Intervistare Giulio Fagiolini non era facile. Solitamente, al di là delle domande standard, hai poca idea su cosa chiedere a un compositore: senza poter far sentire la sua musica, ne verrebbe fuori una conversazione astratta che tutto dice e nulla spiega. E il compito era reso ancora più difficile dalla riservatezza che da sempre Giulio Fagiolini, compositore toscano, ha.
Dunque, occorreva lasciarsi andare al flusso dei pensieri che sul momento nascevano. La molla era ovviamente la pubblicazione di Sail the Skies (Believe), il nuovo album di Giulio Fagiolini che, anticipato dal singolo crater(e), ci fa immergere in atmosfere mai ripetitive che rievocano lo stesso sentimento del sole che riflette sulla superficie dell’acqua.
E pian piano Giulio Fagiolini ha cominciato a rivelarsi sotto un’ottica del tutto diversa. Prima di essere pianista e compositore (collaboratore, tra l’altro, di Emma Nolde), Giulio Fagiolini è un ragazzo che, come tanti altri della sua generazione è mosso da un forte desiderio di pacificazione e trasformazione. E, complice la pandemia, quel desiderio Giulio Fagiolini, classe 1990, lo ha riversato in musica.
Nel corso di questa intervista in esclusiva, Giulio Fagiolini si lascia andare ai ricordi, dall’infanzia all’adolescenza, ma risponde anche una delle domande più difficili che si possano fare: “E tu ti vuoi bene?”.
Intervista esclusiva a Giulio Fagiolini
È appena uscito Sail the Skies. Da dove nasce l’esigenza di navigare il cielo, un concetto che è chiaro sin dalla copertina, dove tra mare e cielo non vi è alcuna linea di separazione?
Tutto nasce due anni fa, nel periodo di fuoco della pandemia. Per me, quello è stato un momento molto introspettivo. Mentre la maggior parte delle persone trovava ispirazione nello stare a casa, per me andava diversamente. Abitavo da solo e mi era venuta a mancare un po’ la spinta a suonare. Non potendo vivere nel mondo fatto di persone, incontri ed emozioni, non riuscivo più a suonare e scrivere. È come se l’assenza di relazioni e di contatti con gli altri mi facessero mancare l’ispirazione.
Ho avuto dunque bisogno di far qualcosa. Vicino a dove abitavo io, c’era una vecchia villa del Settecento di proprietà di una mia amica. Ho pensato di spostarmi lì per un paio di giorni, allestendovi uno studio di registrazione. Mi son fatto portare un pianoforte, delle chitarre, la batteria: tutta la strumentazione necessaria per comporre e registrare. Avevo trovato la mia via d’uscita allo stato di crisi in cui mi trovavo.
Eri solo all’interno della villa o c’era altra gente con te?
Con me c’era Renato D’Amico, un produttore siciliano che ha alle spalle lavori importanti come, ad esempio, la produzione del primo disco di Emma Nolde. Il suo era un mondo musicale lontano dal mio ma la sua figura mi ispirava creatività. Siamo stati nella villa per dieci giorni e in quel frangente sono nate le prime idee. Quindi, per tornare alla domanda di prima, Sail the Skies è frutto di un’evasione, di una forma di fuga da quella sensazione claustrofobica di malattia, di distanziamento sociale e di disagio, ma anche di ribellione.
Sail the Skies è frutto del desiderio, oltre che di pacificazione, di trasformazione.
Già. Mi sembra che, dopo la pandemia, ci siamo adagiati un po’: non abbiamo una vera presa di coscienza sul mondo che ci circonda, sulle persone che frequentiamo e sui valori. Il periodo di isolamento mi è servito per cominciare a maturare pensieri nuovi e interpretare la realtà in maniera alternativa. Poi, diverse esperienze personali hanno contribuito a farmi cambiare un po’ la visione delle cose. Quel periodo è stato per me veramente stressante e difficile: dovevo reagire.
Stressante e difficile solo per il CoVid?
Ma anche per situazioni legate alla mia famiglia. Situazioni, se vuoi, economiche e di salute. Tuttavia, più di ogni cosa, ho sofferto molto la distanza dalle persone a me più care. Ho dovuto ad esempio trascorrere il Natale da solo piuttosto che con i miei familiari o con chi voglio bene. Avevo dunque bisogno di trasformare quello che ero per reagire.
E hai trovato una via d’uscita?
Si. La via d’uscita per me è sempre l’arte e la sua condivisione, è riuscire ad arrivare alle persone. Mi piace pensare che chi fa arte in generale sia anche una sorta di mentore o filosofo. Ho pensato dunque che quel desiderio di pacificazione e di rivoluzione non fosse solo mio.
Ed è così che nascono i cinque brani che compongono Sail the Skies.
Tutti i brani sono stati scritti e registrati nello stesso momento. Stavo per dire improvvisati, nel senso che sono stati registrati subito dopo averli scritti durante quei dieci giorni di ritiro. Un modus operandi fuori dall’ordinario: è stato, nel mio piccolo, come il voler dare un senso di rinnovamento al modo in cui di solito oggi si realizzano i dischi, fatto di step e regole da seguire. A livello simbolico, ho provato ad avere una visione nuovo di tutto quello che sta intorno al mondo della creazione musicale e dell’arte.
All the Things Around You è la canzone che apre l’album.
È un invito a guardarsi intorno e far leva sulle cose più semplici che abbiamo a disposizione. È un invito a dar loro un nuovo valore, qualcosa che è rapportabile a quello che viviamo quotidianamente. Ridiamo nuovo valore alle relazioni che abbiamo con le persone, a ciò che compriamo, a come ci comportiamo, all’ambiente… Rinasciamo e apriamo gli occhi: solo così ci si rende conto di avere intorno tante cose belle.
Tra i brani dell’album, c’è anche Eco, una composizione che sin dal titolo fa presupporre un legame con i ricordi. Quali sono quelli che ti porti appresso?
Questo è un argomento molto delicato per me. Sono una persona che, purtroppo ma anche per fortuna, tende a dare spesso importanza ai piccoli gesti e alle piccole attenzioni. Le cose importanti per me sono varie e vaste e, quindi, spesso mi ritornano in mente i comportamenti o gli stati d’animo delle altre persone. Ma anche certi particolari periodi della mia vita.
Eco riassume questo mio senso di attaccamento al passato, a tutto ciò che risuona ancora nella mia mente. Per certi versi, richiama anche la paura di riprovare ciò che abbiamo sentito in passato. E per questo motivo ho voluto inserirla per ultima: è come se fosse un punto di chiusura.
A proposito di ricordi, di recente sui tuoi profili social hai inserito una foto di te da bambino e tra i ricordi del passato hai citato una magnolia.
Quella magnolia si trova proprio all’interno della villa in cui è stato registrato il disco. È una magnolia gigante, incredibile, all’interno della quale si può entrare e camminare: è come se fosse un mondo dentro un mondo. In quel posto, ho tanti ricordi legati a mia madre: lei è cresciuta lì. Mia nonna lavorava al servizio dei proprietari e da bambina mia madre ha vissuto molto in quel luogo. Quand’ero piccolo, è stata lei a portarmi spesso a giocare all’interno della magnolia, a farmi scoprire quella dimensione un po’ fantastica e surreale. È tuttora un posto che mi riconduce alle mie origini e al paesino in cui sono cresciuto.
Che bambino eri? Hai cominciato a suonare il pianoforte molto presto, a sei anni.
Ho cominciato prestissimo. Ho avuto la fortuna di avere una cugina che aveva una scuola di musica. Non ricordo per quale motivazione ho cominciato, ricordo però che avrei voluto suonare il sax e non il piano. Mia cugina mi fece invece optare per il piano, dal momento che il sax era più alto di me!
Su suo consiglio, ho cominciato allora con il pianoforte: avrei semplicemente dovuto prendere delle nozioni ma poi non l’ho più abbandonato. Con il tempo ho capito che era qualcosa di cui avevo grande necessità, anche se da piccolo non l’ho vissuta molto bene. All’epoca, mi facevo partecipare a svariati concorsi e mi sentivo, come dire, molto messo alla prova. Dovevo costantemente studiare e prepararmi per portare a livello nazionale in alto il nome della scuola. Sentivo parecchia pressione addosso. Ricordo persino come a Firenze, avrò avuto all’incirca 11 o 12 anni, la pressione mi abbia portato a un blackout totale: non riuscivo a suonare il brano, un momento di grande disagio per me.
Immagino, dunque, i sacrifici a cui sarai stato costretto: mentre ti preparavi per i concorsi, bruciavi alcune delle tappe fondamentali dell’infanzia o dell’adolescenza, crescendo anche in fretta.
Esattamente. Quello con il pianoforte è un rapporto di amore e odio. Sono cresciuto in una famiglia che ha sempre voluto vedere da me dei risultati in tutti gli ambiti. Per fortuna, però, riuscivo anche a ritagliarmi i miei spazi di puro godimento con lo strumento. E non solo: ho fatto tanto sport, dal nuoto al calcio, passando per il karate.
Tutti sport in qualche modo di forza, virili, che sembrano quasi una risposta alla delicatezza e alla sensibilità del piano.
È vero, era forse una risposta inconscia.
Quest’intervista sta prendendo una piega strana, da seduta psicologica quasi…
Sono laureato in Psicologia.
E perché non hai scelto invece il conservatorio? Avevi tutte le basi e gli elementi per scegliere quel percorso accademico.
È una domanda su cui ho riflettuto per molto tempo. Quando si terminano le superiori, non si hanno mai le idee chiare su chi si vuol essere da grande. Già all’epoca suonavo, vivevo le mie prime esperienze da musicista, ma mai mi sarei immaginato che la musica sarebbe diventata il mio lavoro. Pensavo dunque che proseguire su un percorso più legato alla medicina o al settore scientifico potesse salvaguardare il mio futuro.
Una volta laureato, però, ho deciso di non esercitare ma di investire il mio tempo (e le mie tasche) sulla musica. Tuttavia, gli studi fatti mi servono tuttora ogni giorno anche per questo lavoro per avere a che fare con le persone, capirle ed entrare nella loro testa e nelle loro dinamiche. La laurea mi è tornata utile sia per ricevere informazioni sia per darle. Se tornassi indietro, probabilmente rifarei le stesse scelte.
E com’è oggi il tuo rapporto con gli altri?
Mi rendo conto di essere diventato più selettivo. Prima ero molto più aperto alle conoscenze e alle frequentazioni, adesso sto più attento a chi è che frequento, a che cosa fa o a dove va.
Anche in campo sentimentale?
In questo momento sono impegnato. Ma ho capito che credo nella costruzione lenta delle relazioni. Prima ero molto più impulsivo e molto più innamorato della velocità dell’amore. Ora cerco di godermi ogni singolo istante e di dosare meglio il tempo, le parole e i gesti.
E di cosa ha bisogno Giulio per navigare i cieli?
Di vedere un cambio concreto. Ho bisogno che le persone imparino ad ascoltare più gli altri e non abbiano tutta la fame di arrivismo che vedo in giro. Mi sembra di vivere in un mondo in cui siamo tutti avversari. Mi piacerebbe che chiunque cominciasse a lavorare su se stesso e si volesse più bene.
E tu ti vuoi bene?
Si, mi voglio bene. E tu ti vuoi bene? Non è facile rispondere. Siamo completamente offuscati da mille fattori, facciamo tutto in maniera meccanica e omologata. E non ci rendiamo nemmeno conto di quello che diciamo. Trovo ciò molto spaventoso.
Ti sei mai cimentato con la scrittura di un testo?
Proprio di recente è uscito il nuovo disco di Emma Nolde. C’è un brano che abbiamo scritto insieme a livello testuale, Non so chi sei. Il testo è stato scritto di getto e ha dietro una storia strana. Eravamo entrambi positivi al CoVid e abbiamo deciso di trascorrere insieme la quarantena. Ed è venuto fuori un testo che è flusso di sensazioni istintive e senza filtro.
So, comunque, che ti piacerebbe lavorare a musica per il cinema.
Sto frequentando un master al Conservatorio di Lucca in tal senso: musica applicata alle immagini. In passato, mi è capitato di lavorare alle musiche di uno spettacolo con i testi dello sceneggiatore Michele Santeramo. Ho realizzato in quel contesto come attraverso le immagini si possa amplificare ciò che si vuole comunicare. Sento quindi il bisogno di imparare come si fa sia da un punto di vista tecnico sia da un punto di vista espressivo, comunicativo.