Farsi travolgere dalla consapevolezza di Giulia Elettra Gorietti è un’esperienza che dovrebbe capire a tutti nella vita. Sul set da quando Paolo Virzì l’ha scelta poco più che bambina per Caterina va in città, Giulia Elettra Gorietti è in questo momento al cinema in Lo sposo indeciso, l’ultimo film di Giorgio Amato con Gianmarco Tognazzi e Ilenia Pastorelli. Interpreta Nadia, cugina e testimone della sposa Pastorelli per quello che sarà un matrimonio che, per motivi che non vi spieghiamo, non s’ha da fare.
E interpreta la mitica Nadia Zingales, influencer sulla falsariga della più nota Chiara Ferragni, nella commedia Un mondo sotto social dei Soldi Spicci, un ruolo che l’ha divertita e che l’ha fatta diventare ancora più amica di Annandrea Vitrano (e di Claudio Casisa, che ha ritrovato sul set di 30 anni (di meno)). Due personaggi, due Nadia, una distante dall’altra, diverse caratterialmente e fisicamente. Così come ancora differente sarà la Claudia di Compulsion, il nuovo film di Neil Marshal (regista, tra l’altro, di alcuni episodi di Il trono di spade).
Il motivo per cui Giulia Elettra Gorietti sceglie oggi ruoli che la mettono in gioco da quelli a cui, complice anche il suo fisico, era abituata è semplice: dopo la maternità, sopraggiunta cinque anni fa, ha maturato il desiderio di andare oltre il cliché della bella ragazza dal fare, inconsciamente o meno, seduttivo. La gravidanza ha rappresentato per Giulia Elettra Gorietti un punto di svolta anche nel suo percorso di emancipazione, una parola che ritorna spesso durante l’intervista in esclusiva che ci ha concesso.
Per capire cosa significhi per lei essere donna, madre, moglie e attrice, occorre fare un passo indietro nel tempo e guardare agli esempi che ha avuto, a partire dalla bisnonna. Esempi che oggi tenta di trasmettere anche a sua figlia Violante, una bambina che, come Giulia Elettra Gorietti, ammette le somiglia tantissimo, soprattutto per la stessa vena di ribellione. Se non fosse stata ribelle, Giulia Elettra Gorietti non avrebbe potuto dire no da adolescente alla ginnastica ritmica e a un sistema che aveva reso il cibo un tabù.
Impegnata anche sul sociale, Giulia Elettra Gorietti è una sorpresa a ogni risposta: è la perfetta incarnazione di ciò che vuol dire oggi essere una millennial attenta più all’interiorità che all’apparenza. Anche quando questa interiorità comporta il prendere posizioni ferme in campo sociale o politico, dove da sempre è impegnata in prima linea con il supporto a organizzazioni come Amnesty International, We World e Unicef.
Intervista esclusiva a Giulia Elettra Gorietti
“Mi senti leggermente affatica perché stavo facendo ordine in cucina: voglio fare piazza pulita delle cose che non mi servono e che rubano energia”, mi risponde Giulia Elettra Gorietti quando le chiedo come sta.
Immagino che farlo con una bambina di cinque anni che vuole darti una mano si trasformi in un lavoro vero e proprio.
Diventa un lavoro ma mi piace farlo. Fosse per lei non butterebbe via nulla ma la sto educando al rispetto delle cose, al riciclo della plastica e al pensare ai bambini meno fortunati. Le chiedo spesso quand’è l’ultima volta che ha usato qualcosa e, quando non sa trovare una risposta, la invito a riflettere su ciò che occorre fare. I primi tempi non è stato facile: Violante è figlia unica e quindi è un po’ viziata ma piano piano sta cominciando a capire. Le sto insegnando a condividere, a non tenere tutto per sé e a collaborare nel riempire gli scatoloni con vestiti e i giocattoli che abbiamo conservato in ottimo stato e che possiamo spedire in Congo tramite un mio amico.
Ti stiamo vedendo in questi giorni al cinema in Lo sposo indeciso, il nuovo film di Giorgio Amato, in cui interpreti la parte di Nadia, la testimone e cugina della sposa, una giovane laureata in Scienze infermieristiche che si rivela fondamentale in alcuni snodi della trama. Si tratta di un lungometraggio che parte come commedia e termina in dramma esistenziale.
Ed è l’aspetto che mi è piaciuto di più quando ho letto la sceneggiatura. Era insolita come commedia e l’idea di prenderne parte mi incuriosiva… ma per capire il perché ho detto sì occorre fare un passo indietro e ritornare al punto d’origine, a quando sono rimasta incinta. In quel periodo, ho dovuto dire di no a diversi progetti. Dopo il parto ho deciso di stare di più in famiglia e godermi Violante, per un anno non ho lavorato. Poi ho rimesso piede sul set, ho lavorato con Pupi Avati in Lei mi parla ancora (ero la compagna di Gifuni) e fatto una partecipazione in Vivi e lascia vivere, la serie tv di Pappi Corsicato con Elena Sofia Ricci. Sono stati progetti che mi impegnavano meno e li ho scelti coscientemente proprio per stare più vicino a Violante.
Dopo volevo riprendere in mano la mia vita: è importante non annullare la propria identità, anche se è un errore che purtroppo è facile soprattutto nella nostra società. C’era stata nel frattempo la pandemia e avevo riflettuto molto sul mio percorso di attrice, arrivando a una conclusione: sarei tornata a lavorare a tempo pieno come prima ma in maniera diversa, ovvero rompendo i cliché che mi riguardavano. In passato, ho sempre interpretato personaggi (di cui vado sempre fiera) che, per quanto crudi, forti, bellissimi e meravigliosi, avevano sempre uno spiccato lato sensuale.
Era un lato che notavano gli altri in me ma che non percepivo in prima persona. Crescendo, si diventa più donna sotto molti punti di vista e mi son detta che da quel momento in poi avrei preso parte a progetti che mi interessavano maggiormente dal punto di vista umano e personale. Ho quindi cominciato ad accettare ruoli molto diversi l’uno dall’altro non più esasperatamente femminili (forse un primo cambiamento è stato Manuel, il film di Dario Albertini molto amato all’estero).
Chi mi conosce bene sa che nella mia personalità c’è anche uno spiccato lato maschile, un po’ più forte e duro. Nell’ultimo film che ho appena finito di girare, Compulsion di Neill Marshall, interpreto ad esempio una donna molto forte. E in 30 anni (di meno), il nuovo film che sto girando, ho preso la parte di un personaggio che all’inizio doveva essere di un uomo e solo in seguito è stato affidato a una donna.
A proposito di passato, leviamoci subito il riferimento, sei stata tra i protagonisti di due film diventati dei cult generazionali, Tre metri sopra il cielo e Ho voglia di te. Al tempo della loro uscita in sala, vennero massacrati dalla critica mentre oggi sono diventati dei punti di riferimento per il dramma sentimentale young adult.
All’epoca, ero troppo giovane, avevo 15 anni e non mi facevo troppo inglobare dalla critica: a quell’età si è molto più leggeri e spensierati. Successivamente, mi è capitato di sentire qualche critica a riguardo ma non mi ha mai condizionato più di tanto. Ero e sono molto contenta dei miei inizi: tutte le persone che mi seguono oggi, che mi fermano per strada o che vengono a vedermi al cinema in ruoli un po’ più impegnati, sono le stesse che sono entrate in empatia con me allora, attratte da quella parte di me molto autentica.
Ripensandoci, quello di Daniela era un personaggio molto libero per il periodo storico che stavamo vivendo: spesso capitava che si dicesse di me che ero una ragazza “facile” perché avevo interpretato quel ruolo. Non venivano a dirmelo in faccia perché da persona molto schietta sapevano che avrei risposto ma dietro le spalle lo facevano. Ma a me, onestamente, non fregava nulla anche perché vengo da una famiglia di donne molto libere e questo ha forgiato la mia personalità. La mia bisnonna tedesca che lavorava ed era autonoma ebbe tre compagni, una cosa all’epoca impensabile, mentre la mia seconda bisnonna, sempre tedesca, era una giornalista indipendente e affermata nel suo lavoro. Ho avuto tutti esempio di donne forti che ancora oggi ringrazio.
Emancipazione femminile è un concetto che torna spesso anche sui tuoi post su Instagram. È così radicato in te che stai cercando di trasmetterlo anche a tua figlia Violante. Come si fa a farlo capire a una bambina di cinque anni?
In maniera molto semplice. Spesso si tende a non parlare con verità ai bambini, io invece non nascondo nulla a Violante. Ad esempio, qualche giorno fa è venuta a chiedermi perché lei avesse tre nonni anziché due. Io le ho spiegato che nonna si è lasciata con il primo nonno e poi si è sposata con un altro uomo. Le racconto sempre la verità anche quando agli altri può apparire ostica. Quando mi ha chiesto perché lo “zio” Sandro fosse fidanzato con un uomo e non con una donna, le ho dato la risposta ricorrendo ai colori: “a te piace il celeste, a me l’arancione: funziona alle stesso modo con le coppie e non c’è niente di strano”.
Mi ha anche domandato se lo “zio” potesse avere un giorno un bambino e ho risposto di sì, in un mondo ideale aggiungo ora io. È stata una piccola bugia bianca ma l’ho detta perché vorrei che Violante crescesse in una realtà più inclusiva possibile, senza distinzione alcuna di genere, orientamento, colore e così via. Sta formando adesso la sua personalità e vorrei che nella sua mente capisse che non ci dovrebbero essere limiti, quei limiti che ancora oggi persistono nella nostra società e dai quali rifuggo.
Soffermiamoci ancora sul concetto di emancipazione. Hai in prima persona dato un esempio forte a Violante sull’importanza del perseguire le proprie aspirazioni e ambizioni. Tuo marito, Pietro Iemmello, è un calciatore che oggi milita nel Catanzaro, città in cui vive. Tu, invece, hai scelto di rimanere a Roma.
Abbiamo vissuto insieme e a pieno i primi due anni di vita di Violante. Abbiamo avuto la fortuna di poterlo fare e di staccarmi dal lavoro, non tutti purtroppo possono prendersi tale “lusso”.
Tra la convenzione patriarcale per cui uomo e donna devono far tutto insieme e il potermi guardare allo specchio e riconoscermi, io ho scelto la seconda. Causa pandemia da CoVid, ho seguito Pietro quando è andato a giocare in Spagna per stare un po’ più libera: eravamo su un’isola e le restrizioni, nonostante le norme da rispettare, erano meno rigide che in Italia. In quel periodo, ho avuto modo di riflettere molto e ho realizzato che, al di là del posto meraviglioso in cui vivevamo, non ero del tutto felice: non mi sentivo me stessa.
Ho anche affrontato un percorso di terapia in spagnolo che mi ha fatto capire qual era la ragione più profonda del mio stato d’animo: non accettavo più la scelta che avevo fatto, avevo bisogno di continuare a essere la mamma di Violante e la moglie di Pietro ma anche l’attrice che sono. Sono così ritornata a vivere in Italia e, come tutte le scelte che riguardano la nostra libertà, non è stato né facile né semplice.
Oggi abbiamo invece trovato un equilibrio per cui la distanza tra Roma e Catanzaro è relativa: Violante riesce a vivere tranquillamente il rapporto con il padre e ciò mi ha permesso anche di mettere da parte quel leggero senso di colpa che provavo i primi tempi. Nonostante io sia così aperta, ci son sempre delle radici di patriarcato a livello inconscio su cui occorre lavorare per estirparle: ho capito che non dovevo sentirmi in colpa solo quando ho visto Violante felice.
E sei ora felice e serena come donna?
Se non lo fossi, cosa trasmetterei a mia figlia? Cerco di far capire a mia figlia che in una famiglia lavora la mamma così come lavora papà. A volte, le propongo anche esempi “estremi” ma servono a farle capire l’importanza dell’indipendenza.
Indipendenza fa coppia con emancipazione. Quand’è la prima volta che ti sei sentita indipendente?
A 18 anni. I soldi che avevo guadagnato da minorenne erano ovviamente bloccati dal tribunale e sono stati sbloccati al compimento dei diciotto anni. Le prime parole dei miei genitori sono state: “Li puoi usare, sono soldi tuoi”. Poco dopo mi sono iscritta a Giurisprudenza: volevo fare l’avvocato matrimonialista per difendere le donne, quelle che nella mia ottica di allora erano sempre schiacciate dagli uomini, ma dopo quattordici esami il desiderio di continuare sulla strada della recitazione è stato più forte.
Qual è stata la prima cosa che hai comprato con quei soldi?
Niente di materiale: un viaggio con le mie amiche a Mykonos, in Grecia. Sono sempre stata così, al materiale ho preferito il lato spirituale. Mykonos non era ancora l’isola del divertimento di cui tutti parlano oggi ma ci siamo divertite ugualmente.
Hai raccontato pubblicamente qual è stata la tua esperienza nel mondo della ginnastica artistica che hai frequentato a livello agonistico da giovanissima.
Ho voluto dire la mia in seguito all’inchiesta sugli abusi subiti dalle Farfalle. Il mio contributo giuridicamente era irrilevante ma per me è stato come chiudere un cerchio che era rimasto aperto per troppo tempo. Mi faceva rabbia come si considerassero bugiarde le ragazze e avevo voglia di far sapere che non s’erano inventate proprio nulla. Parlarne pubblicamente ha aiutato anche me a capire quanta sofferenza ho provato non solo allora ma anche negli anni.
Sono sempre stata molto magra ma non lo ero troppo nel contesto della ginnastica ritmica: a dieci o undici anni, un’allenatrice voleva portarmi dal dietologo. La mia famiglia non sapeva nulla di quello che accadeva, rimanevo zitta per paura delle ripercussioni. Ho finito così con l’accumulare esempi sbagliati e interiorizzarli, trasformandoli in insicurezza non solo sul mio corpo ma anche nei confronti di me stessa.
Avevo avuto un’educazione per cui il cibo non era mai stato un problema e il fatto che lo era divenuto aveva rimesso in discussione il mio mondo. Sfruttando un infortunio al ginocchio, ho deciso che era arrivato il momento di smetterla con lo sport: il male fisico era in realtà una scusa per dire basta. Ma erano tutti talmente rigidi da non credere nemmeno alle mie condizioni di salute: per loro, nonostante il dolore, avrei dovuto continuare a sforzarmi per recuperare a due settimane dall’operazione chirurgica.
È stata la tua via di fuga a un sistema sbagliato…
Io ero magra ma c’erano ragazzine che avevano un metabolismo un po’ più lento del mio. Le pesavano tutti i giorni: se avessero preso cento grammi, avrebbero dovuto riperderli. Ricordo la paura delle ispezioni in camera alla ricerca di cibo e i problemi che mi sono portata appresso a livello inconscio fino ai vent’anni e più. Non mangiavo ad esempio davanti ai ragazzi che mi interessavano perché mi vergognavo: pensavo che se lo avessi fatto, non sarei più piaciuta. Ho dovuto anche in questo caso far terapia: se non avessi vissuto quelle esperienze, avrei avuto di certo una vita più facile.
Tra l’altro, il rischio di sviluppare un disturbo del comportamento alimentare era altissimo…
Ho avuto la grande fortuna di essere sempre stata una ribelle. Non sempre mi ha avvantaggiato ma in quel caso mi ha salvata. Anche se avevo paura o mi dispiaceva non compiacere l’allenatrice, di nascosto mangiavo. Ricordo una sera come tutte quante insieme abbiamo deciso di prendere di nascosto una vaschetta di gelato e mangiarla: osservando con quanta voracità le mie compagne di squadra lo facessero, mi sono estraniata. Non era troppo sano quello che stavo vedendo: alla fine, ho preso solo un cucchiaino perché mi sono resa conto all’improvviso della situazione in cui ci trovavamo.
La magrezza non è un’ossessione anche nel mondo del cinema?
Fortunatamente, no. Anzi, a volte è accaduto l’esatto contrario, ero troppo magra per rappresentare la normalità. Ed esserlo a volte è stato anche un ostacolo: il fatto di avere un corpo definito “perfetto” per certi canoni faceva sì che mi chiamassero per ruoli sensuali. Una cosa è certa, dopo l’esperienza da adolescente non avrei mai più accettato di sentir parlare di diete o allenamenti intensivi.
Quando sei rimasta incinta, come hai reagito ai cambiamenti del tuo corpo?
Durante le prime fasi della gravidanza, ho vissuto un momento molto difficile. Scardiniamo il falso mito che quando sei incinta o diventi mamma, è sempre tutto bellissimo: io, ad esempio, ho dovuto interrompere l’allattamento dopo un mese e mezzo dal parto perché i troppi ormoni mi facevano stare male e non riuscivo a godermi più Violante come volevo. E anche in quel caso non sono mancati i giudizi da parte di chi considera l’allattamento al seno un passaggio obbligatorio, in ogni circostanza.
Più che i cambiamenti fisici, le prime fasi della gravidanza sono state difficili perché da anemica sono rimasta per tre mesi a letto con attaccate le flebo. Mi ero anche molto demoralizzata, ma nonostante tutto sono riuscita a promuovere due film che uscivano contemporaneamente. È come se avessi trovato un punto di incontro tra la mia carriera e il mio essere madre.
Diventare mamma è un diritto che rientra nel concetto di emancipazione femminile. Eppure, c’è chi era pronto a dire la sua se da incinta viaggiavo per motivi di lavoro. Sono una persona molto empatica e riesco a sentire anche ciò che non mi viene detto: persino persone a cui ho voluto anche molto bene, che non fanno però parte della mia famiglia, hanno avuto tali pensieri e ci ho sofferto tantissimo.
Sono andata anche in terapia ma dopo 4/5 sedute avevo risolto il problema, mi sono ripresa. Ho terminato la gravidanza in maniera felice ma il merito è stato anche di mia madre che ha riconosciuto la mia debolezza e mi ha spinta a reagire per evitare di cadere nelle trappole della mentalità patriarcale. Le persone dovrebbero stare attente alle parole che usano e a come le usano, pensando che i loro semplici ragionamenti possono condizionare tantissimo le vite degli altri. Devo anche a mia madre e alla sua mentalità meno tradizionalista il non avere maturato molta apprensione nei confronti della bambina dopo il parto.
Da parte di chi venivano le critiche? Uomini o donne?
Più dalle donne. Dagli uomini ce lo aspettiamo sempre ma dalle donne no. Credo che le persone che feriscono sono spesso quelle che sono state ferite: hanno talmente subito alcuni meccanismi della società patriarcale da sentirli propri e metterli in atto inconsciamente. Noi donne abbiamo dentro una grande forza che si chiama empatia che dovremmo sfruttare al meglio per aiutarci e non per metterci l’una contro l’altra.
Cos’è per Giulia Gorietti la femminilità?
Un bel pensiero interiore. E lo sto capendo soprattutto negli ultimi anni. La bellezza per me è armonia e l’armonia può trovarsi in qualsiasi cosa. La femminilità deriva sempre da un’armonia interiore.
Ti somiglia Violante?
Molto. Spesso rivedo in lei me da piccola, con tutti i suoi capricci e la sua vena ribelle. Da piccola ne ho combinate di ogni: mio padre mi dava un orario per rientrare a casa. Lo facevo: rientravo all’ora prestabilita, dicevo ai miei che ero tornata, fingevo di mettermi a letto e poi uscivo di nascosto. Sono stata tremenda. Adesso bisognerà capire cosa combinerà Violante crescendo ma i presupposti ci sono tutti per “divertirmi”: quando si arrabbia con me, la osservo e non posso non pensare a quanto sia monella già a cinque anni. Poi, come me, è un po’ maestrina: deve dire quello che sa non per supponenza ma per voglia di cercare di aiutare gli altri.
In cosa somiglia, invece, al papà?
Di papà ha l’animo da “calabrisella”, grintoso. Come direbbero a Napoli, ha una certa cazzimma. E come lui è molto testarda. Lo sono anch’io ma Pietro è proprio testardo se si impunta (ride, ndr). Violante è una bambina molto intelligente e anche matura per la sua età, anche se delle volte è in grado di mandarmi in crisi. Ultimamente, fa tante storie per i vestiti. Mi dispiace che si accanisca su una cosa così superficiale ma capisco che nasce dal bisogno di affermare la propria personalità. E poi a volte vorrebbe emulare chi vede in tv o sullo smartphone.
Saltuariamente?
Non sono molto a favore dell’uso degli smartphone da parte dei bambini: non hanno ancora gli strumenti adatti per decifrare quello che vedono per cui vanno sempre accompagnati. Ogni tanto, però, cedo per evitare che venga esclusa dalle amichette per essere l’unica a non usarlo. La società sta cambiando e anch’io devo essere un po’ più elastica. È una questione di educazione, ambito su cui mi pongo molto domande: nessuno insegna come essere il genitore perfetto.
Sei da sempre molto impegnata nel sociale.
Mi interessa molto la situazione delle donne all’estero. Mi dispiace molto che non si parli più della situazione delle donne iraniane: ho partecipato a molte manifestazioni e preso parte a una serata in teatro con tante donne della politica, del giornalismo e del mondo dello spettacolo, durante la quale mi sono emozionata tantissimo per il reading di una poesia tenuto da me in italiano e da una poetessa iraniana nella sua lingua.
Purtroppo, dopo l’exploit di notizie, servizi giornalistici e ciocche tagliate, è scemata l’attenzione. Ma il problema resta: molte donne hanno perso la vita e altre stanno lottando per amore delle generazioni che verranno, incuranti anche del pericolo a cui si espongono ma per nulla disposte a farsi imbavagliare.
Mi piacerebbe che la stampa continuasse a parlarne. Così come mi piacerebbe che ogni politico italiano adottasse un prigioniero politico iraniano. Per non inimicarsi i governi occidentali, quello iraniano tende a sollevare dalla prigionia o evita che si giustizino i prigionieri adottati dai parlamentari esteri. Che costerebbe ai nostri farlo? Sono molto preoccupata delle sorti di Ali Davari, un ragazzo di 19 anni accusato di aver fatto guerra a Dio dopo aver difeso delle donne aggredite dalla polizia iraniana. È da tempo che non si hanno più sue notizie, sarebbe bello se qualcuno si interessasse alla sua causa.