Dallo scorso 17 marzo è possibile ascoltare Retrò (La Canzonetta Record/Self/Believe), l’album che segna il ritorno musicale di Giovanni Block. Cantautore napoletano con alle spalle tre album e numerosi riconoscimenti, Giovanni Block affida a dieci tracce (più una ghost track) il compito di rivendicare, tra disillusioni e speranze, il suo diritto di slegarsi dalle mode e seguire un percorso artistico che è anche stile e filosofia di vita.
Anziché appiattirsi a ciò che il mercato o le classifiche di Spotify impongono, Giovanni Block sceglie l’acustico, come gli ha insegnato il suo maestro, per alimentare una creatività senza vincoli e senza tempo. Con richiami alla tradizione dei grandi cantautori degli anni Ottanta, Giovanni Block racconta nelle canzoni esperienze di vita vissuta, accompagnate da ricordi, pensieri e riflessioni, facendosi portavoce di una generazione come la sua, non ancora troppo adulta ma nemmeno così giovane.
Per entrare nel mondo di Giovanni Block, dissacrante ma anche cinico, cupo ma sempre vivo, lo abbiamo intervistato in esclusiva mirando a conoscere sia l’artista sia l’uomo. In attesa di sentire come suona dal vivo Retrò le sere del 31 marzo (Napoli, foyer del Teatro Bellini), del 04 aprile (Napoli, Piccolo del Teatro Bellini) e 6 aprile (Roma, L’Asino che Vola).
Intervista esclusiva a Giovanni Block
Uno che come te nasce nel 1984 si considera già retrò?
Se ci pensi, siamo una generazione scomparsa dai radar. I nati tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta sono considerati eternamente giovani dia genitori e boomer dai ventenni di oggi, che poi perché si usi “boomer” non l’ho ancora capito dal momento che non abbiamo vissuto il boom economico. Sebbene la parola “retrò” faccia pensare alle orchestrine anni Trenta, i veri retrò oggi siamo noi.
E da retrò avanzi il diritto a slegarsi dalle mode. Da quali?
Ogni volta che mi ritrovo con gli amici, questi mi chiedono perché non faccia un disco con le sonorità di oggi, con la musica elettronica. Ma vi pare che uno che ascolta da una vita Gaber, De Andrè o Guccini, e che ha letto Pavese, Quasimodo o Ungaretti, si metta a fare musica elettronica o trap? Se i miei modelli sono quelli, a quelli aspiro e non al mercato solo per vendere qualche copia in più o piacere ai ventenni… io desidero semmai raccontare ai ventenni cosa ho letto, non voglio assecondarli: il mio modo per incontrarli è raccontare loro cosa c’è stato nella mia adolescenza.
Però, per avvicinarti ai ventenni o, comunque, ai giovani di oggi, usi molto i social, fronte nel quale sei particolarmente attivo soprattutto per quanto riguarda i reel appositamente realizzati…
Beh, noterai che i miei outfit sono lontani da quello che è il mondo dei social. Le interviste di uno degli ultimi reel sono state fatte indossando un cappello che sembra quello di mio nonno! Però, tutto sommato, i social sono mezzi utili se usati per qualcosa che appartiene per davvero e senza finzione. Io cerco di essere quanto più naturale possibile perché ho sempre coltivato e coccolato la mia persona e non il mio personaggio.
Fermarsi, sognare e sperare sono tre verbi che nella tua poetica vanno molto a braccetto. Perché è importante metterli in pratica?
È molto importante. Basti considerare che mi sono fermato e ho investito in un disco come Retrò che, pensandoci, è in pratica un suicidio: ha delle probabilità di vendita non altissime, eppure spero e sogno che possa arrivare a emozionare quante più persone possibile. È un sogno trovare qualcuno che abbia voglia veramente di ascoltare ciò che ho da dire o raccontare, o farsi spazio nel cuore dei miei coetanei, delle persone più grandi o di quelle un po’ più piccole. Creare un’alternativa è il mio sogno e spero che possa avere respiro.
Scegli di come carta di identità di Retrò, come copertina, una tua foto di quando avevi quattro anni…
Ero alla comunione di mia sorella. Indossavo quella cravatta che mi rendeva particolarmente orgoglioso: matrimoni e comunioni sono per noi napoletani cerimonie sacrosante! Ero pronto, tutto bello e incravattato, per il radioso futuro che gli anni Duemila mi avrebbero regalato. La scelta di quella foto è un modo ironico per abbracciare quel bambino e dirgli che tutto sommato poteva andarci anche peggio: ne abbiamo superate tante!
Quali sono le tante che avete superato?
Non penso di dire nulla di diverso rispetto all’esistenza di ognuno di noi: tutti ne abbiamo superate tante, tu che me lo chiedi ma anche chi legge. E tutti possiamo abbracciare il nostro bambino interiore per dirgli che siamo ancora qua, nonostante tutto: c’eravamo quando è crollato il mercato nel 2007 e c’eravamo quando il precariato ci è crollato addosso come un’accetta e… ci siamo ancora oggi che si vive un periodo non proprio florido.
Il disco si apre con Sposami sul mare con una citazione quasimodiana di Ed è subito sera…
Ma anche con una citazione di Ennio Morricone che arrangia Gino Paoli… L’apertura con quella canzone non è casuale: in qualche modo, apro il cuore al pubblico dicendogli “Ragazzi, questo disco parla di noi che, nati tra il ’80 e l’80, abbiamo preso un sacco di schiaffi. Quindi, sedetevi, mettetevi comodi con un bicchiere di vino in mano perché ho tante storie da raccontare. State seduti ad ascoltare così come facevamo quando da bambini ci raccontavano qualcosa”.
E qual è stata la storia che ti raccontavano da bambino che più ti affascinava?
A me piaceva tantissimo Peter Pan. E, tutto sommato, sono rimasto un po’ fregato dall’idea dell’eterno bambino.
Perché fregato?
Perché ti ritrovi nella condizione cantata in Sposami sul mare: “con un impiego borghese che divora i meriggi ed è subito sera”. Sono anche un professore e vivo la mia vita artistica barcamenandomi tra principi che devo trasferire ai miei allievi e quel sogno perenne che è la musica. Forse ho trovato un giusto equilibrio però sicuramente il Peter Pan che è dentro di me vorrebbe spiccare il volo insieme alla sua ombra e dileguarsi. E, invece, non può farlo: è ancora all’impiego.
Insegni musica a 360°, confrontandoti con allievi appartenenti a generazioni differenti…
Forse è anche questo uno dei motivi per cui sono approdato a Retrò: c’è quella voglia di raccontare in musica quello che cerco di trasferire a lezione sia al bambino sia al ventenne. Ho sempre voglia di raccontare quei mondi altri che stanno scomparendo. In un’epoca in cui i testi stanno diventano sempre più fluidi e scarni e la musica sempre più rarefatta, ho voglia di raccontare che esiste anche altro da far proprio.
E come accolgono i tuoi insegnamenti?
Dipende da chi c’è dall’altro lato. Il ventenne ha le antenne più aperte ma anche il bambino si lascia coinvolgere se viene preso nel verso giusto dalla bellezza universale di certe canzoni. La guerra di Piero, ad esempio, non ha età e non conosce distinzione di gusto: ti arriva e ti entusiasma perché non ha tempo ed è su quel non avere tempo dell’arte che fondo tutto il mio pensiero.
La parola guerra è una delle ragioni che ti porta a scrivere anche una canzone come Vi odio…
Il mio odio vero è più un inno all’amore: il mio odio per l’indifferenza si trasforma in amore per l’umanità. Sostanzialmente, il grido di odio è l’ultimo grido d’amore.
Altri grandi temi sociali tornano in 35, in cui si fa un parallelismo tra la vita di un operaio e quella di un calciatore milionario. Com’è nata?
Un pomeriggio, scrollavo la bacheca di Facebook quando mi sono imbattuto nella stessa home su due link tra loro molto differenti: da un lato, la notizia di un ragazzo di 18 anni caduto mentre faceva un lavoretto di otto ore per 35 euro, e dall’altro, quella dell’acquisto di un grande calciatore per 105 milioni di euro. “Ma ci rendiamo conto? Viviamo in un momento storico in cui lo stesso giorno uno campa con 105 milioni e l’altro muore per 35 euro”: ho sentito allora il bisogno umano e artistico, non cerco sociologico, di fotografare una situazione assurda che ci facciamo passare per buona tutti i giorni. Ne racconto la storia anche a teatro: occorre ritornare a dibattere e discutere, qualcosa che non si fa più, retrò.
E retrò è anche il sapore della memoria che canti, insieme a Petra Magoni, in La ballata dei ricordi. Quali sono i ricordi a te più cari?
La ballata dei ricordi è una canzone principalmente dedicata ai grandi amori della vita. Tutti ne abbiamo avuto almeno uno e tutti siamo stati qualcuno che non siamo più. La domanda che pongo a delle ipotetiche ascoltatrici è “Ti ricordi di me e di te? Ti ricordi di ciò che eravamo? È possibile continuare ad esserlo?”. I ricordi sono parti di noi che sono andate per sempre: anche i più brutti o tristi ritornano sempre con una veste nuova… basta che ci mettano malinconia che in qualche modo ci piacciono.
Mentre i brutti ricordi sono qualcosa da far spazzare via a un temporale estivo, come canti in La pioggia nell’orto in coppia con Attilio Fontana.
La canzone è nata il giorno in cui mi hanno comunicato che Lucio Maria Lo Gatto, il mio maestro di composizione al conservatorio a cui è dedicato l’intero album, era morto all’improvviso. Ho ricevuto la telefonata durante un temporale in Umbria mentre osservavo l’orto curatissimo di un mio amico. Mi è subito venuto in mente quel “piove” di dannunziana memoria, solo che non ero né o con Ermione e nemmeno in un pineto ma davanti ai pomodori… perdere un maestro è sempre butto: un maestro come Lo Gatto non tornerà più, devo a lui se scrivo gli archi o immagino la musica delle mie canzoni in un determinato modo. E per cantare la canzone ho scelto un amico, Attilio Fontana, che ha la giusta sensibilità per capire i miei momenti di sofferenza.
I maestri sono quelli che ti tramandano qualcosa. Cosa ha tramandato a te Lo Gatto?
È stato lui a spingermi verso la mia musica. Un giorno gli chiesi cosa rendesse la musica immortale. Guardandomi, mi risposte: l’acustico. Ogni volta che qualcuno mi sprona a fare un disco elettronico, mi rimbombano in testa le sue parole: l’acustico dura per sempre. Tutto è cominciato per colpa sua: se non fosse stato per lui, non staremmo neanche qui a parlare del mio lavoro.
In La meritocrazia racconti di un mondo splittato in due: quello della preparazione, tramandato dai nostri genitori o dai maestri, e quello di oggi, “a cazzo di cane”. Credi che non esista meritocrazia nel tuo ambito lavorativo?
Credo che la meritocrazia sia una chimera a cui ci hanno abituato dal punto di vista sociale e che non esisterà mai così come non è mai esistita. È una grande bugia e quindi è simpatico guardarci finalmente negli occhi e con un sorriso cinico dirci che ci siamo fatti il culo per niente. Non possiamo sempre soffrire per questa cosa e quindi diciamocelo ridendo, esorcizzandola e ritornando a riprendere gli insegnamenti di Gaber: iniziamo a non insegnare ai bambini la nostra morale, stanca e malata. Cerchiamo di non tramandare sui nostri figli il concetto di “preparazione”, liberiamoli dalle favole che si vendono su misura.
A te quale favola hanno venduto su misura?
Forse proprio quella di Peter Pan, mannaggia a lui! Ma anche quella di Robin Hood e del suo essere a tutti i costi paladino e buono: a un certo punto, sarebbe meglio smettere di combattere per salvare il villaggio, sedersi sotto l’albero con un bel bicchiere di grappa e guardare gli avvenimenti.
Tu sei stato mai travolto dagli avvenimenti?
Tutta la vita. Pensa che proprio adesso, alla vigilia dell’uscita del mio disco, è saltato l’accordo tra la Siae e Meta: non si può usare la musica nelle storie di Instagram o nei reel quando m’ero fatto tutto un piano che mi sarebbe tornato utile!
Molto probabilmente i gatti sapranno darti una soluzione. Il riferimento è ovviamente a I gatti lo sapranno, la decima traccia che chiude il disco (prima della bonus track) e cita Cesare Pavese.
I gatti hanno sempre una soluzione. E poi ricordiamoci che si muore: qualunque problema ci travolga, verrà la morte e avrà i tuoi occhi, per dirla à la Pavese.
E di chi saranno questi occhi per te?
Di mia moglie. Attualmente, di mia moglie, poi vediamo che succede (ride, ndr)…
Da dove nasce tanto amore per Cesare Pavese?
È un amore che paleso in tutto il disco con tante piccole citazioni ma non solo di Pavese: cito Montale, Quasimodo, Dante… e poi alla fine do spazio a Pavese con la sua opera postuma: lo reputo un gigante della poesia. E visto che il disco si apriva con un gigante della musica come Morricone ho voluto chiuderlo con un altro gigante.
Di amore parli in L’amore è un veliero. Cos’è l’amore per Giovanni Block?
L’amore è quella cosa che ci salva sempre. Non ha un viso e un nome preciso. È quell’energia che salva l’uomo nei momenti più duri: è una forza salvifica.
Da cosa ti ha salvato?
Da me stesso. Ma la cosa che mi fa più paura di me stesso è proprio quel bambino che ho messo nella copertina di Retrò con le sue aspettative, i suoi sogni, le sue paure, i suoi terrori e le sue ansie.
Cosa sognava quel bambino?
Che stavamo tutti insieme, che eravamo tutti felici, come se il mondo fosse stato un grande lettone su cui giocare a far cuscinate. Poi è cresciuto e si è reso conto che non era esattamente così.
Com’è stato per quel bambino crescere a Napoli?
Quel bambino è nato e cresciuto nel quartiere di Avvocata Montecalvario. È stato facile ma anche un po’ difficile: chiamarsi Giovanni Maria Block non l’ha agevolato. Già l’appello a scuola era un problema: diciamo, con una battuta, che grossomodo ho inventato io il bullismo. Potrei scrivere libri e libri sul bullismo subito per il nome e per gli sfottò quando frequentavo le scuole elementari nella Napoli degli anni Ottanta per via di quel Maria femminile e quel Block così esotico.
E come reagivi?
Se avessi reagito, non si sarebbero placati. Ridevo e li assecondavo. Il bullismo è qualcosa che capisci ed elabori dopo, crescendo. All’epoca non c’era tutta l’attenzione alla psicologia che c’è oggi: sopravvivevi a suon di schiaffi presi e ricevuti. Non è un’immagine edulcorante ma è la realtà che abbiamo vissuto in quegli anni: per noi andare a scuola era come andare in trincea, soprattutto in una città come Napoli con tutta la sua stratificazione sociale.
Ti ritrovi nell’immagine che le produzioni cinematografiche e televisive restituiscono oggi di Napoli?
Quella di Napoli è una realtà così complessa che circoscriverla solo a quella di Gomorra o Mare fuori è abbastanza riduttivo. Napoli è una città con migliaia di facce e di colori, come cantava Pino Daniele.
Pino Daniele mi fa tornare con la mente a Massimo Troisi. Che esperienza è stata per te musicare il documentario Il mio amico Massimo?
Non si può spiegare a voce cosa si prova, soprattutto se come me ci si ritrova prima a lavorare con Lello Arena che racconta Massimo Troisi e poi si ha la responsabilità di fare le musiche per la storia di una persona che lavorava con Pino Daniele. Si sente responsabilità, grande ansia ma anche grande gioia: lavorare con Lello Arena è una delle esperienze più belle che la vita mi ha regalato.