Nella serie tv Mare fuori 3, disponibile su RaiPlay e in onda su Rai 2, Giuseppe Tantillo interpreta il personaggio di Alfredo, l’avvocato a cui nella prima puntata si rivolge Rosa Ricci. Gli appassionati della serie ricordano però come Tantillo fosse presente nella seconda stagione ma con il nome di Mirko.
Coinvolto in giri malavitosi, Alfredo ama la bella vita, le cose costose e le belle donne. E una delle sue conquiste era stata la giovane Silvia, a cui si era presentato come Mirko. I due si erano frequentati per qualche settimana, periodo durante il quale “Mirko” l’ha usata come corriere inconsapevole della droga fino a quando non era stata arrestata.
Nelle puntate di Mare Fuori 3 ritroviamo di nuovo Giuseppe Tantillo rivestire i panni di “Mirko” o, meglio, quelli di Alfredo. È sempre indaffarato a gestire clienti e affari loschi ma uno strano scherzo del destino lo riporta al cospetto di Silvia, che per colpa sua sta scontando una pena ingiusta. Ed è in quel momento che uno dei cattivi di Mare fuori 3 scopre chi è il vero Alfredo, come ci racconta in quest’intervista esclusiva Giuseppe Tantillo.
Ma non ci sono solo Alfredo e Mare fuori 3 nel percorso di Giuseppe Tantillo. Palermitano (è cresciuto a Monreale), è stato recentemente in scena con The Believers, spettacolo teatrale dell’acclamata autrice Bryony Lavery che andrà in tournée l’anno prossimo. Sta per cominciare le riprese di un importante (e top secret) film per il cinema e ritornerà in tv nella serie Mediaset Maria Corleone, prodotta da Taodue.
E non è tutto. Giuseppe Tantillo ha anche un personalissimo record: è l’unico attore in Italia a essere un autore teatrale premiato. Tantillo è stato infatti premiato a Riccione Teatro - il più importante premio italiano di drammaturgia - ed è stato finalista alla Biennale Autori a Venezia.
Giuseppe Tantillo, l’Alfredo di Mare fuori 3, sarà anche presto padre, come ci rivela tra una riflessione e l’altra. Un nuovo ruolo che lo porterà a confrontarsi con nuove responsabilità, sempre cosciente di quanto la libertà e la coerenza siano le basi del percorso di ogni essere umano. Imparate a conoscerlo con noi.
MARE FUORI: INTERVISTA A GIOVANNA SANNINO
MARE FUORI: INTERVISTA AD ANTONIO D'AQUINO
Intervista esclusiva a Giuseppe Tantillo
Sei partito da Palermo per frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico dal nulla. In pochi anni sei diventato il primo attore in Italia a essere premiato anche come autore teatrale. Non è cosa poco.
Fondamentalmente, sono un super stakanovista, un workaholic, come si dice oggi. Non riesco a stare fermo. La vita dell’attore è fatta di tante pause tra un lavoro e l’altro. C’è chi riesce a godersi le pause e rilassarsi e chi invece come me non ce la fa. Ho sempre bisogno di fare qualcosa: se non recito, scrivo. La mia ex psicoterapeuta diceva che avevo un problema con la mia parte ludica. Secondo me, è vero: tra le varie cose era la cosa più giusta che aveva indovinato di me. Non riesco a prendermi uno spazio libero, faccio fatica a regalarmi dei giorni di vacanza.
Qual era l’urgenza che ti aveva spinto a cercare l’aiuto di uno specialista?
Ci sono stato sei anni fa quando vivevo un momento di ipocondria. Sono sempre stato attento alle malattie e mi sembrava un aspetto gestibile fino a quando non mi sono reso conto che limitava la qualità della mia vita: era il momento, quindi, di intervenire. È stata la molla che mi ha spinto ad andare in terapia ma per un annetto circo: credo che la terapia debba avere un limite. Mi fanno un po’ impressione quelli che dicono di essere in terapia da vent’anni e di star benissimo: in terapia si va per risolvere un problema non per prolungarlo nel tempo.
Ipocondriaco… e come hai vissuto il primo lockdown?
Benissimo. Dopo quel momento, sono diventato molto meno ipocondriaco. In una società dove l’ipocondria è diventata una componente diffusa e tutti quanti hanno un’attenzione spasmodica verso se stessi, in un certo senso – inconsciamente – era meno interessante esserlo. Ero molto più rilassato, stavo bene, andavo tranquillo e non avevo paura. Ero in controtendenza, come quando da adolescenti ci si mette in contrapposizione con l’autorità. Ci ero arrivato in una fase della vita in cui non ero più adolescente.
Che è un po’ anche uno dei temi della serie tv Mare fuori…
Drammaturgicamente, è quello il senso. Ciò che ne attesta il successo, secondo me, è la capacità di riuscire a raccontare il momento in cui ti formi sentimentalmente, il più interessante. Leggevo di recente un’intervista a Annie Ernaux, premio Nobel per la Letteratura, in cui diceva che alla fine non fa altro che raccontare sempre quello che le è successo in quella fase della vita.
E cosa è successo nella tua adolescenza palermitana che ti ha portato ad appassionarti di teatro e recitazione?
La mia passione per la recitazione è arrivata ai tempi della scuola. Ho frequentato da adolescente il mio primo corso di teatro ma mai avrei pensato che ne avrei un giorno fatto il mio lavoro. Se mi avessi chiesto da ragazzino cosa avrei voluto fare da grande, non avrei mai risposto “l’attore”. Ho frequentato il corso per una questione di crediti formativi, anche perché ai tempi ero più interessato alla politica… nell’antica Grecia le scuole di diritto e quelle di recitazione erano le stesse e, quindi, è un po’ come se i pianeti in un certo senso si fossero allineati.
Tra l’altro, da piccolo, avevo passato gran parte dell’infanzia con mia madre che, da appassionata, mi portava sempre al cinema: a livello inconscio ciò aveva lavorato dentro di me più di quanto io me ne fossi reso conto. Quando poi mi sono trovato dall’altra parte della barricata, ho capito quanto la recitazione mi riguardasse più di quello che pensavo.
A Palermo, con tutto il bene che possiamo volere alla città e i suoi illustri attori, non è che si respiri l’aria della recitazione. E se si respira è solo in ambienti abbastanza ristretti.
E infatti non l’ho mai respirata… quando dopo il liceo dovevo prendere una decisione, ho valutato le scuole della città e, annusandone l’aria, ho realizzato che non era lì che volevo formarmi. Quasi senza rendermene conto, mi sono trasferito a Roma…
Perché “quasi senza rendertene conto”?
Non ero mai stato a Roma. La prima volta che vedevo la città avevo con me già le valigie per trasferirmi. Ci ho messo piede non come turista ma come abitante, avevo deciso di abitarci senza conoscere nulla. Non era a Palermo che volevo formarmi come artista, anche se artista è ormai una parola pericolosa e abusata.
Potremmo aprire una riflessione sulla parola artista. L’artista ha il compito di comunicare qualcosa attraverso la sua arte, un insieme di tecnica ed emozioni.
In un momento storico in cui si è perso il senso anche della formazione, tecnica è diventata una parola quasi disdegnata, come se fosse qualcosa che rendesse l’arte meno sincera. In realtà, è quella cosa che ti permette di utilizzare al meglio i tuoi strumenti e di comunicare meglio le emozioni. Guardiamo ai grandi attori internazionali di cui ci siamo innamorati: ricorrono tantissimo alla tecnica, Meryl Streep ne è la regina. E lo è nella maniera più sublime che porta a non accorgersene nemmeno. Se la tecnica non c’è, il tuo range da attore è limitatissimo: finisci con il fare delle cose che sono fotocopie l’una dell’altra.
Un po’ il grosso problema del cinema italiano, no?
In parte, sì. Perché poi in parte sono anche gli altri a costringerti a fare sempre la stessa cosa: bisognerebbe capire qual è il confine tra la mancanza di tecnica e il desiderio di essere rassicurati dal ritorno del già noto.
Ma un attore non dovrebbe osare e manifestare il suo coraggio andando oltre la copertina di Linus?
Per esprimere il coraggio ci vogliono anche le condizioni per farlo. Molto spesso per mancanza di soldi, le produzioni tendono molto a correre e non c’è tempo per la preparazione del ruolo. Non bisogna dimenticare che quello di attore è un lavoro che non si può fare senza le prove. E non vale solo per il teatro, vale anche per il cinema: si arriva sul set con un’idea precisa, non esiste che si improvvisi.
Come attore ti sei ritrovato a essere diretto da registi per cui le prove sono fondamentali. Penso ad esempio a Emma Dante che ti ha voluto nel suo film Via Castellana Bandiera.
Sono uno dei pochi palermitani a non aver mai incontrato Emma Dante prima delle riprese per il film. Mi aveva visto in tv, dove per Rai 3 avevo recitato nella versione televisiva di Carnezzeria: le era molto piaciuto il mio lavoro e mi ha chiamato per il film. Emma Dante ha un grandissimo senso delle prove e con lei ho vissuto un’esperienza particolarissima che non mi è mai più ricapitata: per Via Castellana Bandiera abbiamo fatto un mese di prove, come se fossimo a teatro, compresi gli esercizi fisici che faceva solitamente con la sua compagnia. Le interessava creare un gruppo di lavoro che condividesse lo stesso linguaggio comune e che abitasse lo stesso mondo da lei immaginato. Apparentemente, le prove sembravano avere poco a che fare con il lavoro cinematografico: ci sono tornate utilissime davanti alla macchina da presa, ci muovevamo tutti come se stessimo eseguendo la stessa danza.
Via Castellana Bandiera è insieme a L’estate sta finendo e Mangia, prega, ama è uno dei pochi film in cui hai recitato. Perché il cinema non ti ha ancora notato mentre sterminata è la lista delle produzioni tv a cui hai preso parte?
È una domanda interessante. Interpreterò un film per il cinema tra un paio di mesi ma non posso ancora dire nulla: rimedieremo in futuro. Non so rispondere alla tua domanda: credo che abbia a che fare un po’ con il caso. È capitato così: ho fatto molto più teatro e televisione e un po’ meno cinema, che tra l’altro è forse la cosa che più mi appassiona ma che ho frequentato meno. Tutto avviene per caso e si trasforma per caso: non cerchiamo motivazioni più o meno interessanti.
Come capita a qualsiasi attore, ci sono stati provini andati a buon fine e altri no. Sono stato vicinissimo a fare cose interessanti, belle e non. Ho detto un sacco di no, sia al cinema sia in televisione, anche quando non me lo potevo permettere: ho imparato, al di là di tutto, che non c’è niente di peggio che ritrovarsi in un posto che non ti corrisponde per niente. C’è sempre un confine tra la tua comfort zone, la curiosità di scoprire cose nuove e le pelli che non vuoi abitare, tanto per citare Pedro Almodovar.
Da un giovane attore ti aspetti sempre che, per la sua fame anche di fama, si dica sì a qualsiasi proposta. Tu dici invece no anche quando non te lo puoi permettere. Questo rivela molto della tua personalità e rivela le tue idee ben chiare. Idee che si manifestano soprattutto a teatro, dove oltre a essere attore sei anche autore e regista. Che definizione dai di questi tre differenti ruoli?
Tutti e tre hanno a che fare con delle parti di me: non ne potrebbe mancare nessuno. L’attore ha a che fare con la mia parte leggera, in senso calviniano: si deve lavorare sui propri sentimenti in maniera deresponsabilizzata per raccontare un mondo che non hai scritto tu e che corrisponde all’idea di un altro. È molto faticoso ma ho bisogno di questo “sfogo”: non è un caso che quando vado a rinnovare la carta d’identità alla voce professione c’è sempre quella di attore. Mi sono diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica come attore e da questo parto, è qualcosa a cui non rinuncerò mai. Sfiora quella parte ludica con cui ho qualche problema e, quindi, mi restituisce quella serotonina che mi fa star bene.
La scrittura, invece, è come una specie di viaggio in quello che da sveglio vedo del mio inconscio. È come se fosse un viaggio attraverso i pensieri, i ricordi e i sogni, che si mischiano in una specie di dimensione spazio-temporale che assomiglia a quella della fisica quantistica.
Del regista, infine, si dice spesso che si senta Dio perché decide tutto. C’è una parte di verità in questo, sarei ipocrita nell’asserire il contrario: il regista fa muovere le persone e le fa parlare come vuole lui, è la cosa che sognano tutti. Tuttavia, per come intendo io la recitazione e da direzione degli attori, il regista è colui che permette agli altri di esprimere loro stessi al 100% e di tirar fuori quella che è la loro proposta. Sono molto poco despota nel chiedere agli attori di fare qualcosa: li scelgo perché mi piacciono e di conseguenza li lascio liberi di lavorare secondo il loro modo, li posso semmai guidare.
Come attore, amo avere dei registi che si fidano di me, che mi lasciano lavorare e che mi guidano: non amo quel tipo anche di formazione italiana che per tanti anni ha visto i registi lavorare molto sull’indurre la battuta da dire. Quel modo di fare ha creato quella frattura sintattica con l’idea della tecnica di cui parlavamo prima: si riduceva quasi a un’imitazione di qualcos’altro, non era il modo migliore per tirar fuori i sentimenti.
Nelle tre definizioni hai spostato pian piano il centro dell’attenzione. Nel caso in cui ti ritrovi a essere attore, autore e regista contemporaneamente, dove trovi il baricentro?
Molto spesso mi è capitato di scrivere, dirigere e essere anche in scena. Come dicevo anche prima, la verità è che sono tre lavori completamente diversi che raggiungono un’unità forse soltanto dopo tante repliche. Quando scrivo penso soltanto alle esigenze dell’autore. Ma, quando prendo il testo in mano e comincio a pensarmi anche come attore, nascono le problematiche del caso. Compresi i conflitti dell’attore con l’autore, gli stessi che mi verrebbero se il testo fosse stato scritto da un autore morto da 200 anni!
Trovare una chiave di lettura da regista è il terzo problema che sorge. Capita che il me regista sia in conflitto sia con il me autore sia con il me attore. Sono quindi tre parti di me che vanno in conflitto fino a che, come succede nella vita, non si trova un punto di incontro… senza che gli altri intorno se ne rendano conto!
Si rischia anche di sbarellare. Ti ci vedo che litighi con altre due riflessi di te in uno specchio.
Esattamente: è come se ci fossero tre me allo specchio o in un’altra forma che discutono fra loro e si mandano anche a quel paese. Io mi contesto molto, non amo l’autorità in genere e quindi contesto persino la mia!
Fortunatamente, sei un Leone e non un segno dalla personalità doppia. Altrimenti, altro che borderline…
Bisogna anche accettarlo, no? Quando si va in psicanalisi, si pensa di dover risolvere i propri problemi e le proprie questioni. In realtà, lo scopo è l’accettazione e non la soluzione: non si può essere persone migliori ma si può accettare la propria unicità, quello che si è.
A proposito di accettazione, è stato facile per i tuoi genitori accettare il tuo desiderio di voler proseguire gli studi come attore?
Sono cresciuto con mamma. Ho perso mio papà che ero molto piccolo. Quando hai soltanto un genitore, tutto è ancora più difficile: è la persona che prende tutte le decisioni e che si sente responsabile di qualunque cosa tu gli dica, anche se sei grande. Mia madre non è messa minimamente di traverso rispetto alla mia volontà: non è che abbia deciso di fare una festa ma, in linea con quella che è stata anche la mia formazione familiare, mi ha detto che avrei dovuto studiare. Ecco perché per me l’obiettivo principale è stato quello di entrare in una scuola importante per formarmi. Le sarò sempre grato di avermi permesso di realizzare i miei sogni. Non avrei però potuto farlo all’acqua di rose ma non sarebbe stato comunque il mio modo.
Come hanno preso, invece, i tuoi coetanei la tua scelta? Hanno provato a smorzare i tuoi sogni?
Per i miei amici, è stata considerata normale. Era la prosecuzione giusta del percorso scolastico che avevo intrapreso. Non sono stati loro a tentare di smorzare i miei sogni: non mi scorderò mai il giorno in cui, di fronte ai risultati appesi in bacheca con i voti del diploma, la madre di una mia compagna mi chiese cosa avrei fatto. Risposi l’attore: “Ah, bello. E come lavoro, invece?”, fu la sua controbattuta. Un grande classico: quando scegli di fare qualcosa che appare agli altri extra ordinario, il solo fatto di dirlo provoca in tutti quelli che non hanno deciso di fare qualcosa di straordinario, che però magari hanno sognato, un certo fastidio. È come se volessero in qualche modo spingerti ad abortire i tuoi sogni come hanno fatto loro.
Ma non solo: c’è l’idea diffusa che far l’attore non sia un lavoro faticoso. E questo pensiero in qualche modo condiziona dal punto di vista del welfare la professione. Lo stereotipo arriva persino a modificare le questioni sociali, raggiungendo anche la politica con le sue mancate tutele.
Hai appena raccontato di essere cresciuto solo con tua madre e, quindi, per forza di cose senza un modello maschile di riferimento. Arriva però poi il momento in cui nella vita si deve fare i conti con ciò.
Cito una frase da Tutto su mia madre di Almodovar: i figli maschi che crescono solo con la madre hanno uno sguardo diverso da tutti gli altri, li riconosci. È vero: c’è qualcosa che mi porta a riconoscere chi ha vissuto la mia stessa esperienza. È una questione su cui mi pongo particolari domande in questo periodo: tra qualche giorno diventerò padre. E mi chiedo come esserlo dato che ho pochi ricordi. La riposta me l’ha data proprio mia madre: “Te lo sei immaginato tanto (tuo padre, ndr). Sarai il padre che ti sei immaginato”.
Futuro padre: smorziamo i sogni di tante adolescenti che sono invaghite del tuo Alfredo. Quella adolescenziale è una fetta molto ampia del pubblico di Mare fuori, soprattutto femminile. Da cosa è, secondo te, attratto?
Prima di tutto, dal racconto dell’adolescenza, come dicevamo prima, e da quanto struggente sia trasformarsi da adolescenti in uomini e donne. Nei protagonisti di Mare fuori tale trasformazione avviene tra l’altro in una dimensione così particolare come quella del carcere, in un contesto in cui redenzione e cambiamento assumono una valenza anche maggiore. Il voler cambiare vita è un desiderio di qualunque adolescente perché il bello dell’adolescenza è quello di non essere contenti di se stessi. È un desiderio che ci portiamo avanti tutta la vita, anche quando fingiamo di no: considero il voler sempre cambiare il grande motore dell’essere umano. Questa è la risposta che mi sono dato io, non ho chiaramente la presunzione di avere quella definitiva.
In Mare fuori, interpreti Alfredo, un personaggio che abbiamo visto già nella seconda stagione, in una veste decisamente da villain: è colui che causa l’arresto di Silvia. Nella terza stagione della serie tv lo ritroviamo come avvocato di Rosa Ricci ma pian piano va incontro a un’inaspettata evoluzione.
Alfredo non è il cattivo che uno legge nel momento in cui lo vede per la prima volta in Mare fuori 2. Per interpretarlo, sono partito da una domanda: cos’è un cattivo? Si tratta di una delle domande più interessanti che un attore (e non solo) si possa porre: alla fine, il cattivo è un buono che non ce la fa. È uno che per mancanza di coraggio ha deciso di rovesciare la scala dei valori e di cercare un modo meno doloroso di sopravvivere.
Non dico che i cattivi vadano giustificati ma almeno capiti: in una società sana, vanno capiti i propri figli, anche quelli che non piacciono. Ed è quello che cerco di fare io come attore: devo comprendere un cattivo perché se lo giudico è finita, non verrebbero fuori né una buona interpretazione né un personaggio interessante.
Alfredo, a mio avviso, è un uomo che si difende tanto dal dolore quanto dalla paura di esprimere i propri sentimenti. L’incontro con Silvia rappresenta in realtà la sua grande occasione di redenzione e gli fa abbassare le difese: quando sta con lei, vorrebbe essere come la ragazza lo vede. Ma la vigliaccheria prende il sopravvento portandolo a fare quello che fa, con tutte le conseguenze legali del caso. Tuttavia, l’evoluzione completa avverrà nel corso delle puntate della terza stagione: quando i personaggi sono scritti bene, c’è sempre qualcosa che li rende struggenti.
La terza stagione di Mare fuori ha cominciato a far parlare di sé ancor prima della messa in onda per via della storyline omosessuale (che avrà il suo apice nella puntata in onda l’8 marzo su Rai 2, ndr).
È una necessità che si portino in scena determinati racconti. Se non lo si fa, la società non si evolve e in Italia si fa una grandissima fatica a fare dei passi avanti che altrove sono stati fatti una ventina di anni fa. Prima di tutto, è sempre la politica a essere molto indietro: mi vergogno di vivere in un paese che non riesce a salvaguardare i diritti civili e a trovare una politica inclusiva in cui si smetta di ragionare con parametri del secolo scorso.
Dawson’s Creek già vent’anni fa presentava una scena con un bacio gay: mai avrei pensato di ritrovarmi a distanza di tempo in una società che ancora si scandalizza o addirittura odia anche più di allora. Ho come la sensazione che negli ultimi vent’anni si sia tornati indietro in maniera preoccupante, anche sul fronte di quei diritti acquisiti che qualcuno tenta di rimettere in discussione. Sembra proprio che non si riesca ad andare avanti e che, per evitare la staticità, si vada indietro.
Cos’è per te la libertà?
La libertà è partecipazione. Non potrei trovare una definizione migliore di quella di Gaber.
Sarai tra i protagonisti di un’altra serie tv molto attesa: Maria Corleone su Canale 5. E tornerai anche a teatro. Cosa ti aspetti da quest’anno?
Le serie tv sono qualcosa che quando vanno in onda hai già fatto a volte da tempo: emotivamente, sei già oltre. Ne segui l’uscita ma è sempre qualcosa da cui emotivamente sei già distante: non c’è la diretta, come in teatro, e manca l’adrenalina del feedback immediato. Quindi, non ci sono aspettative: il mio viaggio emotivo l’ho già affrontato e sono proiettato verso le cose che verranno. Sul film che comincerò a girare o sul nuovo testo teatrale che sto finendo di scrivere in questi giorni.
Non chiedermi di cosa parlerà il testo: non riesco a parlarne fino a quando non l’avrò consegnato come lavoro. È come se si interrompesse altrimenti quel famoso viaggio all’interno dell’inconscio di cui parlavamo prima. Non ho di certo paura che mi rubino l’idea: per usare una terminologia cara ai produttori cinematografici, sono più un autore da low concept, mi interessano i sentimenti delle persone e non gli alieni che invadono la Terra.
Ma, da attore, non ti scoccia essere chiamato la maggior parte delle volte per il ruolo del siciliano?
Da morire. A un certo punto, diventa snervante. Ci si fa il mazzo a studiare e poi ti chiedono di essere quello che sei già. Ma da un certo punto di vista è vantaggioso: la Sicilia, con Lazio e Campania, è una delle regioni che evoca più serie tv e film. alla fine, si moltiplicano anche le opportunità lavorative e qualche volta si può scendere a compromessi pur mantenendo fede ai propri ideali. Quando devo far delle scelte, valuto quanto mi va di affrontare quel viaggio, a prescindere dalla regionalità: non accetto mai cose che mortifichino più di tanto o non corrispondono minimamente a ciò che è un realtà. Noi attori siamo sempre dei megafoni: se sento puzza di qualcosa di insincero, preferisco declinare l’offerta.
Hai poi conosciuto Fiammetta Borsellino nella vita?
Non è possibile che sia andato a ripescare questa cosa qui… è stata la prima posa della mia vita quella in Paolo Borsellino. Non l’ho mai conosciuta ma, come vedi, ci sono progetti e progetti. È vero che parla di Sicilia ma ci sono prodotti, per cui la valutazione viene fatta in maniera approfondita sia rispetto al progetto sia rispetto alle persone coinvolte.