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“Tutto passa ma resta la passione, ti rimette in piedi”: Intervista esclusiva alla regista Giulia d’Amato

Giulia d’Amato ha diretto il suo primo film, Un altro giorno d’amore, che ripercorre gli eventi del G8 di Genova a distanza di vent’anni. Un film che è sì un atto politico ma anche un lucido sguardo sulla sua autobiografia e sulla scoperta della passione, intesa come motore che dà forza.
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Resistenza e disobbedienza sono le parole chiave per capire Giulia d’Amato e il suo bel film Un altro giorno d’amore. Speranza e resilienza non dicono nulla alla regista, anche perché presuppongono un atteggiamento passivo e non attivo contro un sistema che impone omologazione e reprime ogni forma di dissenso.

Presentato alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Un altro giorno d’amore di Giulia d’Amato ci offre una delle lezioni più importanti che tutti dovremmo tenere a mente ogni giorno: Tutto passa, resta la passione. Ma cos’è la passione che Giulia d’Amato cita? È senza dubbio quel motore che ci spinge ad agire ma soprattutto a reagire dopo aver toccato il fondo. Non solo in ambito sentimentale.

Il suo Un altro giorno d’amore è un film di passione adolescenziale, capace se ben conservata di animare e alimentare ancora le vite di chi è adulto. Non ci si deve mai dimenticare chi si è stati per scoprire chi si è da grande. E grande Giulia d’Amato lo è diventata. Ha 36 anni ma per capire chi è ha bisogno di guardare a lei quindicenne. Di tornare al 2001 quando, da ragazza innamorata di un tifoso del Perugia, si fa carico di una storia più grande: quella di coloro che le passioni grandi ce le hanno dentro ed esplodono sconquassando le loro vite, nel bene e nel male.

Il 2001 è un anno particolare non solo nel percorso di Giulia d’Amato ma anche per la storia d’Italia. A Genova ha luogo quel G8 segnato per sempre da immagini di violenza assurda e dal corpo senza vita di Carlo Giuliani, un ragazzo come tanti. “Sono passati più di vent'anni da quel 2001 e io ho continuato a correre”, ha dichiarato la regista. “E sono riuscita a capire quello che voleva dire mio padre quando ripeteva che avrebbe continuato a immaginare un mondo diverso. In quei giorni di luglio, io e mio padre non siamo stati fisicamente a Genova, ma per noi quei giorni sono proprio qui e ora”.

E il racconto di quei giorni e di altri che verranno nel 2011, quasi per uno strano scherzo del destino, rivive nelle straordinarie immagini e testimonianze che Giulia d’Amato ha raccolto in Un altro giorno d’amore. I racconti diretti di Davide Rosci, di Mariapia Merzagora Parodi e di suo padre Raffaele creano un confronto inevitabile tra chi ha pensato a una sconfitta e chi, invece, aspetta ancora che un altro mondo sia possibile.

Abbiamo incontrato Giulia d’Amato per un’intervista esclusiva e cercato di capirne di più su Un altro giorno d’amore, sulla passione e su come sia vissuta dalle nuove generazioni.

La regista Giulia d'Amato.
La regista Giulia d'Amato.

Intervista esclusiva a Giulia d’Amato

Cosa ti ha portato oggi, a distanza di vent’anni, a ripercorrere quelli che sono stati gli eventi del G8 di Genova?

Vengo da una famiglia dove la militanza ha sempre avuto un ruolo centrale, come testimonia nel film mio padre Raffaele. Io al G8 di Genova non c’ero perché avevo 15 anni ma l’immagine di Carlo Giuliani, morto a terra ricoperto di sangue, mi è sempre rimasta negli occhi, non l’ho mai cancellata. Non sono mai riuscita a darmi spiegazioni su quanto accaduto. La ritenevo però un’ingiustizia: non si può morire così a vent’anni, andando in piazza per un corteo.

Da allora, ho iniziato a fare militanza attiva ma qualcosa era cambiato. Per la mia generazione il G8 di Genova rappresenta la fine dei sogni, la sconfitta dei movimenti. Dopo tutto quella repressione, il movimento ha cominciato a discutere, frastagliarsi, separarsi… e non è più ripartito. Sì, sono nati tanti altri movimenti ma sono rimasti a livello locale, non hanno mai fatto rete.

Anche se nel 2011, con una strana cadenza storica, a Roma qualcosa, da spettatore, sembrava muoversi nuovamente in una direzione unica.

Si è trattato di un movimento che partiva però da altrove, dalla Spagna: era quello degli indignados. Si era sposata una linea che in realtà non era stata scelta del tutto dal movimento italiano. Ma anche questa è stata fermata con la repressione: qualsiasi tentativo di disobbedienza viene portato avanti, ha avuto, ha e avrà sempre la stessa risposta dallo Stato. Lo vediamo anche nella realtà di tutti i giorni, prendendo le dovute distanze, con le questioni sociali.

Un altro giorno d’amore parte da molto lontano, da vent’anni fa, da quando eri una ragazzina innamorata di un tifoso del Perugia. Scegli dunque di far partire il racconto da una città che non è di certo una grande metropoli come Roma o Milano.  

Perugia, la mia città, ha insita una sua specificità. In quegli anni era forte la militanza politica e veniva portata avanti da più fronti. Era anche facile entrare in contatto delle realtà che erano molto più inclusive di quello che si potesse immaginare. Io stessa sono venuta in contatto, ad esempio, con un gruppo di ultras, una cosa che in una grande città difficilmente potrebbe succedere. Il contatto tra militanza politica e stadio era dunque molto delineata.

Il film rappresenta il tuo debutto alla regia ed è prodotto da Gianluca Arcopinto.

Io ho scelto di lavorare con Gianluca Arcopinto perché era la persona nel mondo del cinema in cui mi riconoscevo, il simbolo del cinema indipendente stesso. Anche se odio il termine indipendente: è semmai un cinema semplicemente più libero da alcuni schemi, soprattutto narrativi. Lavoro al suo fianco da anni: quando ho maturato l’idea del documentario, Gianluca ci ha creduto e si è fidato di me e dei miei collaboratori. Nonostante tutte le difficoltà incontrate, siamo riusciti a portare a termine il film.

Che difficoltà avete incontrato?

Quando si affronta una narrazione del genere, c’è bisogno di libertà, è fondamentale. Se uno non prende nessun finanziamento dallo Stato (anche se in parte è stata una scelta), è chiaro che le difficoltà aumentano. Quando si gira con meno budget a disposizione, si allungano inevitabilmente i tempi di realizzazione. Abbiamo in cambio avuto piena libertà e potuto raccontare la storia come la vedevamo noi.

Al di là del G8, Un altro giorno d’amore racconta anche di ultras e di carcere in Italia. Li considero due grandi temi rimossi dalla narrazione che viene fatta in Italia: non ne parla quasi nessuno, a eccezione di qualche piccolo e sporadico esperimento. Non sono temi mainstream e non è facile trovare loro un posto nel mercato.

Immagino che non fosse così semplice portarlo al tavolo dei grandi distributori. Anche perché, essendo un documentario, ha una sua soggettività, condivisibile o meno. Non hai mai avuto paura delle critiche che potessero essere mosse contro un prodotto del genere?

Assolutamente sì. Però, quando uno fa cinema, si assume la responsabilità di ciò che fa, come in qualsiasi altra forma di linguaggio, dalla musica alle arti visive, dalla fotografia alla scrittura. Quella del mio documentario è un’osservazione che io definisco orizzontale: non ho fatto altro che raccontare quello che io ho visto.

Lo definisco anche un film autobiografico. C’è dentro la mia formazione come persona, quella di chi esce di casa e va incontro a un mondo che in casa non c’era. Nessuno della mia famiglia andava allo stadio. Ci sono dentro le mie scelta e la mia autodeterminazione. Chi fa dunque lavori del genere è esposto a critiche: fa parte del gioco. Ma è l’ultima delle paure.

La regista Giulia d'Amato con il padre Raffaele in Un altro giorno d'amore.
La regista Giulia d'Amato con il padre Raffaele in Un altro giorno d'amore.

In quanto regista donna di documentari hai affrontato due ostacoli di non poco conto. Il primo è dato dal genere cinematografico che hai scelto. Il secondo, invece, è dato dal tuo genere di appartenenza: donna. Si tende a parlare sempre di documentaristi e quasi mai di documentariste, quando in Italia ci sono tantissime donne che hanno dimostrato di padroneggiare il genere.

Penso a Valentina Pedicini, che purtroppo non c’è più. I suoi documentari sono per me un esempio fondamentale di arte libera: soprattutto l’ultimo, sono il simbolo della sua massima libertà nel raccontare la sua visione. Diciamo pure che in Italia per una donna non è difficile fare documentari: è difficile fare cinema a prescindere, in qualsiasi reparto. Un po’ perché, per definizione, è di genere maschile e da questo se ne uscirà solo con estrema fatica.

Incontriamo difficoltà che sono assurde: è come se dovessimo continuamente dimostrare di essere in grado di fare questo lavoro, anche ai più insospettabili. È come se ci fosse un problema di riconoscimento della credibilità della regista e del proprio racconto. Registe, sceneggiatrici, direttrici della fotografia devono sempre dimostrare di saper lavoro più di tutti gli altri, di meritarsi quello che stanno facendo. Ma dobbiamo tenere duro: non so come si possa uscire dalla situazione ma fare cinema è una grandissima forma di resistenza. È faticoso ma bisogna tenere duro.

Così come immagino sia faticoso lavorare con i materiali di repertorio, come hai fatto tu in Un altro giorno d’amore.

È stato un lavoro molto lungo. Il lavoro con il repertorio prevede anche un grandissimo studio sulla qualità delle testimonianze, sul materiale giusto da usare. Sono sicuramente stata aiutata dai miei collaboratori, soprattutto dal montatore Stefano Domenichetti Carlini.

Ho cercato sin dall’inizio materiali originali su G8 di Genova. Per pura casualità, nel ventennale degli eventi caduto lo scorso anno il gruppo della curva degli Ingrifati ha tirato fuori un dvd in cui erano stati riversati i filmati fatti durante il loro viaggio al Genova nel 2001. La ricerca, però, prevede che bisogna anche sapersi confrontare con il materiale trovato: l’ho quindi rielaborato dal mio punto di vista restituendo ciò che vedo quando guardo quei video. Prima di scrivere il documentario, ho visto e rivisto i filmati, proprio come farebbe un ragazzino di quattordici anni con i video su YouTube.

Ho ristrutturato tutto quanto, ho ricostruito le giornate del G8 con una violenza che tendeva ad aumentare. Ovviamente c’è stata molta violenza tutti i giorni ma io ho voluto analizzarla con la mia prospettiva, facendole raggiungere l’apice con l’uccisione di Carlo Giuliani.

Mariapia Merzagora Parodi in Un altro giorno d'amore.
Mariapia Merzagora Parodi in Un altro giorno d'amore.

Il corpo di Carlo Giuliani torna nel finale diverse volte ma non ricordo di averlo mai visto così da vicino. Ma, soprattutto, non l’ho mai visto associato alle parole di Mariapia Merzagora Parodi, la madre di Edoardo, un amico di Carlo morto solo qualche settimana dopo. La testimonianza dà un significato completamente differente a quello che è accaduto: le parole della mamma di Edoardo ci presentano Carlo come un ragazzo come tanti altri di oggi, che fino alla sera prima era a casa sua.

Era il racconto di Carlo Giuliani che per me corrispondeva più alla realtà. Ho cercato grazie all’eleganza della mamma di Edoardo di riportare una narrazione onesta rispetto a quella che è diventata la lettura storica degli ultimi vent’anni di questo Paese. Quello che dice non avrebbe avuto probabilmente la stessa forza se fosse stato raccontato da qualcun altro. Ha riferito di un tragico racconto che diventa familiare ed entra nella sfera personale.

Mi colpisce di Un altro giorno d’amore il confronto generazione che hai portato in scena. Da un lato, c’è il tuo racconto e quello di Davide Rosci. Dall’altro lato, invece, quello di tuo padre e quello della madre di Edoardo.

È qualcosa che ho voluto sin dalla fase di scrittura. Il mio è un documentario scritto che conta sulla presenza di due sceneggiatori, Marco Borromei ed Elisa Dondi. Credo che i documentari non scritti siano qualcosa più televisivo che altro.

Davide rappresenta quel coraggio che tante volte a tutti nella vita manca. A differenza mia che avverto la solitudine, lui non si è mai sentito solo. Neanche quando era in carcere, il luogo per eccellenza in cui una persona è realmente sola. Quindi, Davide è per me la dimostrazione di cosa vuol dire essere coraggiosi nell’affrontare situazioni estreme. A differenza mia, non vive quella sensazione di sconfitta di cui parlavamo prima. Nemmeno il carcere per lui è stata una sconfitta. Si definisce un “detenuto fortunato”: per me è incredibile che un ragazzo a cui il giorno prima è morto il padre si definisca fortunato nel finire in carcere.

Mio padre la sconfitta non la conosce perché non l’ha mai vissuta: ha 72 anni e lascia uscire tutti i giorni il militante che è in lui. Non si è mai arreso e lotta tutti i giorni per cambiare il mondo. È un approccio che usa non solo in ambito politico ma anche nel quotidiano, contro una malattia o in una discussione in famiglia. Il suo è un atteggiamento che mi fa una forza e mi fa avvertire meno la solitudine.

E lo stesso dicasi di Mariapia: non sente la sconfitta, nemmeno di fronte alla tragedia più grande che le potesse capitare come la perdita di un figlio.

Davide Rosci in Un altro giorno d'amore.
Davide Rosci in Un altro giorno d'amore.

Un altro giorno d’amore si chiude con te che incontri la te stessa quindicenne lasciandole il messaggio più forte di tutto il film: Tutto passa ma resta la passione. Cos’è per te la passione oggi?

Nella vita tutti viviamo dolori, chi più grandi chi più piccoli. La passione è quella cosa che puoi vedere al mattino solo perché non stai bene, perché sei depresso, perché le cose non vanno come dovrebbero o perché il fidanzato ti ha lasciato. In me la passione è nata a quindici anni quando una delusione d’amore, la cosa più stupida che puoi togliere a un’adolescente, me l’ha fatta conoscere. La passione è quella cosa che ti rimette in piedi e che ti tiene vivo. È quella per cui faccio questo lavoro: mi permette di raccontare storie e di superare qualsiasi tipo di difficoltà.

Che percorso avrà ora il film, dopo essere stato presentato a Pesaro?

Avrà sicuramente una distribuzione in autunno, non abbiamo ancora una data precisa. Verrà distribuito da me e da Gianluca e reputo la sala cinematografica il suo approdo più naturale. Partiremo sicuramente da Perugia dal PostModernissimo, una delle sale italiane che meglio sa lavorare con il cinema indipendente. Andremo poi in giro per i circuiti un po’ più off. Ho sempre visto il film come un atto politico e la visione in presenza è necessaria perché si presta al confronto: è volutamente fatto per questo motivo.

Sei anche impegnata con il Centro Sperimentale di Cinematografia. Hai già in programma un secondo film? passerai a un cinema più narrativo o continuerai sulla strada del documentario?

Sto già scrivendo il mio prossimo documentario, è la forma che più mi appartiene per raccontare le cose.

Cosa pensi che Un altro giorno d’amore possa comunicare alla generazione dei millennial, abituata a vedere il mondo con gli occhi filtrati dai filtri social?

Ho già fatto vedere il film a due classi del Centro sperimentale. Sono giovani che vanni dai 19 ai 28 anni, e comunque nettamente più piccoli di me, appartenente alcuni a una generazione diversa dalla mia. Ho notato che è arrivato anche a loro quel senso di passione che volevo trasmettere.

Ovviamente, per loro il G8 di Genova è qualcosa che sta lì e ho la sensazione, senza che lo abbiano confessato, che alcuni non sapessero nemmeno bene cosa fosse successo: lo hanno sempre visto dai video, un po’ come accadeva a me quando vedevo i resoconti sugli anni di piombo.

La generazione dei ventenni mi sembra sia più aperta rispetto alla mia quando si parla di passione. In tanti ce l’hanno o la percepiscono, solo che poi la declinano su altre cose. Non sono così persi o distratti come spesso li descrivono. Sono distratti dai tanti stimoli che ricevono: la cultura in sé porta alla distrazione ma sono aperti a letture della realtà un po’ più complesse e profonde. Vedo un po’ di speranza, anche se odio il temine: secondo me, c’è un futuro!

La regista Giulia d'Amato con il padre Raffaele in Un altro giorno d'amore.
La regista Giulia d'Amato con il padre Raffaele in Un altro giorno d'amore.
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