L’intensità del percorso attoriale di Giuseppe De Domenico si riflette nelle sue parole, cariche di dedizione e profondità. Quando parla del ruolo di Pietro in Vermiglio, emerge subito una sfida che va oltre la mera recitazione: si tratta di entrare in sintonia con un personaggio tormentato, complesso, immerso in un contesto storico lontano, eppure profondamente umano.
Giuseppe De Domenico, messinese di origine, non si limita a interpretare Pietro; lo vive, lo sviscera, ne analizza ogni sfumatura per trovare una coerenza in quelle contraddizioni che, da attore, è chiamato a sostenere. Il suo approccio metodico alla recitazione, arricchito dal supporto della sua storica insegnante Anna Laura Messeri, e l’immersione nella psiche di un giovane travolto dagli orrori della guerra, riflettono una ricerca di autenticità che si fonde con l’animo umano.
La guerra, per Giuseppe De Domenico, apprezzato già in serie come Zero Zero Zero o Bang Bang Baby, non è solo un evento storico. È la negazione della libertà personale, una condizione imposta dall’esterno che fa da sfondo alle vicende interiori del personaggio e diventa un viaggio tra conflitto esterno e crisi identitaria. Questa riflessione si estende ai temi universali del film, come il tradimento, la lotta per la sopravvivenza e la ricerca di una nuova vita.
In Vermiglio, l’attore siciliano non si limita a vestire i panni di Pietro, ma condivide con il suo personaggio la fatica di trovare un equilibrio tra passato e presente, tra ciò che è stato perduto e ciò che potrebbe essere. La sua esperienza personale di distacco dalla Sicilia si intreccia a quella di Pietro, amplificando la complessità emotiva del suo viaggio attoriale e umano.
Ma quella che ci ha concesso in esclusiva, un sabato pomeriggio per le vie di una città come Palermo, è un’intervista che va ben oltre la promozione di un prodotto. Giuseppe De Domenico, per usare le sue parole, si è messo a nudo per la prima volta parlando di aspettative, recitazione, riscatto e, soprattutto, fede. Anacronistico? No, estremamente sincero e moderno nel mostrare senza filtri chi è.
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Intervista esclusiva a Giuseppe De Domenico
“La prima sensazione era quella di avere davanti una bellissima sfida attoriale”, risponde Giuseppe De Domenico quando, seduto davanti al Teatro Massimo di Palermo, gli si chiede cosa ha pensato la prima volta che ha letto la sceneggiatura di Vermiglio. “Sin da subito, ho avuto consapevolezza di come ciò che mi apprestavo a raccontare avrebbe richiesto uno sforzo preciso e curato e non un atteggiamento superficiale da parte mia. Tanto che ho immediatamente contattato la mia storica insegnante di recitazione del Teatro Stabile di Genova, la novantatreenne Anna Laura Messeri, per me un incredibile punto di riferimento (scomparsa per uno strano scherzo del destino un giorno dopo la realizzazione di questa intervista, ndr). Ed è stato insieme che abbiamo capito come trovare una soluzione alle varie sfide che la sceneggiatura ci metteva davanti”.
Un esempio di sfida?
Pietro nella storia porta conflitto, una parola a cui possiamo attribuire diversi significati. Porta, da un lato, il conflitto mondiale perché è attraverso il suo sguardo che la guerra entra nella bolla della famiglia di Lucia in quel paesino del Trentino in cui vive. Ma, dall’altro lato, porta anche un bel conflitto interiore: non è ben chiaro quale sia la sua posizione riguardo alle scelte che prende.
Soltanto alla fine lo spettatore può tirare le somme per capire chi è. Da attore, invece, avendo letto tutta la storia, ero consapevole di chi fosse e di quanto i suoi poli, quello iniziale e quello finale, fossero in contraddizione. E per me la sfida maggiore è stata data dal trovare una coerenza dentro una contraddizione.
Pietro vive 80 anni fa: come sei entrato nella psiche di un giovane così distante da te che sei nato nel 1993?
Sono molto metodico nello studio. Ho alle spalle un background scientifico e matematico, qualcosa che mi sono trascinato anche in ambito artistico. Tutto ciò che ho fatto per entrare nella psiche di Pietro è stato leggere e guardare film. Guerra di Céline è stato uno dei libri che mi ha più toccato mentre Casablanca e Dunkirk sono stati i due film che mi hanno maggiormente segnato mentre mi preparavo al ruolo.
Casablanca mi ha dato l’atteggiamento, la postura, la compostezza e la formalità che servivano al personaggio mentre Dunkirk mi ha permesso di vedere, al di là del libro di Céline, immagini forti su ciò che potesse essere una guerra. Non avendone mai vissuta una, avevo bisogno di un immaginario che mi supportasse e su quale poi mettere del mio.
Pietro è, dunque, nato da una combo di informazioni assorbite dall’esterno e altre provenienti dal mio interno, come il desiderio di pace e quello di voler rimanere ancorato alla vita. Desiderio che ho trovato guardando alla fase di esistenza in cui mi trovo, ripensando da dove venivo, riflettendo sulla mia ambizione e mettendo in campo un respiro autentico davanti alla camera.
Non avendone mai vissuta una, cosa ti sei risposto alla domanda sul cos’è una guerra?
Più che interrogarmi sulla guerra in sé, mi sono chiesto che sensazione si può provare nel prendere parte a una guerra che in qualche modo senti non appartenerti: perdi affetti, stai lontano da casa e guardi la morte in faccia non per una tua scelta consapevole ma per un’imposizione esterna. Ho considerato allora la guerra come un’abolizione di una libertà personale, una tortura con tutta la pesantezza e la cupezza che il termine comporta.
Ti ha in qualche modo tale visione portato a riflettere sui conflitti che ancora oggi interessano il mondo?
Inevitabilmente, sì. Ero terrorizzato all’idea di poter mancare di rispetto a tutti quei miei coetanei che attualmente stanno affrontando gli orrori di un conflitto o alle famiglie che hanno perso figli e figlie a causa di una guerra. E non ho voluto, nemmeno per promozione professionale o personale, fare leva sulla mia interpretazione e trasformarla in un manifesto: correvo il rischio che passasse un messaggio sbagliato solo per sottolineare quanto eventualmente fossi stato bravo. Sono stato attento a ogni dettaglio, persino nell’abbigliamento da indossare durante le conferenze stampa o nel linguaggio: ho sempre cercato di mantenere una sorta di rigore morale. Come per dire che, sebbene sia stato incaricato come professionista di impersonare un soldato, non sottovaluto quanto le guerre purtroppo ancora oggi continuino a esistere e torturare.
Vermiglio: Le foto del film
1 / 29Per interpretare Pietro, hai dovuto anche confrontarti con il tema del tradimento in ambito sentimentale.
È stata una delle sfide di cui sopra. Ero chiamato a interpretare un uomo che, coscientemente o meno, agisce ferendo gli altri. Da attore, si è sempre portati a dover giustificare dall’interno il personaggio interpretato, ne devi sposare il punto di vista e farlo proprio. E per me che sono sempre stato fedele e che non ho mai tradito non è stato facile capire cosa significasse realmente per Pietro tradire.
Ho dovuto prendere in considerazione come la guerra per lui abbia comportato una sorta di reset di cui egli stesso è stata la prima vittima. Lo vediamo muoversi nelle prime scene come un fantasma che non sa più dove andare, cosa significa vivere o che senso abbia avere qualcosa: ha perso tutto, ha visto cosa c’è fuori dalla sua bolla di Galati Marina di dove originario e in mezzo a tutto quell’orrore ha quasi dimenticato il passato per darsi una possibilità, una speranza impersonificata dalla figura di Lucia. È lei che comunque fa il primo passo e Pietro non ha nemmeno la forza di opporsi. La sua unica colpa è forse quella di non dire tutta la verità, di celarla, ma non dice mai alcuna bugia.
Non è una scelta egoistica quella di Pietro di omettere di avere già una moglie in Sicilia?
Ovviamente, ho tutta una mia ricostruzione dei fatti. Quello che Pietro nutre per Lucia è un amore sincero: se vogliamo, non c’è tradimento nei suoi confronti ma verso quella moglie che lo attendeva a casa. Senza spoilerare molto, le lettere ritrovate sul finale del film sono la testimonianza sincera dei suoi sentimenti. È una scelta egoistica? Probabilmente sì, da un lato lo si salva ma dall’altro comunque lo si condanna.
È stata una bella sfida anche questa, di rara intensità: se all’apparenza la soluzione scenica sembra richiedere pochissimo da parte mia, ho dovuto invece far sì che la mia psiche si concentrasse sul suo presente, sul suo qui e ora. Non potevo pensare né al suo passato perché sarei rimasto vittima della nostalgia né al suo futuro perché, conoscendolo, mi sarei preoccupato delle conseguenze delle scelte che avrebbe dovuto prendere.
Pietro viene strappato dalla sua terra per andare a combattere in guerra. In un certo senso, anche tu sei stato strappato dalla tua Sicilia per seguire la tua vocazione. Cambia la scelta - obbligata la sua, libera la tua – ma non la difficoltà dell’andar via.
I primi mesi sono stati durissimi anche per me. Mi sono diplomato al Teatro Stabile di Genova ma non è lì che sono arrivato subito dopo aver lasciato Messina: ho frequentato prima due anni in una scuola romana che oggi nemmeno esiste più. È a Roma che sono arrivato a diciannove anni quando, finito il liceo, ho lasciato la maggior parte dei miei amici, la fidanzata dell’epoca, mio fratello e i miei genitori. Ho abbandonato tutto per inseguire qualcosa che nessuno in famiglia aveva mai tentato prima: non c’erano nemmeno amici o parenti di amici che, con esperienze simili, potevano darmi suggerimenti, consigli o una mano nel percorso folle che sentivo di voler intraprendere.
E i primi tempi mi stavo facendo fottere dalla nostalgia, come viene detto in Nuovo Cinema Paradiso. È stato per l’enorme coraggio infuso dai miei genitori che, nonostante fossero i primi a soffrire per la mia assenza, hanno insistito nel dirmi “se è qualcosa che ti senti davvero di fare, falla”. Il mio primo grande reset è stato dunque il dover tenere botta: per la prima volta, facevo i conti da solo con la spesa da fare, la casa da pulire e sistemare, il pranzo da preparare, lo studio… ed è stato un casino.
A Roma, però, ho potuto vedere le prime grandi produzioni nazionali (Messina all’epoca era tagliata fuori dal giro dei grandi eventi) e notare come la maggior parte degli attori e delle attrici che mi piacevano aveva lo stesso comune denominatore: lo studio allo Stabile di Genova.
L’equazione a quel punto è stata chiara ai mie occhi: ho abbandonato gli studi romani senza terminare il terzo e ultimo anno per trasferirmi a Genova. È stata anche quella incoscienza: avevo lasciato ingegneria edile a Messina per andare a Roma e poi lasciavo Roma per Genova, dando l’impressione di non portare mai nulla a termine. Ero la prima persona della mia famiglia a non aver seguito un percorso accademico, che aveva deciso di andare nella capitale per fare l’attore e che poi optava per un’altra città lasciando in asso quello che aveva cominciato.
“Ma ‘sto ragazzo ha le idee chiare o stiamo perdendo tempo e sforzi economici?” sarebbe stato un pensiero logico da parte dei miei. Sono stato però fortunato: mi hanno accompagnato passo dopo passo, nonostante le lunghe telefonate per capire in che direzione io stessi andando. Genova, tuttavia, ha dato il giusto passo a ciò che volevo. E quello che volevo era fare solo ed esclusivamente teatro, non sognavo né cinema né televisione.
Come mai solo teatro?
Era il linguaggio che avevo conosciuto e che mi aveva fatto innamorare del percorso che ho poi intrapreso. Sono cresciuto con un padre che, da eclettico, tra i suoi tanti talenti aveva anche quello della scrittura di commedie teatrali: da piccolo, con mio fratello, recitavamo piccole parti nei suoi spettacoli.
Ma non solo: al terzo anno di liceo in poi, per volere della mia insegnante di storia dell’arte, la mia classe si è fatta carico dello spettacolo annuale. E, grazie al background che in qualche modo mi aiutava, la mia inclinazione mi ha portato a continuare anche per il quarto e il quinto anno, con una compagnia esterna messinese che teneva laboratori anche fuori dall’orario scolastico.
Sono state quelle le mie prime esplorazioni: trovavo spazio per capire cosa significasse provare un sentimento di rabbia, di amore o di sorpresa, a comando. Nella vita di tutti i giorni, tra genitori che lavorano e amici maschi, le emozioni non erano argomenti che rientravano nel radar delle conversazioni: si provavano ma si tenevano dentro, non potevi esternarle per paura del giudizio altrui. Eppure, quelle stesse emozioni sono quelle che generalmente ci fanno scoprire veramente chi siamo.
E, quindi, il teatro è stato da quel momento in poi il luogo in cui scoprivo me stesso e legittimavo i miei stati emotivi. Un modus vivendi che mi trascino ancora dietro: mentre per altri recitare vuol dire indossare una maschera, per me equivale a mettere qualcosa di mio al servizio del personaggio.
Cosa hai scoperto di te allora che ancora non sapevi?
Quanto strano fosse il connubio sentimento-applauso. Il teatro è un luogo in cui l’essere umano più è se stesso più viene accolto dagli altri quando nella vita reale per n fattori accade quasi sempre l’opposto, non sentendosi mai accolti per quello che si è. Per citare Peter Brooke, il rapporto tra attore e personaggio è l’opposto del costruire: è uno smantellare dalla pelle dell’attore, mattone dopo mattone, tutta la consapevolezza rappresentativa fino a quando, in un attimo, tutta l’essenza del personaggio vien fuori.
E lo smantellare non ti ha mai fatto male?
Un sacco di volte. Ma è come quando cominci a fare stretching: se vai oltre quello che il corpo ti suggerisce, ti fai male… ma non puoi fermarti: devi sempre mantenere quello stato di tensione, bruciore e calore, per andare avanti. Decostruire fa male ma devi respirarci sopra quando hai chiaro qual è il tuo obiettivo finale.
E qual è quest’obiettivo nel tuo caso?
Sarò sincero: è una questione di riscatto familiare. I miei sono due persone splendide e molto preparate che, per diversi motivi, non hanno avuto modo di realizzare appieno ciò che desideravano fare. In virtù della loro storia, mi sono sentito messo nelle condizioni che loro auspicavano per se stessi e ciò mi ha investito di una certa responsabilità. Per molti anni, non ho nemmeno contemplato l’ipotesi del fallimento nonostante gli ostacoli, i pali, le delusioni, le false amicizie, i contratti saltati, lo stare al verde o le cene a riso e tonno quando andava bene che da attore emergente, sconosciuto e senza raccomandazioni, inevitabilmente sperimentavo.
Inevitabilmente, non posso che notare il rosario che porti al dito e la collana che hai come bracciale. Che rapporto hai con la fede?
Se vedo la vita come una linea che va da un punto A a uno B, sono consapevole di come questa traiettoria, unica e sola, abbia bisogno di una bussola o di un riferimento in base al quale orientare le proprie scelte e i propri passi. E, nel momento in cui con uno zoom out riguardo alla storia, la bussola che è sempre rimasta costante nelle varie fasi della civiltà umana, seppur cambiasse nome, figura o forma, è la spiritualità, il rapporto con la divinità.
In questo ragionamento prettamente logico si innesta il mio desiderio di avere una guida, la fede. Una guida che nel tempo mi ha aiutato a liberarmi dalle ossessioni del materialismo e del successo e, di conseguenza, a vedere nell’altro un’espressione di me. Ama il prossimo tuo come te stesso per me è un mantra fondamentale.
Ti ha mai la fede fatto sentire anacronistico?
In un contesto come il mondo dello spettacolo dove tutto è fuorché spirituale? Sì. Ho vissuto anche una fase in cui mi sono nascosto: avvertivo una sorta di pudore o di vergogna perché mi sentivo fuori luogo o perché non volevo essere additato come il terrone siciliano di tanti stereotipi. Da questo punto di vista, ciò che è paradossale è come il mio avvicinamento alla fede non sia avvenuto in Sicilia ma dopo aver concluso gli studi a Genova quando ho cominciato a confrontarmi con provini e audizioni.
Sul set di Vermiglio, è stata la prima volta in cui mi sono sentito totalmente libero di condividere la mia fede con il resto della troupe. La collana che porto al polso è un oggetto speciale… in concomitanza con il set, ero reduce da un pellegrinaggio a Medjugorje e praticavo digiuno due volte a settimana, cosa che aveva creato un clima di particolare attenzione da parte di tutti quanti sulla mia fede.
Curiosamente, poi, sul set o nei luoghi in cui giravamo c’era la figura di una santa che continua a ripresentarsi casualmente senza che fosse cercata o voluta da nessuno: santa Teresa di Lisieux. Tutti pian piano hanno cominciato a farci caso e, studiando la sua storia, abbiamo scoperto che in vita era stata un’amante della recitazione ma anche innamorata della neve.
La neve era un elemento importante per le riprese del film, la regista Maura Delpero si preoccupava che mancasse e la riproduzione, a ridosso delle riprese del blocco invernale, mi ha chiesto di pregare affinché nevicasse. Ed è così che ho scoperto che a santa Teresa di Lisieux è legata una novena chiamata “delle rose”: allo scoccare del nono giorno di preghiere, è arrivata una tempesta di neve di quattro ore e mezza. Casualità? Sincronicità? Benevolenza? Puro caso? Non saprei rispondere ma è successo.
Ciò ha finito con il sancire un legame bellissimo tra Vermiglio e santa Teresa di Lisieux, tanto che con il produttore Leonardo Guerra Seragnoli ci eravamo ripromessi di comprare poi delle spille votive da indossare anche a Venezia in segno di gratitudine. Non sono arrivate le spille ma dei piccoli ciondoli che un collega di mia madre, in pellegrinaggio a Lisieux, ha comprato per me… quindici ciondoli che, con una rosa da un lato e l’effigie della santa dall’altro, ho regalato a tutta la delegazione del film presente al Lido e che abbiamo indossato o portato con noi nelle occasioni ufficiali.
A Venezia l’esperienza si è poi conclusa con un Leone d’Argento. Sono tutti eventi che racconto senza la spocchia di voler fare il predicatore o il prete, non mi compete (sorride, ndr).
All’anima spesso fa da contraltare il corpo. Che rapporto hai con il tuo corpo?
Il corpo fa parte di quella componente di responsabilità che devi avere con te stesso: non c’è nessuno che ti ricorda di allenarti o di lavorarci sopra. Non si tratta di una questione prettamente estetica ma di consapevolezza: il corpo è per un attore il proprio strumento di espressione artistica. Più lo conosci, più ne sei padrone e puoi condurlo in territori inesplorati.
In passato, ho vissuto una fase di cattiva confidenza: non mi sentivo di abitare un corpo che mi faceva star bene. Ho anche maturato problemi di respirazione: per cercare di sembrare più magro, trattenevo la pancia e ho finito con il procurarmi un blocco al diaframma. La postura e ciò che andavo a raccontare erano costretti in un corpo che non si fidava di se stesso e che era al centro di una dispercezione notevole.
È stato poi l’integrare gli studi sul corpo fatti nelle varie scuole di recitazione con lo yoga che mi ha permesso di recuperare elasticità e respiro, di avere un corpo più reattivo e morbido, quasi da felino.
Quando hai smesso di avere una visione distorta del tuo corpo?
È accaduto di recente, a ridosso delle riprese di Vermiglio. Ma ho tuttora qualche strascico dettato anche dal fatto che siamo costantemente bombardati da modelli estetici che sono scollati dalla realtà della maggior parte delle persone. Ciò ti condiziona portandoti a volere avere il fisico di un fotomodello per spirito di emulazione: vuoi essere bello a tutti i costi per sedurre.
Sono tante le domande che mi sono posto e l’aver cercato risposte mi ha aiutato a ricentrarmi su me stesso, salvandomi. Pur facendo fatica a riconoscermi un punto d’arrivo, mi basta rendermi conto di stare oggi bene, di essere in salute e di avere un corpo in forma che alleno anche con docce fredde tutti i giorni, soprattutto in inverno.
Torni a Messina per presentare Vermiglio nel cinema che in qualche modo ti ha visto crescere, l’Iris. Come ci si sente nel pensare di essere per la prima volta visti da chi ti vuole bene come attore e non semplicemente come Giuseppe?
È una sensazione stranissima quella che mi accompagna. Sarà la prima volta che porterò un film nella mia città e per di più nel cinema in cui sono cresciuto: un evento unico e irripetibile. Mi auguro di poter essere il più lucido e professionale possibile e di non farmi travolgere dall’emotività nel vedere amici, parenti, ex colleghi, ex compagni di liceo ed ex professoresse. So che i loro sguardi saranno di amore e di stima e sono gli stessi sentimenti che vorrei restituire loro, insieme a quel senso di appartenenza che sempre mi porterò dietro: “Vengo da qui e se sono oggi un attore è anche merito delle persone che sono qui presenti”.
Cos’è per te casa?
Mi sento a casa solo quando riesco a tornare a Messina. Non mi sento di aver trovato ancora un posto in cui ho gettato della radici: mi sento molto sospeso in questo momento della mia vita adulta, ancora alla ricerca di un luogo che risulti come la mia scelta di casa. So che Roma è importante per me ma non la sento ancora mia: che ogni anno abbia cambiato appartamento è sintomatico di ciò. L’aver lavorato anche all’estero (per la serie tv Last to Brake, dove recita anche Alessandro Fella, ndr), poi, ha fatto sì che si aprissero nuovi orizzonti e nuove prospettive: il mondo è davvero grande…
Non hai paura di rimanere deluso dalle tue aspettative?
Non più. Ho subito il peso delle aspettative e ne ho pagato il prezzo. Dal mio punto di vista, un’aspettativa è fallimentare già sul nascere: è semplicemente una visione limitata che imponiamo alle cose, che non potranno mai essere veramente così come le immaginiamo. Le aspettative sono uno dei mali che ho voluto estirpare dal mio cuore e da quando l’ho fatto sono successe solo un bel po’ di cose positive.