Voler rimanere forever vecchio è quello che si augura Giovanni Santese. Il cantautore pugliese ha chiamato così non solo un singolo ma anche un intero album, Forever vecchio (Irma Records), sottolineando l’importanza del riuscire a trovare la propria voce e a mantenerla viva nonostante tutto e tutti.
Consapevolezza, accettazione e assenza di giudizio sono i tratti portanti di un album che permette a Giovanni Santese di manifestare la gioia di essere quello che è, nonostante lividi e difetti, disillusioni o paure. Prodotto da Taketo Gohara, Forever vecchio ha mille sapori differenti, tutti figli dell’estro creativo di un uomo che, messe da parte le aspettative e il peso delle stesse, si lascia andare al proprio modo di vedere la vita.
Già noto come “non Giovanni”, Giovanni Santese non ha dubbi nell’asserire che non vanno mai seguite le mode: bisogna assomigliare solo a se stessi per evitare di perdersi e perdere la rotta. In maniera candida, ci racconta in quest'intervista esclusiva come abbia provato a uniformarsi e di come quell’esperienza, a prima vista negativa, gli abbia permesso di capire che non era quella la strada giusta.
Intervista esclusiva a Giovanni Santese
Forever vecchio è il primo album che pubblichi con il tuo nome, Giovanni Santese. Perché hai scelto di abbandonare il nome con cui tutti hanno iniziato a conoscerti, non Giovanni?
È un processo che è avvenuto in maniera abbastanza naturale. Questo disco ha rappresentato per me qualcosa di diverso dal passato: l’ho realizzato in un’ottica più matura e consapevole. A un certo punto, mi sono reso conto che quel mio nome d’arte altro non era che una maschera: non che non lo amassi ma era stato scelto in un momento in cui la mia vita artistica era una seconda cosa rispetto a quella tradizionale che mi permetteva anche di vivere. Mi vedevo un po’ come “separato”: da un lato la vita normale e dall’altro quella artistica. Era arrivata l’ora di ricongiungere tutto: faccio sempre un altro lavoro per vivere ma mi identifico totalmente in entrambe le mie esistenze, non avevo più bisogno di un’altra identità.
C’entra in qualche modo il raggiungimento della soglia dei quarant’anni?
Sicuramente sì, è stato tutto un concatenarsi di cose. L’album è stato scritto in un periodo (la pandemia, ndr) in cui è stato quasi naturale fermarsi a riflettere, stare da soli e rinascere. L’ho vissuto come un cambio di prospettiva.
Forever vecchio è un inno alla maturità e alla consapevolezza. Cosa cambia dal Giovanni giovane al Giovanni forever vecchio?
Il vecchio ovviamente non è inteso in senso anagrafico. Era un modo per indicare l’età adulta, non più giovane. A quarant’anni sei diverso da quando ne avevi venti, puoi mantenere il tuo fisico ma cominci a pensare in maniera diversa… quasi da boomer. Me ne rendo conto con il mio lavoro principale: insegno a scuola e ho a che fare con ragazzi di 14 o 15 anni che su certe cose, per quanto mi mantenga vivo, la distanza comincia a sentirsi. Ma è un processo a doppio senso: loro non recepiscono i riferimenti agli anni Ottanta e Novanta, proprio perché abbiamo un’altra età…
Ma questo non significa che io mi senta vecchio, tutt’altro. Il mio disco è un inno alla maturità, quella che ti permette di scoprire debolezze e fragilità, di accettare delle parti di te stesso e di mettere da parte l’invincibilità della giovinezza. Tutto ciò mi ha reso più forte e volevo fotografare la presa di consapevolezza. Quindi, forever vecchio perché vorrei restare per sempre a quest’età.
Sei un docente di filosofia. È difficile insegnare ai giovani di oggi?
Non insegno filosofia da un po’ di tempo perché adesso mi occupo di sostegno. Mi piace comunque, ogni volta che posso, lanciare qualche pillola di filosofia che i ragazzi recepiscono. I giovani sono molto recettivi e hanno una certa predisposizione al pensiero, anche se lavoro in un liceo artistico, dove in senso provocatorio dico che la mia materia è inutile ma l’esercizio dell’inutile rende l’anima nutrita. Sono tante le cose inutili in tale accezione, tra cui anche la musica. È inutile rispetto a ciò che produce materialità ma è nutrimento per l’anima.
Paure e debolezze superate. Quali erano?
Sono tutte contenute nelle canzoni: in alcune mi rivelo abbastanza. Basta ascoltarle per capire quali sono le mie paure, la cui più palese è la scoperta della fragilità. Che senso che ha parla ad esempio in maniera metaforica di quei giorni in cui eravamo tutti chiusi in casa. Non che io abbia sofferto tanto della quarantena: mi son messo bello tranquillo e ho continuato le mie cose ma è innegabile che alcune paure umane siano emerse. Dobbiamo fare bellezza, invece, è dedicata ai miei figli: parlo della consapevolezza di ciò che avrei potuto fare per loro fino a un certo punto, al di là del quale avrebbero dovuto fare da soli.
Ma canto anche di aspettative: quello del cantautore è un mestiere che ti porta ad avere aspettative altissime che molto spesso si scontrano con una realtà diversa. Non posso dire di avere esattamente quello che vorrei dalla mia musica e dover far pace con ciò in passato non è stato semplicissimo. Solo adesso accolgo quello che viene in maniera più rilassata e serena.
Aspettative e realtà sono diverse perché si è sprecati in provincia come canti in Milano?
Quella canzone è la storia vera di me che con la mia famiglia sta per trasferirsi da Grottaglie, in Puglia, a Milano ma che alla fine non lo fa più, rimanendo dov’è. È una canzone motivazionale: può sembrare un fallimento ma non è così… è stato qualcosa che è rimasto forte in me e che mi aiuta ogni volta che serve. Milano è diventata una specie di stato d’animo che ti porta a fare tutto al massimo. E, comunque, sì: anche la provincia ha le sue colpe, anche se è spesso carburante perché la noia risulta fondamentale per produrre e creare.
Non potrei essere nient’altro da quello che sono se non fossi nato in provincia. Sono anche andato fuori, ho girato per un po’ ma poi sono ritornato qui in maniera consapevole. Quindi, non posso lamentarmi: sono state tutte mie scelte.
Tutto nella testa, invece, mi ha fatto pensare a Inside Out, il capolavoro della Disney.
È una di quelle canzoni che ognuno reinterpreta a modo proprio con una prospettiva diversa che varia in base alla propria emotività. Anche se è difficile essere in grado di governare pensieri ed emozioni, proviamo ugualmente a farlo e scopriamo quanto sia difficilissimo. Nello special, torna fuori il mito di Sisifo, condannato dagli dei a far rotolare un masso su e giù per una montagna: è un po’ la metafora dell’insensatezza della vita. Di fronte a essa che puoi fare? Lasciarti andare o accettarla così com’è e godersela. Quindi, la canzone è un invito a guardare tutto con un punto di vista più positivo.
In Che senso che ha, che si apre con una metafora con la Prima guerra mondiale, c’è un verso abbastanza duro: “la Terra non è fatta per l’amore”.
È un verso controverso anche per me. Da un lato, sostengo che dobbiamo stare accanto mentre, dall’altro lato, che forse non siamo perfettamente in grado di amarci.
Anche se tu il tempo per l’amore mi sembra di capire che lo hai trovato. Sei padre di due bambini: cosa ha rappresentato la genitorialità?
Un altro capitolo della mia vita, anche più faticoso se vogliamo. Ma anche una grande ricchezza: i miei figli hanno adesso nove e sette anni, non sono più totalmente dipendenti da me, e comincio a godere della bellezza di essere padre.
Perché faticoso?
Perché fare musica e arte ti portano comunque ad aver anche bisogno di una certa indipendenza, di startene in giro, di andare per i fatti tuoi e a non vedere oltre te stesso.
Citando una tua canzone, hai mai detto ai tuoi figli “fidati di me”?
A loro sì. Ma generalmente non riesco a dirlo tranquillamente.
E da chi avresti invece voluto sentirtelo dire?
Il problema è proprio questo: io tendo facilmente a fidarmi degli altri, anche in maniera un po’ ingenua. Sbagliare credo che sia una paura innata dell’uomo e, quindi, a volte mi fido anche troppo. È più difficile che avvenga il contrario e che sia io a dire a qualcuno “fidati di me”. Con un atto di coraggio, mi sono ritrovato a dirlo in un certo momento della mia vita e mi ha sorpreso, ragione per cui ci ho scritto su una canzone.
Il testo di Algoritmo è particolarmente forte perché passa in rassegna alcune cronache atroci dei tempi moderni, dalle sparatorie nelle scuole all’uso dell’acido per deturpare un’ex.
La canzone ha una gestazione lunghissima. L’idea è sempre stata lì nella mia mente ma, a differenza di altre canzoni, il testo è stato rielaborato tantissime volte. Non è stato facile scriverla, anche per le immagini cruente che evoca: non era così immediato portarle in canzone. Nasce dal desiderio di unire tutto ciò che sentiamo con quello che stiamo vivendo. Ho immaginato allora un mondo distopico à la Blade Runner 4.0, in cui noi esseri umani giustifichiamo anche gli atti più feroci adducendone la responsabilità non a noi stessi ma a una sorta di comando dall’alto che annulla la nostra volontà.
Si tratta ovviamente di un’estremizzazione che termina in maniera anche letteraria: alla fine della canzone, le macchine che ci governano piangono, hanno imparato a provare sentimenti che pongono fine all’umanità. È un futuro senza scampo: non è quello che realmente mi auspico, serve semmai da monito per tutti quanti, anche a me stesso.
Chi è invece il destinatario della lettera di Com’è ridotto il reame?
La canzone è un esercizio di stile: mi sono divertito ad ambientarla in epoca medievale ed è una lettera scritta da una principessa al padre partito per le Crociate. Il messaggio è semplice: “Non stare a perdere tempo lì per guerre inutili e torna a casa perché è qui che sta succedendo un macello”. Il padre rappresenta il senso di umanità in senso generale e la canzone è stata scritta qualche anno fa quando, sotto un governo giallo-verde, si stava oltrepassando ogni limite nel gestire l’emergenza immigrati: lasciare gente in balia del mare solo per conflitti politici mi sembrava un atto disumano. Nello stesso periodo arrestarono anche Domenico Lucano, l’ex sindaco di Riace, che nella mia canzone diventa “il brigante che a sud della contea rubava ai ricchi per dare ai poveri”.
Quando hai capito che dovevi piacere più a te stesso che agli altri?
Lo capisci quando strizzi l’occhio a qualcosa che non ti appartiene e il risultato è peggiore di quella volta in cui sei stato più autentico. Da un punto di vista artistico, quando l’ho fatto, sono stato scontento e ho avuto alcun vantaggio: il mio secondo album, ad esempio, ha virato più sull’elettronica per essere orecchiabile e commerciale. Ma ho inseguito qualcosa che non mi apparteneva: le canzoni mi piacciono ancora ma non come le ho rese in musica, non rispecchiavano chi sono. Ecco perché per Forever vecchio ho cercato di essere il più autentico possibile: ho fatto solo cose che mi emozionavano dall’inizio alla fine. E credo anche di aver fatto un disco senza tempo, che può essere ascoltato oggi come tra vent’anni: sarebbe stato facile inseguire la strada del rap, del trap o di tutto ciò che funziona radiofonicamente, ma non sarei stato io.
Partirai a breve con un live che è strutturato come uno spettacolo vero e proprio.
Stiamo ridefinendo il calendario, che uscirà nei prossimi giorni. Ho scritto lo spettacolo insieme a Lorenzo Kruger, il regista del video di Questo amore: ci saranno dei monologhi che intervalleranno i brani e il concept è quello di un grande trasloco. Sarò immerso tra cartoni e lenzuola dai quali ogni tanto tirerò fuori oggetti e pensieri. Io e i musicisti saremo vestiti di bianco: inviteremo la gente a salire sul palco, se ne ha voglia, e a scriverci qualcosa addosso. Sarà uno scambio a tutti gli effetti: noi diamo al pubblico quello che siamo e il pubblico ci restituisce chi è.