Per capire cosa anima Stranizza d’amuri, il film diretto da Giuseppe Fiorello al cinema in questi giorni, occorre partire dal finale. Uno sparo scuote lo spettatore dal nulla. Non ha importanza chi si sia l’esecutore materiale del colpo, non è un crime per cui occorre andare a ricercare il colpevole, soprattutto quando questo è un’intera comunità avvolta dal pregiudizio e dal maschilismo tossico. Quello che ha importanza è chi sono le vittime: due ragazzi, Nino e Gianni, la cui colpa è semplicemente quella di essersi innamorati.
Ed è intorno a quell’amore, pulito, sincero e innocente, che ruota Stranizza d’amuri (prodotto da Ibla Film e distribuito da Bim Distribuzione): è il racconto del primo vero e profondo sentimento che interessa due adolescenti, della prima volta in cui si sentono le farfalle nello stomaco, come ci dirà Giuseppe Fiorello nel corso di quest’intervista in esclusiva.
E l’amore tra i due protagonisti nasce sullo sfondo di un luogo e di un tempo preciso. Siamo nella Sicilia orientale del 1982, in una terra in cui essere maschio vuol dire semplicemente seguire norme sociali condivise da una cultura ancora arcaica e meno aperta di quella di oggi. E, nonostante lo speri per molto tempo, la storia di Stranizza d’amuri è legata a un fatto realmente accaduto nel 1980, una tragica vicenda che Giuseppe Fiorello ha scoperto quasi per caso e non ha più dimenticato.
Protagonista ne erano Giorgio e Toni, un venticinquenne e un quindicenne che hanno pagato con la vita il loro amore. Furono ritrovati nell’ottobre del 1980 mano nella mano, uccisi da un colpo d’arma da fuoco in testa, e con un biglietto che sembrava avallare l’ipotesi di un omicidio suicidio. Le indagini, chiaramente, sin da subito rivelarono un’altra verità: chi aveva ucciso i due, però, rimarrà sempre un mistero.
Li ha uccisi un intero paese, aggiungiamo noi. Li ha uccisi l’indifferenza di chi non ha capito che non sono le etichette a giustificare un essere umano e i suoi orientamenti. E li ha uccisi il patriarcato e lo spauracchio di un figlio diverso, si direbbe oggi per essere eleganti, ma chi elegante non lo è sa bene che li ha ammazzati la stupidaggine di una cultura (ma anche di una politica) che non ha saputo proteggere i suoi figli.
Il verbo spaventare non è casuale. Ritorna spesso in Stranizza d’amuri di Giuseppe Fiorello il verbo “scantare”. Ma a chi facevano paura Gianni e Toni? Facevano paura ai coglioni del bar che in nome del pregiudizio decidevano vita e morte di due ragazzi come loro. Facevano paura al mito del maschio etero bianco dominante, a tutti coloro che per dimostrarsi all’altezza delle aspettative reprimevano loro stessi e si scagliavano contro il “fr**io patentato”, usiamo consapevolmente l’espressione, per timore di vedere minacciate le proprie autoconvinzioni. E facevano paura alle famiglie, alle madri che lungi dall’essere “manto della carità”, tipica espressione siciliana, diventano le prime aguzzine del loro stesso sangue, capaci di interiorizzare talmente tanto la violenza che loro per prima avevano subite da reiterarla per prime loro stesse.
Giuseppe Fiorello in Stranizza d’amuri trae ispirazione dalla vicenda di Gianni e Toni ma non realizza un film a tema. Tutt’altro: si serve della vicenda per raccontare di amore, l’unica chiave che potrebbe davvero cambiare il corso delle cose e avallare quelle battaglie per i diritti civili che ancora oggi trovano opposizione dall’alto. E lo fa con la poetica, consapevole di quanto la poetica stia in un’altra dimensione rispetto alla politica, come dimostra l’ondata d’amore di ritorno che il film sta incontrando.
Intervista esclusiva a Giuseppe Fiorello
Ho visto Stranizza d’amuri, il tuo film, con dietro un gruppo di ragazzi, tutti adolescenti, che accorsi per Samuele Segreto non sapevano nulla della storia. Durante la proiezione, sentivo involontariamente i loro commenti: non sapevano nulla della vicenda di Giorgio e Toni, i due ragazzi a cui ti sei ispirato per i personaggi di Gianni e Nino, ma erano emozionati e si ripromettevano di approfondire i fatti una volta tornati a casa.
È la cosa più bella che potevo fare: suggerire a dei giovani di oggi di andare a trovare e non dimenticare Giorgio e Toni. Mi commuovono le manifestazioni di gioia, di affetto e commozione che sto ricevendo in questi giorni e le sale piene in cui il film viene proiettato. Stranizza d’amuri è considerato un film d’autore, eppure è nella classifica dei dieci film più visti al cinema, dove si scontra con colossi come un action movie americano al quarto capitolo e un altro che ha vinto sette premi Oscar. È mantenuto dall’amore delle persone: il cinema è bello quando ti fa scoprire qualcosa che non sapevi, come accaduto a quei ragazzi dietro di te. Per me, questo è il più grande dei risultati.
Stranizza d’amuri è un regalo che ho fatto a me stesso. Ero come quei ragazzi dietro di te: non conoscevo la storia ma quando l’ho scoperta, avendone opportunità e privilegio, ho deciso che l’avrei raccontata. Certo, mi sono liberamento ispirato alla storia di Giorgio e Toni, i due ragazzi di Giarre, e alla cronaca di quello che è stato ma ho cercato di mantenerne anche l’humus umano, probabilmente molto vicino a quello che è stato il frutto della mia immaginazione.
Tante associazioni legate all’universo lgbtqia+ si stanno muovendo per proiettare Stranizza d’amuri durante i Pride che si terranno tra giugno e luglio in tutta Italia.
Ci sono tantissime realtà, anche di alto livello culturale, che mi stanno cercando per mostrare il film. Per Arcigay, Stranizza d’amuri sta un po’ diventando il suo film: erano anni che si aspettava questo racconto e tramite anche Luigi Carollo (coordinatore del Palermo Pride, ndr), con cui a Palermo avevo già un dialogo aperto, so cosa sta succedendo. “Questo film ha scavalcato un muro, ci rappresenta molto più di altri. Hai raccontato quello che noi speravamo da tempo: l’innamoramento”, mi ripete. Ci poteva nel mio film anche non essere quell’unico bacio tra Gianni e Nino ma ci sarebbe sempre stata l’attesa del sentimento tramite i loro sguardi, il bagno insieme, la paura: era mio desiderio drammaturgico raccontare il momento che precede la concretizzazione dell’amore, quello delle famose farfalle nello stomaco.
Al di là dell’innamoramento, sono altri i messaggi positivi che emergono dal racconto. Poco prima del finale, lo zio “hippie” di Nino si avvicina al ragazzo dicendogli che, nascondendosi, può tranquillamente viversi quello che vuole anche per cent’anni. Nino, tuttavia, va a riprendersi il suo Gianni mentre in paese si festeggia la vittoria dei mondiali del 1982, quando tutti sono in piazza e possono vederlo. È un po’ come un invito a non nascondersi e a vivere il proprio sentimento sempre alla luce della sole.
In questi giorni sta accadendo anche un’altra cosa bella: mi sta succedendo di scoprire il mio film attraverso i pensieri e le visioni degli altri. Avevo concepito la sequenza che citi di pancia e non in maniera così “razionale” ma gioisco nel realizzare come il pubblico riesca a trovare un altro livello di lettura e di racconto. Qualcun altro mi ha fatto notare anche la forza della sequenza in Nino viene “interrogato” dal padre nella stessa stanza in cui aveva dato il suo primo bacio a Gianni: mentre il padre lo aggredisce perché vuole sapere se è successo qualcosa, sullo sfondo c’è la madre che, disperata, vuole salvare il figlio sebbene sia stata lei in qualche misura ad aver originato quella situazione.
Sulla costruzione della psicologia delle madri dei due ragazzi hai fatto un lavoro straordinario. La sequenza che porta ai piatti rotti vede cambiare radicalmente lo sguardo di Fabrizia Sacchi, così come la sequenza in cui Simona Malato reagisce all’idea che il figlio vada a vivere da solo è da brividi.
Quella con Simona Malato è una delle sequenze che preferisco. Rifarei altre cento volte questo film: ci sono dei momenti in cui penso che in futuro potrei fare solo il regista. Ci vuole coraggio per farlo ma la regia è troppo affascinante per potersi fermare: sento già la chiamata…
Tra le righe, mi stai dicendo che sei già al lavoro su altro?
È presto ma sicuramente c’è qualcos’altro all’orizzonte. Ancor prima di Stranizza d’amuri avevo già in mente un’idea di racconto popolare ma poi la storia di Gianni e Nino ha preso il sopravvento: l’altro progetto poteva aspettare. Per adesso, mi godo il momento ma devo raccontare ancora molto: io voglio raccontare storie!
Vuoi raccontare storie anche perché sei comunque cresciuto artisticamente come attore raccontando storie. E alcune anche molto forti e belle. Però, tra le tante storie che hai raccontato come attore ce n’è una che probabilmente non vedrà mai la luce nonostante il film per la televisione sia stato completato e sia pronto: Tutto il mondo è paese.
Era un film per la tv di una sola puntata, un piccolo gioiellino: peccato non poterlo far vedere. Avevamo realizzato un’altra poesia che oggi avrebbe un messaggio devastante: nella sua semplicità, un uomo aveva creato qualcosa di unico a Riace con la sola potenza del suo essere visionario.
Il film, ricordiamolo, raccontava la vera storia di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace che con il suo spirito di accoglienza ai migranti ha trasformato un piccolo borgo della Calabria in un modello per l’intera Europa. Le vicende giudiziarie che hanno interessato Lucano hanno però bloccato la messa in onda. Eppure, si trasmettono serie tv e film che raccontano senza alcun problema le vicende di veri boss di mafia, quando questi sono ancora in vita e con processi pendenti al loro carico.
In quel caso subentra il fascino atavico del male che ha sempre catturato l’attenzione degli esseri umani. Ogni uomo ha dentro di sé un Dio e un assassino”, diceva la scrittrice Patricia Highsmith: ognuno dei due può venir fuori in qualsiasi momento se la vita gioca la carta giusta. E la narrazione cinematografica del male ha sempre generato storie affascinanti sul male. Va bene come racconto ma anche l’altra parte merita di essere raccontata.
Quanto fa male aver lavorato a qualcosa che poi non vede la luce del sole?
Molto. Ma sono comunque fiero del lavoro svolto. Ho dato io il titolo al film e mi sono speso molto per la sua realizzazione. Ricordo che scoprii la storia di Lucano quasi per caso, in una di quelle notti in cui si dorme poco e si scorre il dito sui social. All’epoca, andava di più Twitter e, scrollando, mi imbattei nella classifica di Fortune delle 50 persone più influenti del pianeta. Cominciai a leggerla per curiosità e al quarantesimo posto trovai Domenico Lucano, medico. “Ma chi è?”, mi chiesi. Mi spostai così sul motore di ricerca e scoprii la sua storia.
Al mattino, mandai un messaggio al produttore che poi realizzò il film: “Ho scoperto una storia che conosciamo poco in Italia ma all’estero questo è un mito”… Ero infatti basito dal fatto che nessuno in Italia conoscesse la vicenda mentre all’estero Lucano era considerato un’icona. Al sì del produttore, andammo in Rai, presentammo il progetto e tutti ne furono entusiasti. Ebbi anche l’idea di affidarne la regia a un regista come Giulio Manfredonia, uno in grado di coniugare dramma e commedia.
Non volevo che fosse un film politico ma poetico: sono sempre stato convinto che la poetica sia trecentomila volte più potente della politica. La poetica prende il cuore mentre la politica colpisce alla pancia, la poetica ti stende in un sol colpo mentre la politica ti deve massacrare di cazzotti prima di farti cadere. Il titolo richiamava metaforicamente il fatto che fossimo tutti sulla stessa barca e, sì, fa male non averlo visto. Ma a me inorgoglisce che sia stato silenziato: vuol dire che avevamo fatto qualcosa di molto potente.
“Tutto il mondo è paese” è una frase che potremmo ricondurre anche a Stranizza d’amuri. Nel film, si racconta un fatto avvenuto in Sicilia in un’epoca precisa ma che potrebbe accadere ancora oggi a qualsiasi latitudine del mondo, considerando come in molti Paesi, anche progrediti, l’omosessualità sia considerata sempre un reato. La storia di Giorgio e Toni ha avuto luogo a Giarre in Sicilia e ha dato origine a un’ondata di indignazione che ha portato anche alla nascita, a Palermo, nella prima sezione dell’Arcigay. Tuttavia, il paese in questione ci ha messo più di quarant’anni per omaggiare la memoria dei due ragazzi con una semplice lapide. Perché secondo te ha impiegato così tanto a vincere il senso di colpa che tutti quanti avevano?
La storia di Giorgio e Toni è molto complessa ma quella lapide è la dimostrazione di come si sia evoluta la società. La si deve ai giovani siciliani, alla nuova generazione: abbiamo aspettato quarant’anni ma la nuova Giarre, la Giarre giovane, ha spinto con energia affinché si rendesse omaggio a quei due concittadini. La lapide non è frutto del lavoro di una sola persona ma della spinta emotiva dei nuovi siciliani, che all’epoca dei fatti non c’erano nemmeno.
Sono molto orgoglioso di questa nuova generazione siciliana che lotta per liberare la terra dai mille stereotipi che da sempre l’accompagnano. Non vuol dire che non esistano più determinati problemi: la mafia, ad esempio, ha solo cambiato forma. Le sacche arcaiche persistono in qualche modo ma l’ago della bilancia si sta spostando: c’è ancora molto da fare ma la prospettiva è molto più ampia, moderna, avanguardista e civile. Il senso di denuncia è più forte dell’omertà.
A proposito di Sicilia che cambia, mi hai fatto riflettere su un fatto che ti ha visto recentemente protagonista. Lo scorso anno sei stato “madrino” del Pride di Palermo. E non sono mancati i commenti negativi sul tuo conto. Come si fa a togliere questi residui di retaggio da patriarcato, da mascolinità tossica o più semplicemente da stupidaggine e ignoranza dalla mente di chi popola i social?
C’è stato qualche commento sia all’epoca della bellissima esperienza umana che ho fatto a Palermo sia oggi per il mio film. Quella di Palermo è stata per me un’esperienza straordinaria: sono entrato carne e ossa nella festa bellissima della comunità lgbtqia+. E usato il termine festa consapevolmente: il Pride per me lo è, nonostante la distorsione del racconto mediatico che se ne fa.
Ho notato proprio in quell’occasione come i servizi al telegiornale il giorno dopo si allontanavano con le loro immagini dalla realtà per proporre soltanto sequenze di ragazzi vestiti in maniera eccentrica utili a far dire a qualcuno che non si manifestava per i diritti ma che si faceva il carnevale. Ho provato ribrezzo: l’anima del Pride è qualcosa di molto più forte: perché ad esempio non raccontare di chi partecipando vestito con gli abiti di tutti i giorni chiedeva libertà e uguaglianza? Il Pride non è il carnevale raccontato ma è la rappresentazione della libertà, della condivisione e della convivenza umana.
In quell’occasione ma, ripeto, anche oggi con il film, mi sento ripetere “Ma che c’entra Giuseppe Fiorello con i gay?”. È una frase che ho visto scritta sui social ma non solo. Ed è una frase che dice tutto: può averla scritta un omosessuale o un eterosessuale omofobo, non lo so, ma l’ha scritta qualcuno che non ha capito come la partecipazione sia la chiave per l’umanità per convivere e non mettere barriere. Siamo nati per la convivenza, è nella natura umana, e non per farci la guerra.
Altri commenti sono arrivati per la scelta della parola “madrino”. C’era alla base un tocco di ironia ma anche di eleganza nel giocare con la parola. Le parole hanno un peso specifico e occorre usarle con delicatezza.
E di parole se ne dicono tante in Stranizza d’amuri, il tuo film. Ma ce ne sono anche altre che non vengono dette e lasciate agli atteggiamenti. Penso ad esempio a Turi, l’etero dominante del bar, definiamolo così, che è il primo ad andare a cercare certi “favori” da Gianni in una scena psicologicamente anche dura.
Il personaggio di Turi è uno di quelli che ho voluto inserire appositamente perché ha tutto un mondo dietro. Un mondo che esistito e che esisto. Attraverso lui, volevo raccontare le fragilità dei ragazzi, uomini o donne che siano, che non ce la facevano ad accettare chi erano veramente. Turi è uno di quelli che più hanno paura di Gianni: è spaventato dal sentire dentro qualcosa che però cozza col suo modo di essere agli occhi della società. Nello spazio breve di quel personaggio, ho voluto creare il mondo di contrasti legato a chi ha paura di esprimersi… un timore che molto spesso genera sia violenza sia frustrazione: quelli che non sanno accettarsi sono i primi carnefici di loro stessi.
Un altro aspetto legati all’universo lgbtqia+ di cui non si parla quasi mai è quello della violenza domestica, psicologica e non, a cui in tanti ragazzi sono sottoposti tra le mura di casa. La violenza non è solo quella esercitata dai bulli di quartiere ma anche quella di una madre o di un padre che cercano uccidere l’io del figlio. E in Stranizza d’amuri la violenza domestica è ben rappresentata.
Si tratta di un altro di quegli aspetti che in molti stanno apprezzando e sottolineando in questi giorni di film in sala. Io non ho voluto fare un film a tema ma libero, un film che ognuno potesse fare proprio. Eppure, sono in tanti che stanno cogliendo spunto dalla storia di Nino e Gianni per portare alla luce ciò che accade all’interno delle famiglie di oggi. Nel 2023 esistono ancora ragazzi e ragazze costretti a scappare di casa, a prendere decisioni drastiche o a vivere situazioni di violenza tra le mura di casa Com’è possibile che ci siano ancora oggi tante famiglie che non capiscono e non comprendono?
Facciamo uno sforzo. Proviamo a capire le famiglie che non vogliono accettare l’identità di genere dei loro figli. Lasciamole libere di dirlo e di esprimere il loro pensiero. Ma tale libertà non deve sfociare in una scelta complessa a discapito dei figli e nella violenza. Anche se già non accettare un figlio perché omosessuale è di per sé una violenza. Qui però occorre tirare in ballo il concetto di cultura e ispirazione. Tutti noi prendiamo ispirazione dalla politica: se i politici dall’alto del loro potere e dei loro scranni parlano in un determinato modo, certe famiglie con alle spalle anche una certa corazza socio-culturale si sentiranno rafforzate e rassicurate da ciò che sentono. Ecco perché certi politici dovrebbero pensare bene alle parole che usano.
A Milano, come in altre città, esistono le cosiddette case arcobaleno. Le ho scoperte da poco, non ne conoscevo l’esistenza. Sono quelle strutture utili ad accogliere i tanti ragazzi e le tante ragazze che non vengono accettate dalle famiglie e che non possono più entrare in casa loro perché disconosciuti e rinnegati dai genitori. Ho voluto che i ragazzi di Milano partecipassero all’anteprima del film al Cinema Odeon: erano tutti in lacrime… vorrei ringraziarli e abbracciarli uno per uno, non solo loro ma anche tutti quelli che portano avanti un progetto bellissimo come quello delle case arcobaleno: dobbiamo proteggere questi figli.
Ambienti Stranizza d’amuri nel 1982. Che estate è stata quella per te?
Avevo tredici anni ma già allora mi intrigava osservare e ascoltare ciò che mi circondava. Oltre al gran caldo, ricordo le strade vuote del mio quartiere. Abitavo in una zona di Augusta che si chiamava Paradiso e all’ora delle partite dei Mondiali c’era poca gente in giro, quasi nessuno. Da lontano, per le strade, ci sentiva soltanto l’audio delle televisioni, tutte sintonizzate sulle partite. Era come se ci fosse una grande rete che connetteva tutti, sentivo una sensazione di unione che diventava sempre più grande man mano che la strada degli Azzurri proseguiva. Ricordo ovviamente l’euforia della vittoria finale, mi sentivo orgogliosissimo: eravamo sul tetto del mondo, scendevamo per strada con le bandiere e tutti ci sentivamo Paolo Rossi o Antonio Cabrini.
È stato un anno molto particolare quel 1982… non solo per i Mondiali ma anche per La voce del padrone di Franco Battiato, uno degli album più venduti di tutti i tempi: due eventi che sono pezzi della mia vita. Ma nel film ci sono tantissime altri episodi e personaggi che appartengono al mio vissuto. Quel tizio strano, mezzo vestito da cowboy con la radio in mano, era realmente un personaggio di Augusta, così come era il tizio che per scommessa alzava un’utilitaria: scommettevamo cinquecento lire a testa sul fatto che Enzo potesse o meno sollevare l’automobile… ma anche quel gioco che fanno i ragazzi davanti al bar è frutto dei ricordi della mia infanzia e adolescenza. Sono sapori indimenticabili.
Nel presentare il film Stranizza d’amuri al cinema Rouge et Noir di Palermo hai detto che c’è un po’ di te sia in Gianni sia in Nino. Se potessi scegliere una cosa di te riflessa in loro quale sarebbe?
Di Nino, scelgo la timidezza e la visione poetica, che emerge anche quando racconta dei fuochi d’artificio e mostra a Gianni il quaderno con i disegni del nonno. Per raccontare quell’aspetto, sono andato personalmente da una famiglia di fuochisti, volevo che fosse tutto realistico. Se vogliamo aggiungere una nota di produttività legato al film, ci siamo impegnati molto: non è una produzione piccola ma importante, grossa… è un film pensato esclusivamente per il cinema, in cinemascope, e probabilmente non lo si vedrà in nessuna piattaforma, non c’è per nostra volontà ancora nessun accordo su quel fronte. Volevo lasciare un sapore antico legato all’uscita in sala: o lo si vede ora o toccherà aspettare per farlo…
Come Nino, anch’io sono sempre stato un po’ visionario. Sono cresciuto con la passione per il racconto: non avevo chiaro il destino di questo mio essere così, non sapevo che avrei fatto l’attore in futuro… anche se mio padre lo aveva capito: mi stuzzicava spesso, sottolineava la mia vena poetica e diceva che da grande avrei fatto l’attore quando dentro di me non c’era ancora nessuna voce che andasse in tale direzione. Quanto aveva ragione lo avrei scoperto negli anni, anche se all’epoca imitavo spesso gli attori: mi rivedo davanti allo specchio a imitare Robert De Niro in Taxi Driver.
Non ero un cinefilo ma andavo al cinema. Accompagnato da mio padre o con gli amici, andavo a vedere i film di Franco e Ciccio, che all’epoca erano campioni di incasso con le file fuori dal cinema. Poi, i film di Bruce Lee, anche se erano un retaggio tramandato dalla generazione precedente alla mia… ricordo i cinema all’aperto, i film di Bud Spencer e Terence Hill (tutta la vita!) e il cinema popolare commerciale.
Ma anche Il tempo delle mele, in grado di restituire ciò che accadeva in quel momento: i maschi da una parte e le ragazzine del paese dall’altra, i baci che si scambiavano mentre si proiettava il film quelli che già si piacevano e che nel buio della sala si avvicinavano. Il cinema faceva innamorare le persone mentre si guarda un film o che generava ondate di affetto o emozione, un po’ come Stranizza d’amuri… Dopo una proiezione all’Anteo, c’è stata gente che si è abbracciata.
In Gianni, probabilmente, c’è la timidezza pronta ad esplodere in agguato o sfida se qualcuno tenta di violare la mia tranquillità. Voglio vivere tranquillo e libero, non calpesto i piedi a nessuno ma reagisco repentinamente alle provocazioni.
Hai appena citato tuo padre… e un ricordo del tuo legame con tua madre?
Con mia madre si discuteva spesso. C’erano delle discussioni anche forti perché si preoccupava amorevolmente della mia timidezza. Era un mio grosso limite, c’è stato anche un momento in cui la timidezza aveva raggiunto livelli quasi da mutismo selettivo: parlavo poco e niente. Non appena qualcuno mi rivolgeva lo sguardo, arrossivo perché temevo che mi coinvolgesse anche con un semplice ciao o come stai. Dover rispondere mi avrebbe messo in crisi… era come se mi si bloccasse qualcosa dentro, avevo paura di espormi e di dire la mia.
Per certi versi, è sempre stato un mistero il perché oggi io faccia questo mestiere, un lavoro che ha bisogno dell’essere espressivi e del sapere affrontare un pubblico, una platea, tante persone, diversi temi. Oggi le parole sono la mia occupazione ma all’epoca non me ne usciva neanche una, dandomi problemi anche a scuola. Alle riunioni era sempre “si comporta bene, è carino ma non parla mai” quando invece dentro di me sapevo le cose ma non le sapevo dire. Si racchiude in questa frase si racchiude dentro di me tutto ciò che sono stato e che sono ancora oggi, anche se avverto meno il blocco rispetto a prima.
E mia madre ovviamente si preoccupava su come avesse fatto quel ragazzino da grande se non avesse cambiato indole. Ed io non sapevo risponderle che in qualche modo avrei saputo come cavarmela. Ho raccontato di tutto ciò e dei suoi rivolti analitici in uno spettacolo, Penso che un sogno così…
In Stranizza d’amuri non ti vediamo recitare. Possiamo però ritrovarti come attore mercoledì prossimo su Rai 1 nel film I cacciatori del cielo, diretto da Mario Vitale (regista anche di un altro film di cui sei stato protagonista, L’afide e la formica).
Si tratta di un progetto particolare in cui mi sono buttato senza freni, una di quelle cose che ogni tanti mi piace fare d’istinto senza troppe sovrastrutture. Mi piaceva l’idea di raccontare un personaggio e dei fatti di cui non avevo alcuna conoscenza profonda. Per me, è stata l’occasione di conoscere un pezzo di storia del nostro Paese, un fatto storico e preciso: la nascita pionieristica dell’Aeronautica militare italiana per mano di un pioniere che con la sua visione ha dato slancio a quella che sarebbe diventata un’eccellenza nel mondo ancora oggi. Francesco Baracca ebbe una visione civile dell’Aeronautica e non solo militare.
C’è una tragica comparazione con quello che stiamo vivendo oggi. La storia purtroppo si ripete e quella di Baracca e di tanti nostri connazionali partiti per la guerra è paragonabile a quella di tanti ragazzi e uomini che oggi dalla Russia e dall’Ucraina sono chiamati a spararsi l’uno con l’altro perché qualcuno ha detto loro che bisogna farsi la guerra.
Storie come quella di Baracca o di Giorgio e Toni (quanti ne esistono ancora al mondo?) ci dicono che l’uomo alla fine è un criceto: sta sempre al punto di partenza. Dov’è l’evoluzione umana? Siamo capaci di far volare un aereo, ci riflettevo l’altro giorno, ma non di salvare delle persone in mezzo al mare che cercano su una barca di legno una speranza. È lì che ai miei occhi l’uomo diventa piccolo piccolo ed io pazzo… mi dico: guarda di cosa siamo capaci e di cosa non vogliamo essere capaci, due estremi veramente insopportabili dell’uomo.