Giulia Greco è un vulcano di energia. Attrice che in questo momento apprezziamo nella serie targata Disney+ Le fate ignoranti, Giulia Greco ti travolge con la sua contagiosa allegria e ironia. È impossibile quasi tenerle testa, è un fiume in piena che sprizza felicità a ogni poro. E tale felicità è anche connessa alla sua Gaia, la bimba che sta per mettere al mondo.
Cominciamo quest’intervista proprio dopo un tracciato. Giulia Greco è al nono mese di una gravidanza, che è arrivata quasi inaspettata nella sua vita mentre stava per cominciare le riprese di una nuova serie tv per Mediaset. Con grande onestà, quando ha scoperto di essere incinta, ha informato la produzione e ha preferito scegliere diversamente. Avrebbe potuto cavalcare, a specifica domanda, la polemica. E, invece, no. Nonostante la faccia tosta, come dice lei, è molto timida e fragile.
Non nasconde la fragilità mentre parliamo. Ha il coraggio di affrontare un argomento intimo e delicato, di ammettere il suo star male per qualcosa che le è accaduto e che solo una donna può comprendere fino in fondo. Tuttavia, non nasconde nemmeno la sua autoironia e la sua voglia di ridere. Ride tanto Giulia Greco mentre parliamo. Come tanto si prende in giro ma sempre con sincerità disarmante.
Giulia Greco ha nel curriculum film indimenticabili come Non essere cattivo del maestro Caligari, a fianco di Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Ma ha anche esperienze nel mondo del doppiaggio, di cui parla senza peli sulla lingua, e un primo “vero” lavoro da dipendente in una casa editrice per audiolibri. Con noi, ripercorre le sue esperienze e la sua formazione, racconta tanto di sé e sogna.
Del suo essere “bruttina”, così come qualcuno in passato le ha detto, si sono innamorati in tanti, da Carlo Verdone a Gigi Proietti. E di Giulia Greco, permetteteci di scriverlo, ci siamo innamorati anche noi: in un mondo in cui l’apparenza e l’effimero sovrastano l’essenza, lei ha scelto di essere vera. Un pregio che nemmeno una papaya alle quattro di notte (leggendo l’intervista capirete il riferimento) può regalarti: la nobiltà d’animo non si misura con ruoli o premi.
Intervista esclusiva a Giulia Greco
Dal momento che stai quasi per diventare mamma, la prima domanda è d’obbligo. Com’è cambiato il rapporto con il tuo corpo in questi mesi? È stato stravolto?
Sicuramente sì, è stato stravolto. Sono però stata molto attenta non tanto al cibo ma a sentire quelle che erano veramente le mie esigenze nutrizionali. Da un punto di vista estetico, ovviamente è cambiato ma è cambiato molto di più da un punto di vista emotivo, psicologico. Non voglio sembrare quella che dice: Che bella con la panza e con la ritenzione idrica, non vedevo l’ora di vedermi i piedi gonfi! (ride, ndr). Però, sapete cosa c’è? Ho vissuto la gravidanza in maniera felice, pur vedendo chiaramente il mio corpo modificarsi giorno dopo gioco. Sono contenta, mi piace vedermi così: è una bella sensazione!
Come attrice, stai vivendo un momento particolarmente fortunato. Ti vediamo su Disney+ nella serie tv Le fate ignoranti nei panni di una delle “Tre Marie”, che funzionano come da coro a tutta la storia. Com’è stato lavorare con Ozpetek e tutto il suo popolato set?
È stato molto divertente. Non tanto per le risate o le battute ma a livello creativo. Ferzan è estremamente disciplinato. Per fortuna, direi, perché a me piace tanto la rigidità di certe cose che avvengono in scena.
Non amo molto, ma perché forse non è nelle mie corde, l'improvvisazione senza in realtà uno studio dietro. Mi piace improvvisare quando c'è una forte base della memoria, una forte base di quello che tecnicamente devi fare: ti senti più sicura tu e non metti in difficoltà i colleghi. Un conto è improvvisare quando hai una bella base forte e un conto è improvvisare cose che vanno da un'altra parte. E poi con l’improvvisazione, a volte, si rischia di essere autocelebrativi: ci si diverte sul set ma al pubblico non arriva nulla.
Lavorare con Ozpetek è la conferma che si può coniugare formazione e improvvisazione ma col massimo della professionalità. È stato creativo ma rigido allo stesso tempo. E la sua, secondo me, è la formula migliore per far sentire un attore naturale, protetto e, soprattutto, valorizzato sempre.
Ma so che avresti dovuto essere anche nel cast di un’altra serie tv importante, Il patriarca, con Claudio Amendola, prossimamente in onda su Canale 5.
Ma non l’ho potuta girare per motivi di… gravidanza! Si è trattato di una scelta assolutamente legittima della produzione.
Sebbene io e Claudio fossimo nel cast di Come un gatto in tangenziale e Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto di Riccardo Milani, non c’eravamo mai incontrati. Al di là della mia evidente “coattanza”, Milani mi ha messa in ghingheri per far parte dell’universo di Albanese.
Avrei dunque avuto voglia di girare con Claudio, gli ho fatto da spalla durante i provini ma non sapevo ancora di essere incinta. Quando ho informato produzione, è chiaro che le due cose non potevano coincidere, considerando la sovrapposizione delle riprese con l’avanzare della mia gravidanza. Mi sono messa nei panni della produzione e, a malincuore ma con grande ottimismo, si è scelto di rinunciare. Rinunciare non è neanche la parola giusta: ho preferito scegliere altro!
Però, non per essere polemici, torniamo ancora una volta alla storia per cui una donna incinta è considerata alla stregua di una donna “malata”. Non potevi stare ugualmente sul set a fare il tuo lavoro?
Sono del parere che la gravidanza sia qualcosa da affrontare “normalmente” ma in certi contesti viene vista solo ed esclusivamente sotto un aspetto clinico. Io ho avuto qualche difficoltà solo il primo mese, dovuto a un distacco della placenta.
Venivo da una brutta mia esperienza personale, affrontata lo scorso anno. Questa tecnicamente non è la mia prima gravidanza ma la seconda. Dopo un aborto terapeutico al quarto mese, ho attraversato un momento di grande depressione. Devo dire che mi ha aiutato tantissimo, a parte mio marito, adottare un cagnolino: non si è trattato di “sostituzione” ma mi è servito per uscire da quel momento di chiusura e totale sconforto. Ero diventata un’altra, pesavo quaranta chili. Ora riesco a parlarne con grande consapevolezza ma anche con una certa dose di commozione interiore, che chiaramente non passerà mai.
Quindi, tornando al discorso di prima, gli altri otto mesi di questa gravidanza sono stati facilissimi. Ho anche fatto uno spettacolo teatrale fino a due settimane fa: ero in scena e ballavo sulle note dei Backstreet Boys. Così come ho continuato a lavorare nella casa editrice di cui sono, per la prima volta in vita mia, una “dipendente”, la Full Color Sound: sono stata lì fino all’ottavo mese nonostante tutti mi dicessero che “per legge” dovevo stare a casa. Come vedi, ci sono realtà in cui ti abbracciano e non ti vedono come “malata”.
Però, so di dire una cosa forte, dipende anche da chi sei. Se sei un’attrice molto conosciuta a cui il regista non vuole rinunciare, ti si aspetta, si fanno coincidere tutte le riprese durante i primi mesi quando non si nota ancora il pancino o si ricorre anche a espedienti tecnici. Ci si riesce e si fa. Nel Patriarca avevo sì un ruolo fisso ma, non nascondiamoci dietro un dito, facilmente sostituibile. Per quanto io sia la più bella e la più brava (ride, ndr), un’altra era pronta. E poi, effettivamente, chi si prende la responsabilità di avere sul set un’attrice che sta al nono mese di gravidanza avanzato? È oggettivo.
La produzione avrebbe voluto comunque tutelarmi da un punto di vista economico. Sono stata io a non accettare: non mi sembrava una cosa giusta. Per me, rifiutare è stato un modo per mostrare loro la mia buonafede in tutti i sensi: non sapevo nemmeno io di essere incinta! Non avrei mai mentito: non sono una di quelle attrici che, pur sapendolo, quando sanno di aver pochi giorni di lavoro, si presentano sul set e lo nascondono. Sapessi quante ce ne sono. Era, per me, una questione di onestà nei confronti di Claudio prima e di tutta la produzione dopo. Si trattava di tanti mesi di lavoro: se fosse stato solamente per un mese, mi sarebbero venuti incontro.
Certo, ci sono rimasta male, non dico di essere contenta: porca miseria, manco è nata e già mi rompe i c****ni! (ride, ndr).
Quando è nata in te la passione per la recitazione?
Beh, già a dieci anni volevo fare l’attrice. Poi ho accompagnato una mia amica ma hanno preso me. Qualcuno per strada ha notato la mia implacabile bellezza e bla bla bla. No, non è andata così, la mia strada è stata diversa da quella che raccontano quasi tutte. Ho frequentato il liceo classico e, come si sa, dopo il classico ti aspetta una serie di opzioni da valutare per l’università. Ma io, seppure andassi bene a scuola, non ho mai amato lo studio, non mi ha mai presa. Studiavo per forza, di secchiona bastava la mia sorella gemella, con cui ho tuttora un rapporto meraviglioso!
Quindi, ho deciso di iscrivermi al DAMS per esclusione! Mi interessava il mondo dello spettacolo ma non ero entusiasta di far qualcosa in particolare. Dopo i primi mesi, però, mi è capitato tra le mani il volantino di un’accademia di cinema e teatro. Ho chiamato il numero della scuola per informazioni: costava un botto! E io ho strappato il volantino. Ma mia madre ha rimesso insieme i pezzi e mi ha spinto a frequentarla. È stata una cosa molto romantica, mi ha detto: “Vai, non me ne importa niente del costo!”. Ed è finita che ho vinto la borsa di studio.
Mi sono innamorata di questo lavoro facendolo. Non avevo il fuoco sacro della recitazione, non ho iniziato mettendomi i tacchi di mia madre e facendo il verso alle cantanti. Assolutamente no. Ho studiato semmai, ho studiato fino in fondo tutto quello che si poteva studiare.
All’inizio, però, mi ritenevo una grandissima attrice drammatica, mi prendevo tanto sul serio! Ero molto teatrale perché appesantita dall'idea di una recitazione sempre molto contrita, molto dura e molto faticosa. Almeno finché un bel giorno ho cominciato a lavorare. Mi sono allora sentita dire che ero buffa, che ero bruttina, che ero simpatica. E lì, apriti cielo!, sono andata in crisi totale. E invece poi mi son detta: “Sai che c’è? Forse forse ‘sto naso non me lo rifaccio!” e ho cominciato a divertirmi.
Ti dicevano bruttina? Secondo quali canoni?
Secondo i canoni diciamo “oggettivi”. E il che fa anche dubitare: esiste l’oggettività della bellezza? A quanto pare, sì. Da noi la classica bella canonica bionda con gli occhi azzurri non potrà mai essere sostituita, soprattutto in televisione, dal cosiddetto “carattere”, come vengo definita io.
A me ricordi tantissimo Rossy De Palma, straordinaria attrice spagnola che protagonista dei film di Pedro Almodovar lo è.
Ma lo hai detto perché hai studiato e lo sai? (ride, ndr). Io ho imparato lo spagnolo per vedere i film di Pedro Almodovar in originale. Su WhatsApp ho una foto profilo in cui siamo io e Pedro. Se mi mettessero a fare un film con Rossy de Palma, potrei anche chiudere i battenti: più di questo non potrei chiedere alla vita!
Ora che mi ci fai pensare, Almodovar e Ozpetek condividono molti elementi del loro cinema, dalle tematiche lgbtqia+ alla coralità, passando per l’importanza del cibo.
Non credo che sia una casualità il modo in cui entrambi dipingono la donna: così colorata, così protagonista, così brillante, così triste ma non patetica, anche quando presentano storie molto laceranti. Il loro amore sviscerato per un certo di tipo di cinema estremamente intelligente finisce, per fortuna, per favorire una comicità come la mia e non la bellezza “oggettiva”. Pensa che fino a qualche tempo fa, mi sarei “ribaltata” non dico tutta ma quasi. Andai addirittura da un chirurgo plastico per farmi ritoccare gli occhi e farli diventare della stessa grandezza. Non l’ha ovviamente fatto, anzi mi ha detto: “Se qualcuno ti toccherà, lo denuncerò!”. È diventato uno dei miei più cari amici, il mio psicologo più che il mio chirurgo!
In questi giorni a Cannes, grazie al film Le otto montagne, si è ricomposta la mitica coppia formata da Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Tu hai avuto la fortuna di lavorare con loro in Non essere cattivo, l’ultimo canto del cigno del maestro Claudio Caligari. Quanto si impara su un set come quello?
Si impara sicuramente tanto. è stata una di quelle esperienze che ti fa rendere conto come si possa imparare tanto con poco: non sempre si impara così tanto su un set con a disposizione grandi mezzi economici. Impari a lavorare con il cuore, con le viscere, con il mestiere, con il sacrificio, col freddo a Ostia alle quattro di notte. E con un maestro che, nonostante fosse in evidente difficoltà motoria e vocale, stava lì: non gli sfuggiva nulla. Valerio Mastandrea è stato il suo braccio, il suo corpo, ma l’anima del film era quella del maestro. Sono super felice che Caligari sia riuscito a vedere il film finito.
Non dimenticherò mai cosa mi disse quando mi ha visto, a partire da “la scena della cocaina falla tu perché hai la faccia da tossica”. Sebbene io sia astemia, l’ho preso come un complimento!
Da uno come Caligari impari cosa significa fare veramente quello in cui credi davvero. Ha messo nel film tutto il suo cuore, anche di fronte alla morte. A parte gli attori (con la loro innegabile bravura), tutti su quel set avevano a cuore le sorti di un progetto che era nobile e che andava al di là di tutto, dei soldi e del bel film che poi era.
Anche perché, se non sbaglio, voi avete accettato a scatola chiusa di far parte di quel film anche quando ancora non c'erano i soldi per finirlo. Ricordo ancora quando Mastandrea raccoglieva i fondi per ultimarlo.
Stiamo parlando però di un'altra dimensione, in cui il cinema è relativo. È una cosa che è andata oltre. Nessuno di noi poteva pensare che potesse avere un riscontro così importante, così bello, così amato. Perché comunque non sapevamo nemmeno se fossimo in grado di finirlo o no.
Mi piace ricordare anche un altro grande maestro con cui hai lavorato ma che, come Caligari, non c’è più: Gigi Proietti.
Da Gigi non ho imparato solo aspetti attoriali e non spetta a me dire quanto fosse un maestro. Ma quello che ho più imparato da lui sono stati la generosità e come ci si comporta sul set. Vi racconto un aneddoto. Un giorno, giravamo sotto la pioggia. Per riscaldarmi, mi ero seduta di nascosto accanto a una caldaia. Non sapevo che fosse la sua. Mi ha vista e ha preteso che rimassi lì finché non mi fossi riscaldata. Quanta grazia e umiltà: la professionalità vera non è mai divismo. Soprattutto, quello spicciolo o stupido di chi pretende la papaya alle quattro di notte altrimenti non gira. La professionalità non è qualcosa che impari: o ce l’hai o non ce l’hai. Capita a tutti di incontrare in qualsiasi lavoro personaggi e figure, anche di rilievo, poco professionali: uno dovrebbe cercare di ridimensionarli e di far capire loro quanto sono ridicoli.
Parlavamo prima della casa editrice per cui lavori. Hai mosso qui i primi passi come doppiatrice di audiolibri. Una professione che reputo bella anche perché permette ha chi ha delle difficoltà di sognare, imparare e divertirsi con i libri.
Nasce tutto da lì anche se, ti dirò di più, pian piano sempre più persone ricorrono all’audiolibro mentre sono bloccati in mezzo al traffico o stanno facendo jogging. Sono diventati come una sorta di podcast. Tutto per me è nato perché la mia vita è sempre stata segnata dal cercare lavoro. Avevo contattato io diverse case editrici che si occupavano di audiolibri finché non mi hanno risposto Romeo Filippi e Federica Mucci, i miei attuali capi.
Ho cominciato con una collaborazione dilatata nel tempo: il mio lavoro rimaneva quello di attrice. Leggevo qualcosa per loro ogni tanto con il mio timbro di voce meno pulito di quello che abbraccia il mondo degli audiolibri. Lo facevano quando volevano dare un taglio più personale e caratterizzato. Pian piano, ho fatto anche uno stage come redattrice e direttrice casting, le mansioni che svolgo adesso.
Conoscendo tanti attori, era un lavoro che mi si addiceva. Io amo gli attori: avrò mille difetti ma non sono competitiva. Mi piace coinvolgere attori e attrici brave, com’è capitato di recente con Eduardo Scarpetta. L’ho chiamato per due letture di classici presentate al Salone del Libro di Torino. Mi piace conciliare il mio lavoro di attrice con questo: li trovo molto simili, se non complementari. Mi ritrovo a dirigere delle cose di letterature piuttosto che romanzi, anche un po’ più scientifici, o serie.
Ma che ne è stato delle esperienze di doppiaggio cinematografico? In molti non lo sanno ma hai prestato la voce a diversi blockbuster animati e dell’universo cinematografico Marvel.
È stata un’esperienza bellissima. Se fosse stato per me, avrei continuato con il doppiaggio. Ma è un mondo tanto, tanto difficile. Sembra il classico discorso della volpe che non è arrivata all’uva ma è stata accantonata per un motivo che ti racconto senza peli sulla lingua.
Ho cercato anch’io quel lavoro, bussando personalmente a ogni sala di doppiaggio. Non c’era un curriculum da presentare, occorreva andare, bussare e attendere con pazienza che qualcuno ti conoscesse. Purtroppo, io non ho molta forza nel propormi e nell’insistere, nonostante sembri che abbia una gran faccia tosta…
In certi casi, mi hanno scelta. Ma, per lavorare bene, ho bisogno di essere accolta bene. Devo sentire una bella energia intorno a me. Non mi basta sapere di essere portata per una cosa, sono molto fragile e timida. Quello del doppiaggio, purtroppo, è il più delle volte un ambiente a conduzione familiare: è difficile non essere guardati con sospetto. I figli dei doppiatori nascono già con il microfono in mano, crescono nelle sale e chiamano zii i direttori.
Io non riuscivo a stare in un contesto in cui mi facevano sentire sempre come l’ultima arrivata, la raccomandata o quella arrivata lì chissà “chi si è fatta”. Insomma, lo ripeto, non avevo il carattere giusto perché ci sono tantissimi colleghi che “con la cazzimma giusta” riescono a lavorare e a ritagliarsi il loro spazio. Ma mai dire mai.