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Giuseppe Tantillo: “Perdonarsi quando non si è all’altezza delle aspettative” – Intervista esclusiva

giuseppe tantillo film iddu
L'attore palermitano racconta il percorso psicologico dietro al suo ultimo ruolo, il rapporto con la Sicilia e il cinema d’autore, e riflette su vanità, paternità, corpo maschile e l'importanza di raccontare storie scomode senza cadere nella semplificazione.
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Giuseppe Tantillo è uno di quegli attori capaci di muoversi con disinvoltura tra il grande schermo, il teatro e la televisione, mantenendo sempre una profonda consapevolezza del proprio ruolo e della complessità dell’essere umano. Nato a Palermo, ha saputo attingere dalle radici siciliane una comprensione intima e sensibile di una terra che è intrisa di contraddizioni storiche, sociali e culturali. Tale complessità emerge potentemente nel suo ultimo lavoro, Iddu, un film che affronta un capitolo ancora scottante della storia italiana, la latitanza di Matteo Messina Denaro, attraverso il prisma del grottesco e del surreale.

Il film Iddu, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza e al cinema da giovedì 10 ottobre, affronta il tema della mafia in un modo inusuale: non c'è una glorificazione dei personaggi, né una rappresentazione epica della criminalità, ma piuttosto un’indagine grottesca di un sistema che si autoalimenta di silenzi, complicità e miserie umane.

Il ruolo che interpreta nel film, Pino Tumino (genero del Catello di Toni Servillo), è tutto fuorché ordinario. Giuseppe Tantillo lo descrive come un personaggio che richiede di abbandonare ogni forma di vanità, di spogliarsi dell’ego per abbracciare la tenerezza, una qualità che, come lui stesso ammette, è spesso dolorosa da rappresentare perché implica l'esposizione delle proprie fragilità. Per Giuseppe Tantillo, la tenerezza di Pino è il suo punto di forza e di debolezza, una caratteristica che lo rende profondamente umano e, al tempo stesso, lo aliena da un contesto sociale che ha perso ogni contatto con l’emotività autentica rendendolo un cretino, in senso sciasciano.

Nell'intervista esclusiva concessa a The Wom, Giuseppe Tantillo riflette su come questo termine sia in realtà molto più complesso di quanto possa sembrare. Nel contesto siciliano, il cretino è colui che è fuori luogo, che non si adatta alle regole del gioco, una figura che può diventare emblematica di chi si distacca da un mondo di corruzione e complicità. Per interpretare Pino, Giuseppe Tantillo ha dovuto fare un lavoro profondo su se stesso, eliminando ogni traccia di autocompiacimento estetico, un processo che lo ha coinvolto non solo a livello psicologico ma anche fisico, grazie al contributo di trucco e parrucco.

In questa intervista emerge anche la sua visione lucida e critica nei confronti della realtà siciliana contemporanea e del modo in cui viene rappresentata. Giuseppe Tantillo non teme di prendere posizione contro coloro che osteggiano il film per paura di mitizzare la figura di Matteo Messina Denaro. Anzi, ribadisce l’importanza di raccontare storie scomode, di affrontare la mafia non solo come fenomeno criminale, ma come una realtà ancora viva, che continua a influenzare la vita delle persone. "Rimuovere queste storie è inquietante", afferma, sottolineando come il cinema possa essere uno strumento potente per risvegliare coscienze e riflettere criticamente su un passato che ancora non è del tutto alle nostre spalle.

Ma non manca una riflessione personale sulla popolarità e sul mestiere di attore. Giuseppe Tantillo racconta come abbia vissuto con leggerezza il successo ottenuto con Mare fuori, senza lasciarsi travolgere dall’attenzione mediatica, ma mantenendo sempre una forte concentrazione sul lavoro. "La vanità può aiutare a salvarsi, ma quando diventa l’unico motore, porta alla fine dell’attore", dice, evidenziando quanto sia fondamentale per chi recita mantenere un ascolto costante degli altri e del mondo che lo circonda.

Il dialogo si chiude su una nota intima, con una riflessione sul suo essere padre, un’esperienza che gli ha fatto riscoprire la tenerezza in una forma nuova e inaspettata. Giuseppe Tantillo racconta come la paternità lo abbia portato a confrontarsi con una realtà che non aveva previsto, con la responsabilità di crescere un altro essere umano e il timore iniziale di non sentirsi all’altezza. Ma, proprio come accade nella vita e nel suo mestiere, è nell'accettare le proprie imperfezioni e nel perdonarsi che trova la forza di andare avanti.

Con una visione lucida e appassionata del proprio lavoro, Giuseppe Tantillo si conferma un attore profondo e consapevole, capace di dare voce a personaggi complessi e sfaccettati, mentre riflette su una Sicilia che ancora fatica a liberarsi dai suoi fantasmi, ma che continua a essere una terra fertile per chi vuole raccontarne le storie.

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Giuseppe Tantillo (Foto: Andrea Ciccalè; Press: Nicoletta Gemmi).
Giuseppe Tantillo (Foto: Andrea Ciccalè; Press: Nicoletta Gemmi).

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Intervista esclusiva a Giuseppe Tantillo

“Per descrivere chi è Pino Tumino devo partire da un aggettivo che usa Catello, il personaggio interpretato da Toni Servillo”, esordisce Giuseppe Tantillo quando gli chiediamo del suo ruolo del film Iddu in uscita al cinema il 10 ottobre dopo la presentazione in concorso allo scorso Festival di Venezia. “Nel commentarlo per la prima volta insieme alla moglie, Catello lo apostrofa come un ‘cretino’, proferito nell’accezione tutta siciliana del termine: laddove altrove può suonare come un insulto, in questo caso ha la sua origine nel mondo letterario di Sciascia ed equivale all’essere completamente alieno da quello che è il contesto circostante”.

“Nel tratteggiare Pino mi è stato richiesto esplicitamente dai due registi portare tenerezza, qualcosa che nel periodo storico che viviamo è venuta molto a mancare. Da attore, mi sono dunque chiesto come e dove potessi cercarla e ritrovarla… e alla fine ho dedotto che l’unica cosa che potevo fare era eliminare del tutto la vanità. La tenerezza è qualcosa di profondamente doloroso da mostrare e non può esistere laddove c’è la vanità, una sorta di armatura anche semplice che indossiamo nel gestire i rapporti con gli altri e rassicurarci. Chi mostra apertamente la propria tenerezza non si rassicura e soffre molto per ciò che gli arriva, per le conseguenze dirette della sua ipersensibilità”.

“Ho tolto dunque a Pino qualsiasi forma di umanità, facendo un percorso che, come attore, è stato anche molto doloroso perché, comunque sia, un attore vive anche di sana vanità”, prosegue Giuseppe Tantillo. “Con l’aiuto di trucco e parrucco, abbiamo tolto tutto ciò che avrebbe potuto far riferimento anche a un piacersi estetico”.

Manca ormai poco all’uscita di Iddu nelle sale ma in Sicilia c’è un forte movimento quasi di opposizione al film tra chi sceglie di non mostrarlo al cinema per paura di mitizzare la figura del latitante al centro del racconto e chi imbratta i manifesti in giro per la città. Da siciliano quale sei, che ne pensi?

Pensare di non raccontare qualcosa che ancora oggi genera evidenti conseguenze nella società siciliana o di rimuoverla è inquietante. Il film merita di essere trattato come un’opera d’arte che, da un punto di vista autoriale, permette di mostrare le cose in modo meno semplicistico rivelandosi utile alla società civile stessa.

Anzi, mi auguro che siano sempre dei racconti che non vogliano solo far cronaca o ritrarre il tutto in maniera fumettistica perché quello della mafia è un fenomeno tutt’altro che finito o estinto: nel caso di Matteo Messina Denaro parliamo di storia contemporanea e non di secoli fa. Va benissimo raccontare la Sicilia pensando al cineturismo ma non possiamo però ignorare come ci siano questioni molto serie che abbiano necessità di non essere dimenticate.

E per raccontare questa storia i due registi scelgono come tono il grottesco. Com’è stato per te da attore passare da un tono più realistico come quello della serie Mare fuori a uno più surreale?

Il linguaggio di una serie tv è chiaramente diverso da quello di un film d’autore: si tratta di prodotti che hanno ambizioni, tempi, tematiche e scopi differenti. La televisione può permettersi di ricorrere a volte a un linguaggio più semplice e meno stratificato per arrivare a un numero più ampio ed eterogeneo di persone mentre il cinema può permettersi una narrazione più impegnativa e un approccio meno semplice. Non esistono regole prestabilite per cosa sia bene fare e cosa no, parliamo di medium diversi.

È vero che in tv mi sono cimentato con un linguaggio diverso più “facile” ma è anche altrettanto vero che nel mio percorso teatrale ho abbracciato un tipo di linguaggio molto più complicato. Il teatro è un luogo che ben conosco e che abito spesso, oltre a essere il tramite attraverso cui io e Fabio Grassadonia ci siamo conosciuti e abbiamo imparato a stimarci reciprocamente. Per me, non si è trattato dunque di fare un salto quantico tanto più che nella mia scrittura teatrale ho anch’io usato spesso il grottesco.

A pensarci bene, anche Via Castellana Bandiera, altro film che hai interpretato e presentato in concorso anche quello a Venezia qualche anno fa, ricorreva al grottesco.

Pur essendo opere diversissime, i due film condividono l’essere il frutto di autori molto liberi, di outsider che vanno oltre le regole implicite del sistema produttivo italiano. E, laddove ci sono film e autori che vanno a investigare generi non molto frequentati dal nostro cinema, io trovo una dimensione, uno spazio e un’empatia maggiori. Ragione per cui mi auguro che mi arrivino altre proposte professionali che possano spingermi oltre il già visto. Purtroppo, si fa un po’ fatica ad andare oltre: molto spesso in Italia si tende ad avere paura di ciò che non è stato fatto e rifatto mentre all’estero c’è molto più spazio per la sperimentazione.

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Iddu: Le foto del film

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Le due esperienze veneziane sono però separate dalla popolarità che comunque Mare fuori ti ha regalato.

Vivo la popolarità in maniera abbastanza ironica: è qualcosa che esiste e di cui ci si può anche nutrire. Può essere divertente per un attore ma è anche un riconoscimento del proprio lavoro: è dunque anche piacevole viverla. Cambia semplicemente qualcosa dal punto di vista pratico: quando ci si sposta per strada, si viene ovviamente fermati… quando ero stato a Venezia con il film di Emma Dante, ovviamente non mi riconosceva nessuno mentre quest’anno faticavo a spostarmi anche per salutare un amico.

Ma ho vissuto tutto, come sempre, in maniera molto disincantata, con quella giusta leggerezza che non posso permettermi sul lavoro, dove invece sono sempre super rigoroso e super attento a qualsiasi aspetto. Tutto il resto è invece gioco e come tale lo vivo: tutti noi attori abbiamo anche il dovere di essere leggeri in determinati frangenti: dobbiamo concedercelo perché altrimenti la nostra vita diventerebbe insostenibile.

L’addio ad Alfredo, dopo tre stagioni, è stato un saluto voluto o dettato dalle circostanze?

Per quanto mi riguarda, non esiste un saluto. Sono profondamente convinto che i personaggi sulla carta non esistano: sono semplicemente delle suggestioni di chi ha scritto qualcosa. Prendono vita solo quando un attore decide di giocarci per vari motivi. E il gioco va avanti fino a quando non finiscono le parole che qualcun altro ha scritto per te. Per me, non c’è alcuna fatica o stranezza nell’entrare e uscire da un personaggio, soprattutto quando è chiaro come in questo caso che tutto avrebbe avuto una fine. Gli accordi erano chiari sin dall’inizio: entravo nella seconda stagione di Mare fuori e uscivo alla quarta, quando il suo arco narrativo come quello di altri personaggi si sarebbe concluso. Non credo che Alfredo avesse altro da dire…

Sei uscito dal cast di Mare fuori proprio mentre entrava Antonia Truppo, tua partner di scena in Iddu.

Antonia è stata uno degli incontri felici di questo set: la maggior parte delle mie scene sono con lei e con Toni Servillo. Non ci siamo per ovvie ragioni incontrati a Napoli ma è stato divertente raccontarci aneddoti e ‘segreti’ dell’IPM: da nuova arrivata nella serie, mi chiedeva cosa l’avrebbe aspettata… usavamo le pause durante le riprese di Iddu per confrontarci su Mare fuori, aveva qualcuno con cui poteva farlo e che poteva prepararla per quello che sarebbe stato.

Pino ma anche Alfredo ti hanno richiesto da attore di sospendere il tuo giudizio sui personaggi stessi.

Non ci possiamo permettere in generale di giudicare i personaggi che interpretiamo: se si vuole rendere anche un servizio civile alla storia che si sta raccontando, un attore deve sospendere il suo giudizio. Non esiste nulla di più grave di un attore che giudica il suo personaggio: facendolo, restituirebbe di sicuro una pessima interpretazione e non darebbe al pubblico la possibilità di decidere in maniera autonoma e orientarsi liberamente.

Il cinema, come tutte le forme d’arte, deve aiutare nella comprensione della realtà e non essere didascalico: l’attore è solo un tramite che fa sì che il racconto arrivi dove deve senza giudicarlo. Ed è un esercizio che fa bene in primis all’attore stesso: nell’interpretare qualcuno molto lontano da se stesso, comprende meglio la complessità dell’essere umano e qualunque forma di malvagità insita in ognuno di noi.

Giuseppe Tantillo.
Giuseppe Tantillo.

Giuseppe ha mai sospeso il giudizio su se stesso?

Sì, soprattutto nel non condannarsi per le scelte sbagliate. Ma più che sospendere il giudizio cerco di perdonarmi. Si tratta di un gesto che ci risulta sempre difficile: non ci perdoniamo mai gli errori. Per mia natura, tendo a rimuginarci troppo sopra: sono molto esigente nei confronti di me stesso e, se qualcosa non va come avevo previsto che andasse, tendo a darmene la colpa. Sì, do sempre la colpa a me stesso e mai agli altri, qualsiasi cosa accada: è l’unico modo per trarre insegnamento e non sbagliare nuovamente… ma la verità è che bisognerebbe accettare il fatto che è impossibile non sbagliare.

Sto imparando dunque a perdonarmi, soprattutto quando non mi sento all’altezza delle mie aspettative. Ma non mi riesce ancora bene: ci provo ma qualcosa mi dice che non risolverò mai fondamentalmente il problema.

L’essere diventato padre ha influito?

Ha aumentato le aspettative. L’essere il padre che ho sempre immaginato per mio figlio è un’ulteriore responsabilità. Quando immaginiamo la genitorialità, lo facciamo in maniera riduttiva attraverso il nostro solo punto di vista non tenendo conto che avremo poi a che fare con un altro essere umano che con il suo sguardo ci rimanderà indietro altro. Ed è quando accade ciò che capisci che non puoi pensare di decidere tutto a prescindere: la genitorialità è condivisione e non applicazione di un’idea.

Cosa hai pensato la prima volta che hai tenuto Lucio, tuo figlio, in braccio?

‘E che ci faccio con questo?’ è stato il primo pensiero. Non ho provato ad esempio nessuno di quei sentimenti particolari che molto spesso senti raccontare da altri. Quando ho preso in braccio mio figlio, lo percepivo come un estraneo con cui cominciare a rapportarmi alla pari. Ho avuto anche timore di non avere un sentimento di paternità ma, per fortuna, non mi sono giudicato e ho imparato a capire che la genitorialità non è un’epifania: non è come l’apparizione della Madonna per cui ti si rivela ogni segreto ma ha a che fare con la crescita di un amore che parte da un inizio ed è destinato a diventare enorme nel corso dei giorni, delle settimane e dei mesi. E forse questa è stata la scoperta più straordinaria che ho fatto.

Ed è lì che hai scoperto la tenerezza?

Inevitabilmente. Purtroppo, la tenerezza, se ci guardiamo intorno, è qualcosa che in questo momento è inesistente. C’è un verso di una canzone di La Rappresentante di Lista che dice ‘maledetta tenerezza che ti spezza anche le ossa’ che trovo bellissimo per la gran verità che dice: bisogna essere molto coraggiosi per essere teneri…

…e non vanitosi?

Non ho pregiudizi nei confronti della vanità ma ho giudizi per l’eccesso di vanità. Chi fa un lavoro come il mio, soprattutto all’inizio, attraversa un campo di battaglia dove chiunque ti spara contro qualcosa, dalle proprie opinioni ai propri commenti: la vanità aiuta a salvarsi, a prendersi in giro e a dirsi di essere meglio di quello che dicono.

La vanità è un modo per prendersi maggiormente cura di se stessi: il problema è semmai quando diventa un sentimento unico o l’unico motore dell’essere umano, portando all’assenza di ascolto verso gli altri. E per un attore ciò è tragico: segna la fine del suo percorso. Come sostiene Meisner, acting is reacting: se smettessi di ascoltare gli altri per concentrarmi solo su me stesso, non reagirai più a nulla e sarebbe la fine.  Come ogni cosa, è dunque un problema di misura. Ma, in un’epoca storica in cui si tende a estremizzare tutto dimenticando che l’essere umano è grigio e non solo bianco o solo nero, purtroppo per sentirsi fighi si finisce per diventare sordi.

Giuseppe Tantillo.
Giuseppe Tantillo.

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A proposito di vanità, che rapporto hai con il tuo corpo?

Ho un rapporto attento ma non maniacale con il mio corpo: faccio sport, sto attento all’alimentazione ma, se sto un mese in vacanza, magio, bevo e non maturo alcuna ossessione. Lo definirei dal mio punto di vista un rapporto molto sereno: mantengo il mio corpo allenato ma gli do pace. Non vado alla ricerca spasmodica della perfezione…

Si parla moltissimo del corpo delle donne ma anche l’estetica del corpo maschile, purtroppo, rischia di andare incontro a una deriva molto pericolosa. Da attore, ad esempio, rimango molto perplesso nel vedere alcuni colleghi inseguire e ricercare una specie di perfezione che non esiste: non è né sano dal punto di vista della salute né idoneo per il lavoro che siamo chiamati a fare.

Quel tipo di corpo con la tartaruga in bella vista e il bicipite perfetto da ostentare è, ad esempio, compatibile con i racconti che dobbiamo poi interpretare? Da spettatore, quando vedo in scena dei ‘disperati’ che sotto la maglietta mostrano corpi che solo chi frequenta le palestre cinque giorni a settimana può permettersi, smetto di credere anche alla storia stessa.

A me stesso un addetto ai lavori una volta disse “voi attori quando siete bravi non siete muscolosi”. Rimasi colpitissimo dalla frase, come se fosse oramai uno standard esserlo o una qualità insita nell’attore. Tra l’altro, dimenticando che con un po’ di preparazione prima di iniziare le riprese tutti quanti potremmo avere un corpo in linea con ciò che la storia richiede.

Di mio, sono un amante di un’estetica quasi vintage, di quella che si vedeva nei film di quarant’anni fa quando anche i canoni di bellezza maschili non erano inficiati dall’estrema muscolosità di oggi e da un’estetica che non tendeva a uniformare anche a discapito della singola conformazione fisica e del proprio benessere. Fermandomi a me stesso, ho le ossa troppo fini: non potrei mai sopportare un’enorme muscolatura e non mi farebbe bene.

‘Gli standard sono i miei e non quelli imposti’.

Peccato però che in un certo tipo di cinematografia italiana non si vedano più corpi interessanti con fisicità più simile a quella che l’essere umano ha. Del resto, viviamo in un’epoca in cui l’immagine ha prevalso su tutto e anche una semplice app permette di modificare i propri corpi per livellarli al condiviso. Si richiede a tutti qualcosa che non esiste.

Abbiamo aperto la nostra conversazione con il termine “cretino” in senso sciasciano. Ti sei mai sentito un cretino in tal senso?

Di continuo. Credo di essere abbastanza consapevole e bravo nel leggere velocemente i contesti in cui mi trovo ma non sono invece in grado di uniformarmi a qualsiasi situazione. Ultimamente, mi sento sempre un po’ fuori contesto: non vivo bene in questa società del non approfondimento, dell’estrema sintesi e della semplificazione.

Qualche tempo fa nel riguardare alcune vecchie tribune politiche in televisione non ho potuto non soffermarmi sul valore che avevano le sigarette che si fumavano. E non solo perché ho smesso di fumare da due anni e mezzo e ricomincerei in qualsiasi momento: quelle sigarette fumate coincidevano con il tempo dell’approfondimento. Oggi, invece, viviamo in un mondo in cui metaforicamente non si fuma più, non si approfondisce e non ci si agita più per sparare il più velocemente possibile la propria cazzata. Ed io mi sento continuamente fuori contesto tanto che spesso preferisco anche non dire la mia anziché uniformarmi a un contesto in cui non mi riconosco.

Ed è più facile per te riconoscerti in teatro.

Tra marzo e aprile sarò in tournée con il mio terzo testo, Bianco, di cui curo la regia e sono interprete con Valentina Carli. Insieme a lei e ad altri, abbiamo creato anche un sito internet (BestFriendTeatro.it) attraverso il quale raccontiamo la nostra enorme urgenza di contemporaneità, una parola in cui credo molto. Da sempre, sono convinto che l’attore debba raccontare il contemporaneo, anche attraverso testi classici da agire nel presente.

Giuseppe Tantillo e Valentina Carli.
Giuseppe Tantillo e Valentina Carli.
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