Giulia Bevilacqua è una di quelle attrici che sai che non ti tradirà mai. Che sia impegnata in una commedia o in un dramma, come al cinema in televisione, non si risparmia e con dedizione offre il meglio di sé, anche in progetti che non sempre sono all’altezza del suo talento. Lo riconosce anche lei per prima ma di certo nel novero di tali “cose brutte” non mette Volevo un figlio maschio, il film di Neri Parenti in uscita il prossimo 5 ottobre per Medusa di cui è coprotagonista a fianco di Enrico Brignano.
Nel film Volevo un maschio, di cui vi proponiamo anche una clip in esclusiva, Giulia Bevilacqua interpreta Emma, moglie di Alberto (Enrico Brignano). Già madre di tre figlie femmine (Giulia Tumbarello, Roberta Volponi e Samira Finotti) e con un bebè pronto a venire al mondo (femmina!), Emma è una donna che coniuga casa, lavoro e le mille difficoltà di una famiglia che desta più di qualche preoccupazione e difficoltà nel marito. Crescere tutte figlie femmine, capirle ed entrare nel loro mondo non è facile per Alberto che, esprimendo un desiderio, vede esaudito il suo sogno di avere tutti figli maschi (Edoardo Giugliarelli, Massimo Quagliata e Tommaso Guidi) con uno switch che non vi sveliamo per non rovinare la sorpresa.
Prodotto da IBC Movie con Combo International in associazione con Medusa Film, Volevo un figlio maschio gioca con il gender gap e il patriarcato in maniera intelligente, decostruendo stereotipi e cliché nel segno della commedia e del fantasy. Ed è questo il punto di partenza della nostra conversazione con Giulia Bevilacqua, che gli stereotipi ha cominciato a combatterli ben presto, come tutte le bambine cresciute in nome della paura e dell’allerta.
Determinata ma non ambiziosa, Giulia Bevilacqua non lesina pensieri e osservazioni. Non si nasconde dietro un dito e non favoleggia il mito della perfezione. Anzi, ammette gli sbagli e i suoi punti deboli, rompendo una narrazione che ci vuole perfetti e infallibili a ogni costo. Ed è anche per questo che quel pubblico che lei non tradisce la ama e si affeziona ai suoi personaggi, ricordandoli anche a distanza di decenni.
Intervista esclusiva a Giulia Bevilacqua
Chi è Emma Gatti, il personaggio che interpreti nel film Volevo un figlio maschio?
Emma è una donna molto risolta, che lavora ma che ha anche tre figlie ed è in attesa del quarto. È comunque una donna che riesce a gestire con grande destrezza tutti i ruoli che ricopre, da quello di moglie a quello di lavoratrice. Quest’ultimo non viene molto approfondito nel film ma prima di cominciare le riprese ho chiesto esplicitamente che Emma non fosse solo dedita alla famiglia: l’avrei non solo sentita più vicina a me ma anche più vicina al personaggio stesso per via della sua attitudine a gestire con destrezza il tutto anche a livello familiare, dai rapporti alle regole all’interno della casa. Abbiamo, dunque, voluto darle un lavoro che gestisce da casa (il mio pensiero è andato all’architetto) perché, comunque, con quattro figli sarebbe un po’ più faticoso recarsi in ufficio.
Volevo un figlio maschio segna, dopo I tre moschettieri e Il principe di Roma, una tua nuova incursione nel mondo della commedia fantasy. Sei riuscita finalmente a scrollarti di dosso il ruolo di poliziotto legato al grande successo di Distretto di polizia, la serie tv di cui sei stata protagonista?
Direi di sì, ormai è da tanto che non mi chiamano per un ruolo da poliziotta ma, subito dopo Distretto, ho dovuto rifiutare delle proposte per interpretare solo ruoli di donne in divisa. Quando si comincia con qualcosa che ha quel successo, sono gli stessi addetti ai lavori che tendono a vederti esclusivamente in quel contesto: per un po’ di tempo mi sono adeguata ma dopo ho avuto bisogno di staccarmi da quell’immagine. Non solo per dare varietà al mio lavoro ma anche perché mi ero letteralmente stufata di interpretare un unico ruolo. Oggi, sono passati vent’anni da quella serie tv a cui comunque devo molto: rimane il mio personaggio più famoso e per strada mi fermano ancora perché mi ricordano per quello.
Sarà anche per via delle numerose repliche che passano continuamente su Mediaset ma anche del fatto che era un prodotto realmente ben fatto. Erano altri tempi, giravamo in pellicola e lavoravamo undici ore al giorno per nove mesi su sceneggiature sublimi con registi e attori di altissimo livello. Era una serie tv di grandissima qualità… ho pianto di felicità per la mia vita lavorativa solo due volte: la prima quando sono stata ammessa al Centro Sperimentale di Cinematografia e la seconda quando il produttore Pietro Valsecchi mi ha chiamato per offrirmi il ruolo di Anna Gori. L’ho interpretata per ben quattro stagioni e mi ha anche lasciato una delle amicizie più importanti della mia vita, quella con Claudia Pandolfi.
Distretto era anche la prima serie tv che proponeva personaggi femminili in divisa che non erano una traslazione di quelli maschili.
Verissimo. E il merito era dei grandissimi sceneggiatori che la scrivevano. Il segreto per la riuscita di un buon prodotto sta tutto lì, nella sceneggiatura. Se i film e le serie tv partono da una buona sceneggiatura, il risultato può essere che sia buono. Anche se non è sempre detto che sia così: talvolta le premesse sono ottime ma si consegna un cattivo prodotto. Non era però il caso di Distretto, in cui le donne giocavano un ruolo importante all’interno della storia e detenevano anche posizione di potere.
Sul gender gap, sugli stereotipi e sulle differenze tra maschi e femmine gioca intelligentemente anche il film Volevo un figlio maschio. Dal tuo punto di vista, qual è lo stereotipo più difficile da decostruire sulle donne?
Ce ne sono tantissimi: siamo ancora lontani dall’uguaglianza di genere. Alla base c’è un problema di percezione del genere femminile in rapporto con la società. Le donne sono perennemente sotto un unico riflettore: il giudizio degli altri, sempre pronto a sindacare sul lavoro, sul tempo rubato ai figli, sull’essere una cattiva madre o una mamma poco presente. L’esempio più stupido: se una mamma non va alla recita dei figli a scuola viene visto come una stranezza mentre se non va il papà nessuno lo nota. E, il più delle volte, sono le donne stesse a giudicare le altre donne.
Viviamo in una società in cui il lavoro, l’avanzamento professionale e la stessa ambizione vengono declinati al maschile mentre, quando si pensa alle donne, le si associa al ruolo di madre, moglie e casalinga. Per quanto si siano fatti dei passi avanti, rimaniamo sempre indietro.
Anche l’aspetto fisico ha un suo peso discriminante.
È un tema di grandissima attualità. A una donna che subisce violenza viene chiesto com’era vestita: il suo corpo è ancora percepito come un oggetto di desiderio e di possesso. E quello stesso corpo è sotto la lente d’ingrandimento anche in ambito lavorativo: di recente, leggevo uno studio in cui si certifica come le donne in sovrappeso in qualsiasi contesto professionale vengano pagate meno delle colleghe magre. Non solo sempre meno degli uomini ma anche delle altre donne, come se il chilo in più comportasse una tassa da pagare perché si occupa più spazio nell’ambiente. Cos’è? La tassa per l’occupazione del suolo pubblico?
In Volevo un figlio maschio, ti ritrovi a lavorare con un gruppo di giovanissimi attori e anche con due cani. Un vecchio mantra recita che solo un regista folle lavorerebbe su un set con cani e bambini. Com’è andata sul set?
È un pensiero che ho scoperto guardando il backstage del film stesso, perché lo raccontava anche Neri Parenti. Tuttavia, rispetto al passato, i ragazzi e i bambini di questa generazione sono forse più preparati e hanno maggior disciplina anche di noi adulti. Sul nostro set, i sei attori scelti sono stati bravissimi: gli unici problemi potevano sorgere con i due più piccoli ma semplicemente per una questione di concentrazione. I bambini di quell’età dopo un po’ si stufano e desiderano fare altro: la ripetitività è qualcosa per loro di inconcepibile.
Ma ce l’abbiamo fatta. Neri Parenti è riuscito a creare un clima super carino: è un signor regista con le idee super chiare, molto concentrato su ciò che deve fare ma anche capace di creare momenti di ilarità, di gioco e di divertimento. Con Enrico Brignano non avevo mai lavorato prima ma ho scoperto che è un professionista d’alto livello, che sa ben padroneggiare il mestiere di attore e come ottenere il miglior risultato.
Personalmente, mi sono molto divertita. Il mio è un personaggio principalmente d’appoggio per Enrico ma è anche una donna che, quando serve, tira fuori il polso, anche con una vena un po’ isterica soprattutto nelle situazioni con i figli maschi. Giocando gli stereotipi, rispetto alle figlie femmine, questi sono un po’ più critici e “bambacioni”… e, quindi, a volte meno responsabili e meno razionali durante la loro fase adolescenziale perché seguono l’istinto.
Per una mamma è meno spaventoso forse entrare in relazione con le figlie femmine perché, assomigliando loro a lei, sa che può fidarsi maggiormente.
E viceversa per Alberto, il padre interpretato da Enrico Brignano, che ha più paura per le figlie femmine, soprattutto per la maggiore.
In termini di gender gap, quello della paura è un tema che andrebbe affrontato. La paura è qualcosa con cui noi donne impariamo a convivere sin da bambine: la paura di essere guardate, fischiate, abbordate, molestate, stuprate… ci siamo altamente rotte le scatole della paura, inculcata sin da piccole per tenerci allertate: perché gli uomini non riescono a capirlo? A mia figlia non vorrei insegnare a crescere con la paura: preferirei insegnarle ad avere fiducia.
Volevo un figlio maschio: Le foto del film
1 / 22Tua figlia ha cinque anni mentre tuo figlio tre. Hai notato delle differenze nel modo in cui tu e tuo marito, il giornalista Nicola Capodanno, vi relazionate a loro?
No, noto solo una differenza di carattere. Sicuramente, il rapporto tra il padre e il figlio maschio è più fisico: si divertono con i giochi fisici, rotolandosi o giocando a calcio. Mio figlio è poi fissato con il baseball mentre a mia figlia piace tutto ciò che è rosa o luccicante, è molto vanitosa. Ma non ne faccio una questione di differenza di genere ma semplicemente di indole. Sono comunque io la loro figura di riferimento: chiedono sempre a me, anche in presenza del padre. Ma ricordiamoci sempre che la mamma è la mamma, a qualsiasi età.
Per lavoro hai pianto solo due volte. Una volta per Distretto e una per l’ammissione al CSC. Era per te così impossibile quell’ammissione?
Si trattava di qualcosa che desideravo con tutta me stessa. Mi ero impegnata con tutte le mie forze e completamente da sola. Nessuno mi aveva mai impedito di scegliere la strada della recitazione ma nella mia testa credevo che i miei genitori non mi avrebbero mai permesso di inseguire il mio sogno. Avevo vent’anni, avevo già frequentato un anno di università e, provenendo da una famiglia di architetti (con due fratelli anche ingegneri), sapevo che i miei genitori avrebbero voluto che mi laureassi e proseguissi la tradizione di famiglia.
Ma è arrivato quel momento in cui mi sono chiesta cosa volessi veramente fare. Del resto, la recitazione ha sempre segnato la mia vita: quand’ero piccola, recitavo in casa, venivano gli amici a vedermi e mi facevo riprendere da mia padre. Crescendo, però, si erano insinuati tanti dubbi in me: fare l’attrice equivaleva per difficoltà a fare l’astronauta. Tra tanti, perché avrei dovuto farcela proprio io?
Ho deciso di tentare l’ammissione al CSC dopo aver fatto un corso di teatro amatoriale, dove un insegnante mi disse che avevo del talento: per la prima volta, un “tecnico” riconosceva le mie capacità di attrice e mi suggeriva di provare con la recitazione. Mi parlò del CSC, che ovviamente non conoscevo perché non mi ero mai particolarmente informata su un eventuale percorso di formazione. Avevo scelto del resto il teatro amatoriale come un hobby da fare nel tempo libero: sarei andata all’università e l’avrei coltivato come passione.
La prima volta che ho messo piede al CSC mi sono emozionata: non potevo credere che a Roma esistesse una scuola pubblica tipo Saranno famosi, la serie tv con cui ero fissata da bambina. E, senza dir nulla ai miei, ho trascorso un’estate intera a prepararmi per l’esame di ammissione. Ai miei sono stata costretta a dirlo quando sono stata scelta per il bimestre propedeutico e avrei dovuto frequentare la scuola tutti i giorni, senza andare più all’università. Quando lo hanno saputo, mi hanno stupita: “Provaci, se è quello che vuoi fare”.
Dopo i due mesi, mi trovavo in montagna durante la settimana in cui sarebbero usciti i quadri finali per l’ammissione. La mattina dei risultati, ho chiamato la scuola non appena sveglia e sono scoppiata a piangere quando la segretaria mi ha comunicato di essere entrata. Ho pianto come una bambina e mi emoziono ancora adesso nel ripensarci: non ci credevo … non avevo nessuna esperienza e non avevo mai recitato professionalmente ma avevo dalla mia la grinta, l’energia, la voglia e la determinazione. Una determinazione per me inedita: ero solita abbandonare tutto dopo un paio di mesi, dal corso di chitarra alla danza. E tuttora la recitazione è l’unica cosa che porto avanti con la stessa determinazione.
Determinazione che mostrerai anche nei lavori in cui ti vedremo presto, Il maresciallo Fenoglio su Rai 1 entro la fine dell’anno e Pare parecchio Parigi, il nuovo film di Leonardo Pieraccioni al cinema dal 18 gennaio 2024. Due progetti tra loro molto differenti. A parte la sceneggiatura, cosa ti spinge a scegliere un ruolo anziché un altro?
Intanto, poter scegliere è già un lusso che non sempre si ha. Rifiuto un ruolo solo quando, già leggendo la sceneggiatura, provo un senso di vergogna, altrimenti è difficile che lo faccia. Ho capito solo negli ultimi anni che non serve intestardirsi per fare un certo tipo di cinema o per catturare l’attenzione di chissà quale regista.
Mi reputo, senza presunzione, una brava attrice: porto avanti il mio lavoro con grande passione e amore e sono una professionista che si presenta sul set pronta, preparata e puntuale. Per molto tempo mi sono chiesta perché non mi avessero chiamata per dei ruoli che vedevo fare ad altre e che mi piacevano o perché non mi avessero convocata per quel provino anziché per quell’altro. Provavo una sensazione di scontentezza riguardo al mio percorso, pensavo che avrei dovuto fare scelte diverse. Alla fine, però, sono arrivata alla consapevolezza che il mio bisogno di stare sul set è più alt della mia presunzione di voler fare solo cose “belle” (riconosco di aver fatto anche delle cose “brutte” ma le ho sempre fatte con grande riconoscenza e partecipazione).
Che mi propongano una commedia basica, un melò, un dramma, un film d’autore o uno di Natale, per me è sempre un “sì”. Trovo che la bellezza del mio lavoro consista nel riuscire a lavorare in tutti i generi sempre con lo stesso entusiasmo e senza alcun pregiudizio. Quando decido di interpretare qualcosa, sono consapevole di quello che sarà, un capolavoro o una commediola così così.
Non chiedo quali erano le cose “brutte” per non inimicarti nessuno…
Chiunque lo può capire guardando il mio curriculum sia al cinema sia in televisione. Nel percorso di qualsiasi attore capita di fare qualcosa di meno bello rispetto ad altro, il risultato di un lavoro dipende dalle variabili in gioco: la sceneggiatura, la regia, la fotografia, la musica, il montaggio… L’importante è lavorare sempre con lo stesso spirito.
Come reagisci quando qualcosa a cui hai lavorato non incontra i favori del pubblico?
Quando non si fanno al botteghino i numeri che ci si aspetta, c’è una grande delusione: mettiamo tutti così tanto cuore, sacrificio, fatica e impegno, che se non vengono apprezzati non può che non dispiacerti. Ma il risultato non dipende dagli attori: purtroppo, nel nostro mercato – dai produttori ai distributori – si tende ad associare il risultato ai nomi. Esiste ancora la logica del nome di richiamo in locandina, come se chi ha funzionato una volta funzioni sempre nel richiamare pubblico.
Ed è un errore inseguire l’automatismo per cui è il botteghino ad attribuire più o meno valore a un attore. Per quello, ricominciamo semmai a fare i provini: sono dell’idea che andrebbero sostenuti fino a fine carriera.
E tu continui ancora a sostenere i provini?
Ancora adesso. La prossima settimana inizio a girare una serie tv per la Rai diretta da Luca Miniero, un regista che conosco bene e con cui ho già lavorato. Ci troviamo molto bene insieme e la stima è reciproca. Aveva quasi timore a chiedermi il provino ma sono andata invece con molto piacere: non posso essere l’attrice giusta per tutti i personaggi, possono esistere attrici più adatte di me per carattere, sfaccettature o fisicità.
Ti abbiamo di recente vista recitare in costume nella serie tv Più forti del destino.
Recitare in costume da sempre una grande mano: nel caso degli attori, il costume fa il monaco. I costumi o gli abiti d’epoca ti aiutano a entrare più facilmente in qualcosa di distante da te permettendoti, insieme alle acconciature, di assumere anche una postura diversa e di dare connotazione al personaggio. Più forti del destino era un progetto per me molto interessante: permetteva di parlare della condizione della donna e di emancipazione femminile.
Determinazione fa rima con ambizione?
Sono determinata ma non sono ambiziosa. Se fossi stata ambiziosa, avrei fatto un percorso diverso. Sono determinata quando voglio veramente qualcosa ma per il resto me ne sto “buona buona”. Non ho mai fatto le scarpe a nessuno e non sono brava nelle pubbliche relazioni: sono molto più accogliente e amicona, per niente competitiva. Nel mio lavoro è forse più un difetto ma non voglio snaturarmi. Sarà anche per questo che io e Claudia Pandolfi ci siamo subito trovate: siamo molto simili e portiamo avanti il nostro lavoro senza alcun tipo di smania.
Volevo un figlio maschio: La clip in esclusiva
TheWom.it vi offre una clip in anteprima esclusiva del film Volevo un figlio maschio, in cui Giulia Bevilacqua interpreta Emma, moglie di Alberto e madre di tre (quasi quattro) figlie femmine. In un girotondo di equivoci, Emma racconta al marito qualcosa che ha fatto la figlia maggiore, scatenando in lui la più grande paura di un padre...