Entertainment

Giulia Galassi: “In trasformazione, senza etichette” – Intervista esclusiva

giulia galassi
Nei panni dell’educatrice Simona nel film Il mio compleanno, prodotto con il sostegno di La Biennale Cinema, Giulia Galassi si racconta a TheWom.it decostruendo alcune delle etichette che la società moderna impone non solo alle attrici ma in generale a chi si discosta dai limiti prestabiliti.
Nell'articolo:

Nel panorama cinematografico contemporaneo, parlare di empowerment femminile non significa solo esaltare figure femminili forti, ma anche riconoscere la complessità e la profondità delle esperienze vissute dalle donne: Giulia Galassi incarna questa complessità nel ruolo di Simona, l’educatrice di Riccardino nel film Il mio compleanno, un personaggio che riflette tanto l'amore quanto la lotta interiore e il desiderio di cambiamento. "Non ho ancora visto il film completato: il regista ci ha chiesto di vederlo tutti insieme in sala direttamente con il pubblico al Festival di Venezia", confida Giulia Galassi, sottolineando il doppio impatto emotivo che proverà sia come attrice che come spettatrice.

Interpretare Simona è stato per Giulia Galassi, classe 1987, un viaggio che ha toccato corde profonde, portandola a riflettere non solo sulla propria professione ma anche sulle dinamiche di potere, amore e cura che esistono tra donne. Simona non è solo un'educatrice, è una figura di riferimento che, nonostante le difficoltà e le contraddizioni, incarna una forma di maternità alternativa, dimostrando che l'amore e la protezione non sono legati al sangue ma all'anima e all'impegno.

Simona, con il suo percorso di crescita personale, rappresenta una figura femminile che, nonostante non sia più giovane come Riccardino, affronta la vita con una vitalità e una forza che sfidano le norme sociali sulla giovinezza e l'età. Giulia Galassi stessa si riconosce in questo continuo sforzo di decostruire le narrazioni imposte dalla società, soprattutto quelle riguardanti il "momento giusto" per fare certe scelte nella vita.

In un mondo che spesso riduce il ruolo delle donne a stereotipi, Giulia Galassi ci ricorda l'importanza di storie che esplorano la complessità dell'esperienza femminile in tutte le sue forme. Il suo impegno nel dare vita a Simona è un atto di resistenza contro le etichette e le limitazioni che ancora affliggono le donne, sia dentro che fuori dallo schermo. Ed è attraverso personaggi come Giulia Galassi che possiamo vedere il vero volto dell'empowerment: non una forza che domina, ma una che ispira, guida e ama.

LEGGI ANCHE: Venezia ’81: Il mio compleanno, la storia di un giovane alla ricerca della madre

Giulia Galassi.
Giulia Galassi.

Intervista esclusiva a Giulia Galassi

“Non ho ancora visto il film completato: il regista ci ha chiesto di vederlo tutti insieme in sala direttamente con il pubblico a Venezia”, esordisce Giulia Galassi quando le chiedo se ha già avuto modo di visionare il lavoro fatto per Il mio compleanno. Una richiesta quella di Christian Filippi che le permetterà di vivere le emozioni su due fronti differenti, da un punto di vista privato e da uno pubblico: “Giocherò una carta un po’ rischiosa: probabilmente l’emotività, per come sono fatta io, straborderà ma va benissimo che sia così. È stato un percorso così bello e anche molto partecipato da parte di tutti che è anche più emozionante viverci insieme la prima volta sul grande schermo”.

Nel film, interpreti Simona, l’educatrice di Riccardino. Come te la sei disegnata?

Mi sono vissuta Simona con tanto amore: mi ha particolarmente colpito il suo percorso personale, oltre che la sua professione e il profondo amore che nutre nei confronti di Riccardino, per il quale rappresenta sia una figura di riferimento sia colei che prova a mettergli i bastoni tra le ruote per il progetto d’amore che ha in mente. Ma ho vissuto appieno anche tutte le contraddizioni di Simona, che mi auguro vengano fuori e si notino.

Soprattutto sul finale…

Un aspetto che ho amato tantissimo della storia in generale è il percorso che porta Simona a fare una scelta di cambiamento. Per quanto non sia più giovane quanto lo è Riccardino, ha ancora davanti a sé tutta una vita da esplorare.

“Non più giovane come Riccardino”: è una frase che possiamo attribuire anche a Giulia Galassi? Che rapporto hai con la parola “giovane”?

Certo, mi appartiene. Al di là di tutta la retorica sull’età giusta per far le cose e che cerco di decostruire continuamente nella vita di tutti i giorni, siamo inseriti in un sistema per cui c’è un momento giusto per ogni tappa della vita, tanto che quando provi a uscire dalle regole prestabilite ti senti chiedere “Ma dove vai? Ma che fai?”. Senza che si tenga conto che è il passare dell’età che ti dà una consapevolezza diversa per le scelte da fare, scelte che diventano più ponderate e ragionate. Cerco di decostruire tale retorica ma poi, ahimè, ci casco dentro con tutte le scarpe.

Scelte ponderate che variano in base all’età: cosa significava per te essere attrice a 18 anni e cosa significa esserlo oggi?

A diciotto anni non avevo nemmeno deciso di voler fare l’attrice, un mestiere che negli ultimi vent’anni è cambiato tantissimo. Mi sono avvicinata alla recitazione nel 2007, avevo vent’anni appena compiuti e ho frequentato i primi laboratori in un momento storico in cui non esistevano ancora i social. La prospettiva sul mestiere era un’altra rispetto a quella che se ne ha oggi e a ciò che comporta in termini di esposizione. Più che per me, credo sia cambiata all’esterno la percezione di quello che è il lavoro dell’attore…

Se dovessi soffermarmi alla mia esperienza, direi che un punto di svolta importante per me è stata la Scuola Volonté: divido il mio percorso in un prima e dopo rispetto al senso di responsabilità per la professione. Prima, consideravo il far l’attrice da una prospettiva un po’ più frivola e anche ego riferita: c’era il desiderio di mettersi in mostra nel voler raccontare storie. Dopo, invece, ho cominciato a ridimensionare il ruolo dell’attore considerandolo solo come un ingranaggio di una macchina molto più grande.

Sarà anche per questa ragione che, soprattutto nell’ultimo anno, ho realizzato di preferire al teatro il cinema, dove la realizzazione di un lavoro non dipende soltanto dall’attore in scena con cui il pubblico può immedesimarsi ma anche da tutte le figure che ruotano su un set, fondamentali tanto quanto gli attori.

Cos’è che a vent’anni ti ha portato a desiderare di diventare attrice? Nasci in provincia di Chieti, in un universo sicuramente non cinematografico.

È un desiderio a cui sono arrivata lentamente. Sono arrivata a Roma nel 2005 da Guardiagrele, un paesino dell’Abruzzo dove vent’anni fa pensare di fare l’attrice era alquanto improbabile: era come pensare di diventare astronauta! Cresciuta lontana da realtà metropolitana, in provincia e in una famiglia molto tradizionale di medici in cui nessuno ha mai avuto aspirazioni artistiche, non sapevo nemmeno quale fosse il percorso da affrontare.

Internet esisteva da poco e ricordo ancora le primissime ricerche per quale università frequentare dopo il diploma di maturità classica: non avevo idea di quale facoltà scegliere ma ero consapevole che mi sarei dovuta trasferire a Roma, era l’unica certezza che avevo.  Nella confusione in cui ci si ritrova spesso a stabilire chi diventare, scelsi un corso alla Sapienza alla facoltà di Scienze Umanistiche a indirizzo spettacolo. Lo feci perché comunque mi piaceva il cinema: in maniera naif, ero appassionata della settima arte come lo poteva essere una ragazzina di provincia dei primi anni Duemila che raccoglieva le vhs in edicola con i quotidiani o le riviste.

Ma da ragazzina mi piaceva anche molto il teatro. Intorno ai 13 o 14 anni, avevo visto a Milano una Madame Bovary con la regia di Gabriele Lavia e l’interpretazione di Monica Guerritore che mi aveva colpito ed emozionato tantissimo. Da amante della lettura, trovavo bellissimo poter raccontare storie e condividerle da sopra un palco.

E come sei poi arrivata alla recitazione?

Cominciata l’università con l’idea di scrivere o comunque di vedere come sarebbe andata, ho iniziato a frequentare un laboratorio di teatro su Shakespeare convita dalla mia coinquilina del tempo: serviva per i crediti formativi, sarebbe dovuta terminare lì e, invece, è scattato il colpo di fulmine. Ho realizzato che stavo bene nel fare teatro e che mi procurava entusiasmo ma ho impiegato molto tempo, un paio di mesi, prima di ammettere a me stessa e dirmi ad alta voce che era quello che volevo fare.

E in casa come l’hanno presa quando hai comunicato le tue nuove aspirazioni?

Hanno accolto con grande naturalezza il tutto: mi è stato anche detto che “lo sapevano già”. Ed è stato strano perché non sono mai stata una di quelle bambine che salivano sulla sedia per declamare poesie. Avevo sì preso parte a qualche recita scolastica ma non da protagonista e, quindi, la loro reazione mi è sembrata curiosa ma anche, chiaramente, molto bella. Rispetto ad altri ragazzi e ragazze che hanno le famiglie non proprio entusiaste se non addirittura contrarie, mi reputo fortunata da questo punto di vista.

Ed è iniziato tutto così, con mia madre che mi invitava a studiare e a capire quale fosse il percorso giusto da seguire. Da quel momento, sono entrata nell’ottica per cui, per fare l’attrice, avrei dovuto studiare.

Il mio compleanno: Le foto

1 / 10
1/10
2/10
3/10
il mio compleanno foto matteo casilli
4/10
il mio compleanno foto matteo casilli
5/10
il mio compleanno foto matteo casilli
6/10
7/10
8/10
9/10
il mio compleanno foto matteo casilli
10/10
PREV
NEXT

La famiglia di Riccardino nel film Il mio compleanno è disfunzionale per molti aspetti. Com’era la tua?

La mia famiglia era abbastanza funzionale, per quanto si possa aprire una parentesi enorme sul concetto di famiglia. Il film, ambientato in una casa-famiglia, mostra come se esistano legami di cuore che nulla hanno da invidiare ai legami di sangue. E tale concetto, sebbene io sia cresciuta in una famiglia italiana tipica con i miei che si sono sposati dopo essersi conosciuti da adolescenti, mi appartiene: considero famiglia non solo i miei ma anche gli amici con cui sono cresciuta, allargando l’orizzonte al di là dei legami di sangue. È un imprinting che mi porto da sempre e che prescinde dalla formazione che ho avuto: per me, è importante creare dei rapporti che siano d’amore, come quello che Simona crea con Riccardino…

…ribadendo, qualora ce ne fosse bisogno, che un figlio è tale anche se non ti appartiene.

Non ho ancora figli e non so se ne avrò mai ma l’idea di poter essere madre di figli d’altri è qualcosa che non escludo possa accadermi, proprio così come succede a Simona. Quella che ha con Riccardino è una relazione molto bella che li rende complici, fratelli, amici e quasi platonicamente innamorati per via di un paio di momenti di tenerezza. In Riccardino, Simona rivede comunque molto di lei e c’è una forma di transfert che, per quanto neghi, lo rende il suo preferito.

Il non sapere di avere un giorno un figlio dipende anche dal lavoro che hai scelto di fare o appartiene alla sfera delle ipotesi che tutti quanti facciamo?

Entrambe le cose. Questo lavoro, purtroppo (e sottolineo purtroppo), inficia molto la vita privata. A proposito di retorica sull’età per cui si può far qualcosa, dopo dieci anni di gavetta ho oggi il mio primo ruolo importante nel film Il mio compleanno e di anni ne ho 37. Potrebbero da un istante all’altro cambiare molte cose, non si sa mai, per cui è sempre presente il pensiero per cui “non è mai il momento” per pensare a un figlio. Ma è una decisione che comunque è dettata anche da molti fattori socio-economici… rispetto ad altri colleghi e colleghe, sono stata fortunata: sono molti quelli che ho conosciuto e che a un certo punto hanno mollato perché a livello economico non ce la facevano più.

E, quindi, ribadisco che è una questione sia di tempo sia di ideologia, mettiamola così. Fare un figlio, purtroppo, comporta meno tutele per un’attrice, proprio così come per tutte le donne che lavorano. Si chiede a noi donne di essere madri ma anche lavoratrici e altre mille cose insieme senza che però da nessuna parte vengano date le possibilità e le condizioni per conciliare il tutto. E da attrici, oltre a preoccuparci di un lavoro precario, dobbiamo ricordarci di essere sempre performanti, disponibili e in forma.

Giulia Galassi.
Giulia Galassi.

Viene ancora chiesto di essere “in forma”?

Rispetto a dieci anni fa qualcosa è cambiato ma si deve rispondere sempre a certe dinamiche e certi diktat. È stato fatto qualche passo in avanti sulla percezione dei corpi e sulla normalizzazione di quella che può essere una taglia 44… è raro che per un uomo ci sia tutta quest’attenzione sul fisico. Il mio sogno è che un giorno non si parli più di magrezza o di corpi sovrappeso, dell’essere in forma o non esserlo: mi piacerebbe che si valutasse un’attrice per le sue caratteristiche o per il suo essere giusta per una storia, per un personaggio o per un contesto narrativo, senza che le si chieda di ingrassare o di dimagrire. Un pensiero che possiamo allargare a ogni sfera e ambito, a partire dalla vita di tutti i giorni.

Che vuol dire per te essere “in forma”?

Da grande amante delle parole e delle etimologie, credo che essere in forma spesso possa volere dire essere con-forme (a un canone, una regola, un’idea esterna), stare dentro dei limiti imposti e in maniera immutabile insomma… e, visto che le etichette per conformarci le vogliamo abolire, a me di essere “in forma” poco importa. Io, piuttosto, mi voglio continuamente trasformare.

Trans-formare, come il protagonista della serie tv The Place of Living di Maria Sole Tognazzi, che vedremo prossimamente e che ti vede tra gli interpreti.

Sfondiamo una porta aperta su quelle che non sono nemmeno scelte ma modi di stare al mondo. Rispetto all’identità di genere così come alle forme dei corpi, c’è tutta una distorsione che porta a farci sentire sbagliati quando fino a un momento prima eravamo convinti di stare nel giusto. Chi vive una disforia non sa di viverla fino a quando qualcuno non deciderà di etichettarlo in un determinato modo, come se si fosse dei prodotti da supermercato: chi non sta facendo del male a nessuno perché deve sentirsi condannato dalla società circostante se ha qualche chilo in più o non corrisponde al sesso biologico che si è ritrovato attribuito alla nascita?

Hanno mai provato a porti un’etichetta addosso?

Purtroppo, sì. Come accade anche a molte altre persone, vivo quotidianamente la contraddizione del mettermi da sola un’etichetta addosso per rientrare nei canoni con cui siamo cresciuti: quando eravamo bambini e bambine, ci hanno per anni bombardato il cervello con i modelli da seguire o entro cui stare. E quindi giornalmente lotto per eliminare le etichette, una pratica quotidiana molto faticosa.

È la voglia di star fuori dalle etichette che ti ha portata nel tempo a prendere parte a progetti di un determinato tipo, come Sole, Trafficante di virus o Il mio compleanno?

Sì, sicuramente quei lavori corrispondono alla mia esigenza. Ma ho anche avuto la fortuna che succedesse perché, comunque, il paradosso del lavoro dell’attore è anche quello di avere un’idea di partenza del mestiere o di come farlo che non sempre corrisponde a ciò che si raggiunge… per cui, capita anche che ti propongano progetti che non ti corrispondono ma che accetti per una questione di sostenibilità economica o per fare esperienza. Sono stata fortunata perché, per quanto relativamente piccoli, i ruoli che ho interpretato sono per opere che poi sono stata molto contenta di vedere anche da spettatrice.

Per Il mio compleanno, ti sei addentrata nel mondo delle case-famiglia?

Si, ho conosciuto e incontrato molti operatori del settore, che mi hanno aiutata a capire le dinamiche e le emozioni in gioco: Flavio Lombardozzi per Casa Famiglia Bice Porcu, Marco Bordino per ARPAd (Associazione romana per la psicoterapia dell’adolescenza) e Simona Vasallucci per Casa Famiglia Simpatia. Sono loro che mi hanno aiutata rispetto a quel discorso che si faceva prima su cos’è ‘famiglia’, su cosa vuol dire ‘figlio’ e sul mantenere professionalmente le distanze da coloro con cui si instaura comunque una relazione d’amore.

In più, ho compreso dalle loro esperienze quanto difficile sia interfacciarci con un sistema burocratico pachidermico, che ruba tempo e frappone ostacoli. Gli operatori delle case-famiglia fanno un lavoro straordinario con pochissimo sostegno da parte delle istituzioni non solo economico ma anche morale: la percezione che si ha del lavoro sociale che portano avanti è purtroppo infinitesimamente piccola rispetto alla grandezza del loro fare.

La cosa curiosa è come anni fa mi fosse capitato di fare un lavoro sociale per due estati di fila: ho accompagnato, tramite il servizio di assistenza sociale, dei ragazzi appartenenti a realtà disagiate in vacanza stando con loro in un villaggio turistico per due o tre settimane. Ho dunque avuto la mia esperienza diretta sul campo, sebbene molto diversa da quella della mia Simona.

Giulia Galassi.
Giulia Galassi.
Riproduzione riservata