliare la fede con i diritti civili? Non entrano in contrasto?
Ho sviluppato un pensiero molto personale. Sono convinta che non tutto ciò che è scritto nella Bibbia rifletta la volontà di Dio. Il testo va personalizzato e fatto proprio. Non sono d’accordo, ad esempio, sul fatto che due persone dello stesso sesso non possano amarsi: dove sta scritto? È cattiveria usare il nome di Dio per vietare l’amore. È una manipolazione dell’uomo: Dio ha sempre e solo diffuso l’amore in maniera incondizionata e universale. Ho frequentato per tanto tempo associazioni religiose e non mi ritrovavo in tutto ciò che sostenevano: avevo fatto uno studio personale della Bibbia e nulla di ciò che dicevano si sposava con le mie idee e il mio pensiero.
Ai giovani va ricordato che occorre sempre farsi una propria opinione e avere gli strumenti per farsela. Leggere tanto aiuta a sviluppare un proprio pensiero, altrimenti si corre il rischio di diventare burattini in mano agli altri.
Quanto ha influito il tuo lavoro sul desiderio di maternità?
Difficile dare una risposta. Se non sono diventata madre non è solo per il lavoro. C’è dietro tutta una mia condizione personale: non mi sono mai sentita pronta al 100%. C’era sempre qualcosa che non andava. Ora che il mio orologio biologico è quasi al limite, però, il desiderio di maternità è molto forte.
Stai per raggiungere un traguardo anagrafico importante. Hai fatto un bilancio personale dei pro e dei contro?
Il passare dell’età rappresenta l’andare incontro a una stagione meno favorevoli per il nostro fisico ma al contempo porta a una stagione migliore per la nostra mente. Occorre trovare sempre un giusto compromesso tra mento e corpo senza mai dimenticare che diventare vecchi è un’opportunità che la vita ci dona.
Hai qualche rimpianto da un punto di vista lavorativo?
Il non aver accettato il cinema d’autore quando mi si è presentato. Non perché non mi piacesse: semplicemente, perché cercavo la spensieratezza. Assecondavo una certa mia inclinazione per la commedia. Anche se ho accettato quasi sempre progetti a cui sulla carta non credeva quasi nessuno, come Elisa di Rivombrosa. La serie è stata un successo enorme ma nessuno inizialmente voleva produrla, temevano che la fiction in costume non funzionasse. Mi sono sempre ritrovata in progetti borderline, per cui non c’era molto accanimento da parte degli altri!
Sei consapevole che per tanti resti sempre la Giovanna di Camera Cafè?
Per i tanti che hanno un certo livello culturale, in verità. Perché Camera Café si rivolgeva principalmente a un pubblico adulto colto e a un pubblico di giovanissimi. I bambini ne coglievano l’accezione “cartoon”: tant’è vero che quei bambini di allora oggi cresciuti mi fanno emozionare quando li incontro. Bisognava avere una certa intelligenza e sensibilità per entrare nel modo di Camera Café. Ma anche sarcasmo e senso dell’ironia, qualcosa che non tutti riescono a cogliere quando soprattutto si prendono troppo sul serio.