Nella serie tv di Rai 1 Per Elisa – Il caso Claps, Giusy Frallonardo presta il volto al magistrato Rosa Volpe, la donna che riapre il caso della scomparsa legato alla giovane ragazza e lo riscopre. Ma non è l’unico progetto in cui vedremo Giusy Frallonardo, attrice dal lungo curriculum tra televisione, cinema e teatro. La vedremo anche dal 15 novembre nella serie tv di Rai 2 Noi siamo leggenda e da fine novembre nell’attesissima Il maresciallo Fenoglio, la serie tv che Rai 1 ha tratto dai romanzi di Carofiglio con protagonisti Alessio Boni e Giulia Bevilacqua.
Donna da sempre consapevole del potere della recitazione, Giusy Frallonardo vanta anche un record personalissimo. Da dodici anni è la protagonista dello spettacolo Hell in the Cave che, basato sull’Inferno di Dante, va in scena nella suggestiva cornice delle Grotte di Castellana, in Puglia, terra di origine della stessa Giusy Frallonardo.
Intervista esclusiva a Giusy Frallonardo
“Che bello il mare della propria terra”, è una delle primissime considerazioni a cui Giusy Frallonardo si lascia andare quando scopre che chi la sta per intervistare è originario di una città che sul mare si affaccia. “Nelle scorse meravigliose giornate di sole, ho ricevuto fotografie di amici al mare che mi hanno fatto anche rosicare: vedere le acque cristalline e trasparenti della mia Puglia, le stesse in cui da bambina andavo con i miei genitori. C’è un posto specifico da cui non riesco a staccarmi da quando avevo sei anni, un posto un po’ selvaggio con una scogliera incantevole”.
Da martedì 24 ottobre ti vediamo nel cast della serie tv Per Elisa – Il caso Claps, in onda su Rai 1, dove reciti al fianco di un gruppo di giovani attori.
Gianmarco Saurino e Giacomo Giorgio sono strepitosi. Anche se purtroppo non ho avuto la fortuna di lavorare con Giulio Della Monica, che tutti mi hanno detto di essere straordinario nel ruolo di Daniele Restivo: efficacissimo e in grado di impressionare chi lo ha visto. Ho però lavorato con Saurino, un attore veramente empatico: quando recitavo con lui, sentivo la sua verità profonda.
Interpreti Rosa Volpe, il magistrato che ha risolto il caso della scomparsa di Elisa Claps, dopo che per 17 anni era rimasto in sospeso.
Non ho mai conosciuto il magistrato ma, dopo la conferenza stampa di presentazione della serie tv, la vera Irene Claps si è avvicinata a me chiedendomi come avessi fatto a sapere che Rosa Volpe avesse quella dose di empatia nei confronti della famiglia, verso cui a un certo punto si è dimostrata veramente solidale e umana. È rimasta colpita dalla mia interpretazione e non posso che esserne felice.
Dal mio punto di vista, il percorso di Rosa Volpe è stato molto complicato: in un primo momento, era persino restia a riaprire il caso Claps per timore di pestare i piedi a un collega. Ho avuto conferma da alcuni miei amici magistrati che spesso i casi si riaprono quando ci sono di mezzo asperità tra colleghi. Rosa si convince a riaprirlo solo di fronte alla determinazione e all’ardore di Gildo Claps: è ciò che la spinge a rileggere le carte e a notare come ciò che crede essere la verità sia in realtà confutabile.
Tra le prime apparizioni di Rosa e le seconde intercorrono nella storia ben dieci anni che, per ovvi motivi di produzione, durano nella realtà del set pochi giorni, in cui è stato anche problematico passare dal rigore freddo della sua professione all’empatia. Non è stata una passeggiata ma, come tutte le cose che non sono facili, è stata interessante.
In qualche modo, è stata la televisione a mantenere vivo nel corso di 17 anni l’interesse per il caso Claps e la giovane Elisa.
Chi l’ha visto? e Federica Sciarelli sono stati un elemento fondamentale: è lì che Gildo Klaps è stato più volte ospite. Klaps, che è una persona pazzesca in cui Saurino ha trovato una bella sponda (l’ha conosciuto e tra i due è nata un’amicizia), in conferenza stampa ha definito Federica un’amica: se non ci fosse state lei, il caso non avrebbe forse avuto lo sviluppo che ha avuto. Rischiava dopo un po’ di tempo di passare in sordina e concludersi, come finiscono tantissime altre storie, senza una risoluzione.
Non a caso mi ha colpito molto il racconto di una donna la cui figlia è scomparsa nel nulla che, quando i Claps hanno seppellito i resti di Elisa, si è avvicinata alla madre Filomena dicendole che in fondo era fortunata rispetto a lei perché aveva almeno una tomba sulla quale piangere. Da quelle parole ho capito quanto questo paese sia poco attento ai casi di persone scomparse che non si ritrovano più: non sapere che fine abbia fatto qualcuno, come evidenziano i loro cari, è ancora peggio che avere la certezza della loro morte.
Così come è per molti versi assurdo che per denunciare la scomparsa di una persona bisogna attendere almeno 24 ore o che anche chi denuncia una scomparsa finisca nella lente dei sospettati.
Quella della giustizia è una macchina complicata che, a detta degli amici magistrati a cui ho chiesto delucidazioni, non può essere forzata: procede per fatti certi e non per congetture. Per muoversi, ha bisogno di farlo oltre ogni ragionevole dubbio seguendo una serie di parametri che noi, da semplici cittadini, facciamo fatica a comprendere e capire. La peculiarità di Gildo Klaps è data proprio dall’aver studiato Legge e di aver lavorato sulle procedure, oggetto del suo stesso studio.
Da donna, hai sentito una certa responsabilità nel ricoprire il ruolo di un’altra donna che è stata determinate nel risolvere un caso di violenza contro le donne?
Non mi sono soffermata a pensare che Elissa fosse una donna. Pensavo più al suo essere una minorenne che, a detta di tutti, era un essere buono, mite e dolce. Mi ha mosso come una sorta di istinto materno: se scomparisse a me una figlia sedicenne, probabilmente impazzirei.
Nel caso di Restivo non credo che si possa parlare di violenza contro le donne tout court… Era un ragazzo ovviamente malato ma la responsabilità delle sue azioni, dal mio punto di vista, è da ricercare in un padre incapace di comprendere che il figlio aveva dei problemi molto seri: ciò mette in evidenza come in certi ambienti si nascondesse l’instabilità della salute mentale di un familiare. E farlo è qualcosa di gravissimo: era grave trent’anni fa o lo sarebbe anche oggi, in un momento storico in cui l’instabilità mentale è un problema in crescita tra le fasce dei più giovani.
Un problema alimentato anche dalla pandemia, che ha isolato moltissimo le persone e le ha portate a cercare rifugio nei supporti informatici elettronici e nei social, che danno l’illusione di essere sempre in contatto con qualcuno ma che in realtà ti relazionano solo con uno schermo e non con un corpo. Tant’è vero che i corpi non si riconoscono più come tali e non c’è un confine tra quello virtuale e quello fisico. Questo incremento coincide incredibilmente con il depauperamento dei centri che si occupano di salute mentale facendo sì che le famiglie si ritrovino da sole ad affrontare il problema.
Nella mia ottica, Daniele è malato e in quanto tale irresponsabile. I veri responsabili del suo operato sono da ricercare nelle persone che aveva intorno e che hanno creato un muro intorno a lui permettendogli di continuare a fare del male, dal padre al sacerdote.
Per Elisa – Il caso Claps non è la sola serie tv che ti vede lavorare al fianco di attori giovani: dal 15 novembre, ti vedremo nel cast di Noi siamo leggenda.
A me piace molto lavorare a contatto con i giovani: lo faccio anche in teatro grazie al mio ruolo di formatrice. I giovani hanno dalla loro una grandissima energia e una grandissima voglia che, abbinate allo studio e alla curiosità nei confronti di quest’arte impalpabile, li rende straordinari… soprattutto quando non si fermano all’immagine e capiscono la potenza del mettersi nei panni di qualcun altro.
Amo molto gli attori che cambiano e che diventano il personaggio che interpretano, una capacità che hanno i grandi interpreti: basti pensare a Meryl Streep, Tom Hanks o al nostro Elio Germano, sempre al servizio dei personaggi e mai di loro stessi. Tuttavia, voglio spezzare una lancia anche in favore di quegli attori che sembrano sempre gli stessi: la colpa è anche di un sistema che non dà loro la chance di provare a essere qualcosa di diverso da sé, affidando loro la stessa parte solo perché qualche volta ha funzionato.
Un ragionamento simile è stato fatto anche in una recente intervista da Giulia Bevilacqua, con cui hai condiviso il set di Il maresciallo Fenoglio.
Ecco, in quella serie tv interpreto un personaggio che mi insegue: quello della ricca borghese. Spesso mi ritrovo a vivere in scena in case in cui non potrei mai abitare con piscine gigantesche e a indossare abiti che non potrebbero mai essere i miei. Sarà che i registi, non tutti per fortuna, mi vedono sempre molto signora bon ton.
Mi piacciono maggiormente quei ruoli in cui posso variare: in Noi siamo leggenda, interpreto ad esempio un’operaia, così come in La dama velata interpretavo una contadina dell’Ottocento e in La luce della masseria, prossimamente sempre su Rai 1, sarò un’altra contadina ma degli anni Sessanta. Mi ero divertita molto con il lavoro fatto in Raccontami, dove ero una segretaria un po’ svampita che sognava di essere Marilyn Monroe: si vestiva e pettinava come lei ma era una borghesuccia della provincia abruzzese arrivata a Roma carica di buone speranze alla fine degli anni Cinquanta. Cambiare è l’essenza del nostro lavoro ed è anche divertente.
Eppure, da dodici anni, c’è qualcosa che non cambia nella tua vita, Hell in the Cave.
In quel caso, è diverso… è l’amore per Dante che mi spinge. Mi sono innamorata di Dante quando avevo dodici anni: la mia insegnante delle scuole medie (si chiamava Maria Cristina Celli) ci fece studiare il Canto V dell’Inferno. E da quel momento quel linguaggio ha cominciato a riverberare dentro di me e non mi ha mai più abbandonata. All’Università il corso monografico era su Dante e durante i primi mesi in cui ho frequentato a Firenze la Bottega di Vittorio Gassman si studiava solo la Divina Commedia.
Quando Enrico Romita ha cominciato nel 2000 a pensare a Hell in the Cave non ho avuto dubbi. La gestazione, però, è stata piuttosto lunga per via dei permessi da ottenere per usare un luogo naturale come le Grotte di Castellana, protette dalla Soprintendenza. Ma dal marzo del 2011, la prima volta che è andato in scena, lo spettacolo è cresciuto sempre stupendo i tanti visitatori (non li chiamo spettatori) che sono venuti a vederlo da ogni parte del mondo per vivere un’esperienza sensoriale unica.
È stato a dodici anni, incontrando Paolo e Francesca nel V Canto, che hai capito che volevi far l’attrice?
Come tutte le bambine di una certa età, volevo far l’attrice ma poi avevo messo da parte il sogno. A 16 anni, però, assistendo a uno spettacolo di Beckett con Michele Placido ho avuto la mia epifania: era quel tipo di teatro che volevo fare. Avevo le idee molto chiare: avevo visto molti spettacoli grazie all’abbonamento liceale ma è stato il teatro dell’assurdo ad affascinarmi, quel teatro che ha un qualcosa di incomprensibile ma in grado di squarciare l’anima.
Incuriosita, ho cominciato a studiare recitazione e, dopo un primo anno di un laboratorio che ne durava due, ho iniziato anche a lavorare con la compagnia dello stesso laboratorio. L’ho fatto per tre anni, prima di decidere di trasferirmi a Firenze per frequentare la Bottega di Gassmann.
E forse non ho mai smesso di studiare: sono un’attrice in formazione permanente, continuo a prender parte a corsi di teatro in cui mi ritrovo sempre circondata da colleghi molto più giovani di me… ma non mi importa: quello di attrice è un lavoro difficilissimo per cui c’è sempre qualcosa da imparare da chiunque, anche dai bambini. Può stupire ma mi capita spesso di prendere lezioni anche dai miei stessi ex allievi, diventati nel frattempo dei maestri.
Perché difficilissimo?
Paola Borboni diceva che per fare questo lavoro occorreva essere vedove e sterili. Non sono così tranchant come lei ma per farlo devi avere intorno a te persone comprensive. La cosa più difficile è mantenere una sorta di centro o di equilibrio: è un mestiere che ti squilibra e che ti tiene costantemente sotto esame… devi sempre dimostrare qualcosa e ciò ti crea inevitabilmente una serie di ansie e di fragilità. Per mantenere l’equilibrio, quando sei in alto non devi mai pensare di avercela fatta e quando sei in basso di stare sprofondando. Dobbiamo essere come dei funamboli in grado di stare con i piedi saldi su un filo sospeso.
Hai trovato il tuo equilibrio?
Da un paio di anni, sì. Ho trovato un porto sicuro nella scrittura. La reputo salvifica e mi diverto anche a lavorare sulle drammaturgie e sui racconti.
A proposito di racconti, sei anche lettrice di molti audiolibri.
È un’attività che nasce anche dal mio essere una lettrice compulsiva. Leggo tantissimo, in media una settantina di libri all’anno: non solo romanzi ma anche saggi o testi teatrali. In questo momento sto leggendo contemporaneamente un saggio, Sapiens. Da animali a dèi, e un romanzo solo apparentemente leggero, Se i gatti scomparissero dal mondo. Ed è dalla mia abitudine di leggere spesso ad alta voce che derivano gli audiolibri: mi sembra un privilegio farlo anche per lavoro, anche se non sempre i libri che devo leggere mi appassionano… non sono io a sceglierli!
Grazie agli audiolibri, ho poi scoperto un’autrice che mi piace molto: Laura Pariani. Propone un genere stranissimo, tra l’antropologia e la letteratura: sono una donna ancien regime per cui certi generi mi appassionano molto.
Ti senti una donna libera?
Me lo chiedo spesso. Sono tanti i condizionamenti che subiamo, dalle passioni alle necessità quotidiane, ma provo a essere una persona retta che segue i propri principi. Non so, però, se sono libera: a volte sento dei pesanti condizionamenti, volontari o involontari, e mi dispiace molto non sapere come liberarmene. Sono condizionamenti ovviamente sociali: viviamo in un mondo che ha determinate regole che non ci permettono di avere un pensiero avulso dal loro funzionamento. E quindi: dove sta la libertà? Che cos’è?
Qualcuno dice che la libertà consista nel far sentire la propria voce. Ma come si fa se viviamo in un mondo che tende a sopprimere ogni voce diversa? E quella che viene fuori è realmente la nostra voce o è una voce di comodo?
La prima volta che ho avvertito il peso del giudizio sulla mia persona è stata quando frequentavo le scuole elementari. Il giudizio della gente, questa entità così indefinita, sa essere pressante, soprattutto quando cresci in una realtà piccola. È anche il motivo per cui a diciotto anni, finito il liceo, ho salutato mia madre e sono andata a vivere da sola a Bari, dove lavoravo per la compagnia teatrale di cui prima e studiavo alla facoltà di Lettere (avevo cominciato con Archeologia ma dopo i primi due anni ho cambiato indirizzo, scegliendo quello teatrale).
Nel tuo lungo percorso, hai avuto modo di lavorare in prodotti tv dal grandissimo successo. Penso ad esempio a Incantesimo, la prima soap di un certo livello trasmessa in prima serata dalla Rai.
È stata la prima fiction a cui ho lavorato. Venivo dal teatro e dal cinema (ero stata scelta da Marco Bellocchio per Il sogno della farfalla) e quando sono stata scelta quasi mi vergognavo: non avevo mai visto una puntata e non conoscevo i personaggi di una storia arrivata già alla quarta stagione ma semplicemente perché non avevo nemmeno il televisore in casa. Quando è andata in onda la prima puntata in cui facevo la mia comparsa, non l’ho neanche vista: avevo la febbre e, con mio sommo dispiacere, ho dovuto attendere anni per rivedermi (all’epoca non c’era l’on demand e non era così facile recuperare un episodio perso).
È stato però emozionante fare parte di un prodotto così popolare e sentire l’affetto anche della gente per strada. Mi piaceva anche l’idea di prender parte a qualcosa che mia madre e le sue amiche seguivano: per me, è stato qualcosa di molto diverso da quello a cui ero abituata ma non percepivo la differenza del mezzo: davanti a me avevo sempre l’amica macchina da presa. È stata un’esperienza molto bella, anche se il personaggio che ho amato di più è stata l’Olimpia di Raccontami perché inserita nel contesto degli anni Cinquanta. I Cinquanta e i Sessanta sono per me gli anni più belli della storia d’Italia: nel mio immaginario, sono quelli dei film che guardavo da piccola…
A cosa stai lavorando in questo momento?
A tre spettacoli differenti. Tra questi, ce n’è uno che si chiama Ternitti, tratto dal romanzo di Mario Desiati finalista al Premio Strega nel 2011. Quando l’ho letto, mi sono innamorata del personaggio di Mimì Orlando ma soprattutto di una vicenda che per anni è stata nascosta e taciuta: quella degli operai che dal Sud Italia sono finiti nelle fabbriche di Niederurnen a lavorare l’amianto a mani nude e senza alcun tipo di protezione. La maggior parte di quegli operai è morta a causa del mesotelioma pleurico, lo stesso raro tumore che ha colpito i lavoratori di Casal Monferrato.