Glitch Project è il nome del duo musicale tutto al femminile composto da Maida Cerasino (voce) e Federica Pepe (polistrumentista) nato quasi per caso a Torino nel 2018. Le due ragazze, finito il liceo, avevano lasciato la natia Puglia per motivi diversi: Maida voleva perfezionare la sua passione per i tatuaggi mentre Federica doveva studiare all’Università. Non si conoscevano nemmeno, ognuna seguiva la sua strada fino a quando un concerto dei Florence and the Machine ha fatto un po’ da “cupido”. Da allora non si sono più separate e oggi condividono persino la stessa casa.
Il nome del loro duo, Glitch Project, coniuga due parole differenti: glitch, per ricordare gli “errori” prodotti dalle apparecchiature digitali con cui hanno realizzato le prime canzoni, e project, perché non è solo la musica che le Maida e Federica portano avanti, come ci spiegano nel corso di questa intervista esclusiva.
Shivers (Meat Beat/Artist First) è il loro nuovo singolo. Elettro-pop, com’è nello stile Glitch Project, ma anche una perfetta fusione tra musica elettronica e strumentistica. Note non solo nella scena musicale italiana ma anche in quella internazionale, le Glitch Project si interrogano nella canzone su cosa succede quando scatta dentro di sé l’energia del cambiamento, coniugando una certa spensieratezza con una nota di malinconia.
Incuriositi dal loro essere fuori dagli schemi del mercato discografico italiano, abbiamo incontrato le Glitch Project per farci raccontare chi sono e che idea hanno della musica.
Intervista esclusiva alle Glitch Project
Shivers, brividi per chi non mastica inglese, è il vostro ultimo singolo.
E giuriamo che l’abbiamo registrato ancor prima che Mahmood e Blanco vincessero Sanremo con Brividi e che Ed Sheeran uscisse con Shivers. Avevamo già tutto pronto e non potevamo certo tornare indietro. Però, abbiamo pensato “Caspita, ci hanno fregato il titolo”. Abbiamo anche provato a cambiare titolo ma non ci siamo riuscite: quando già in fase di produzione chiami qualcosa con un nome, è poi difficile staccarsene.
I titoli delle canzoni devo essere riconoscibili. Sono pochi coloro che danno titoli molto lunghi: nessuno alla fine se li ricorda. E poi apparteniamo alla categoria di quelli che preferiscono qualcosa di più concreto per far sì che rimanga impresso nelle persone.
Anche perché far ricordare un titolo lunghissimo in inglese non è facile.
La difficoltà legata alla lingua ha in realtà due differenti sfaccettature. Se pensiamo al solo mercato italiano, rappresenta di certo una difficoltà, soprattutto a livello di live: nei festival, non sanno mai dove collocarci esattamente, anche per via di un genere, il nostro, non facilmente etichettabile. Se, invece, pensiamo al mercato europeo, abbiamo ci spiana la strada. Quello dell’inglese è un problema, ci dispiace dirlo, tutto italiano: all’estero non ci hanno mai chiesto il perché della lingua. In Italia, c’è come una sorta di diffidenza ma qualcosa fortunatamente negli ultimi tempi sembra essere cambiata grazie al successo dei Maneskin.
Essere non etichettabili è però un vanto. Quando gli altri non sanno dove metterti, significa che stai andando per la strada giusta lasciando parlare la tua individualità. Shivers è un perfetto esempio di come si può far musica coniugando l’elettronica e la strumentistica. Come vi siete mosse?
Di base, cerchiamo sempre di ottenere un giusto equilibrio tra parte elettronica e parte strumentale. Shivers doveva suonare nel suo insieme molto ritmico. C’era il rischio che l’elettronica diventasse predominante. È vero che non c’è mai un perfetto mix al 50 e 50, magari la seconda strofa è più elettronica e il finale più strumentale con le chitarre acustiche in evidenza. Esistono due differenti versioni della canzone: una “tagliata” per la radio e una più lunga, dove la parte strumentale è più aperta. Noi consigliamo sempre di ascoltare la seconda uscita sugli store.
Il testo di Shivers parla di paure e accettazione delle stesse.
Noi ci sentiamo molto dicotomiche, nel senso che siamo due persone molto diverse. E ci piace che ciò venga fuori anche dalle nostre canzoni. Per questa ragione giochiamo molto sugli estremi. Quindi, nel caso di Shivers, da un lato c’è l’accettazione della paura mentre dall’altro lato c’è l’estrema paura. Puntiamo così a qualcosa di molto più realistico, psicologico e concreto, rispetto a pezzi un po’ più “motivazionali”. A noi non piace metterci al di sopra dell’ascoltare: ci piace metterci accanto.
È chiaro che quando abbiamo scritto la canzone siamo andate a scavare nelle nostre paure, dovevano venire fuori. E chi ascolta la canzone se ne rende conto. Per noi conta più il messaggio di chi ci scrive che lo abbiamo fatto emozionare che la sterile critica musicale. Quella ci interessa solo dal punto di vista tecnico. Partiamo sempre dal presupposto che, prima di fare musica, siamo persone che ascoltano musica: capiamo quando un pezzo ci emoziona a prescindere dal genere a cui appartiene. Con l’emozione si crea un legame tra chi ascolta e chi suona. Ed è quello che cerchiamo di rincorrere ma non è facile.
È complicato, soprattutto in un momento come questo in cui l’industria musicale punta su altro. Quali ostacoli avete trovato nel vostro percorso? Siete due donne e proponente un tipo di musica che, duole a dirlo, non è considerata tipicamente femminile.
È vero: l’elettronica viene considerata un genere molto maschile. Ma vi stupirà la risposta: non abbiamo incontrato particolari difficoltà. Il nostro produttore si è innamorato del progetto Glicth e lo ha sposato in pieno. Più che altro è difficile relazionarsi con gli altri musicisti: la donna cantante come figura è molto sdoganata, quella della musicista o della ragazza che usa i sintetizzatori un po’ meno. Quando andiamo in giro per i live, scambiano spesso Federica per la fidanzata di uno dei musicisti o per la ragazza immagine.
Il pubblico, invece, è incuriosito. Credo che trovi interessante il connubio tra l’essere donne e il suono che proponiamo, qualcosa che in Italia non si sente spesso. Contrariamente a quanto si crede, c’è una bellissima scena femminile in Italia, in cui le donne presidiano ogni genere. Forse, rispetto al passato, è molto più semplice per una donna accedere all’industria discografica. Anche troppo, se vogliamo, considerando che adesso tutte le etichette vogliono avere le loro “ragazze immagine”. Sembra quasi una moda: puntano tutto sull’immagine e non sulla musica.
Tuttavia, è anche giusto accettare che ci siano anche quel tipo di realtà. Il pubblico che ci segue non dà molto peso all’immagine anche perché noi puntiamo tutto sulla musica. Non riusciamo a essere personaggi, anzi cerchiamo di essere il più naturali possibile. Costruirsi un personaggio, potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio: devi saperlo portare avanti, non è facile staccarsene. Per noi sarebbe quasi contronatura: ci hanno anche chiesto spesso di fare i personaggi ma non ci piace.
Siete entrambi pugliesi ma vivete a Torino.
Come tutti i pugliesi, siamo arrivate a Torino quando abbiamo finito il liceo. Ma separatamente: non ci conoscevamo, siamo originarie di due zone diverse della Puglia. Ci siamo incontrare nel 2016 a un concerto di Florence and the Machine, di cui siamo delle fan sfegatate. Con già alle spalle esperienze da musicista, Federica ha sentito la voce di Maida e si è emozionata. È nata così la sua proposta di cantare insieme e abbiamo iniziato a lavorare in una stanzetta, senza neanche avere strumenti all’altezza per farlo.
Ci siamo autoprodotte nel 2019 il nostro primo EP con a disposizione solo una scheda audio montata su un computer nemmeno tanto potentissimo: si bloccava spesso e da lì l’idea di chiamarci Glitch. Ma poi abbiamo dovuto aggiungere anche Project per una questione di copyright. Lo stesso anno era uscita una serie Netflix dal titolo Glitch e non avevamo il permesso nemmeno di aprire una nostra pagina social.
Per forza di cose, abbiamo aggiunto Project: siamo fan della musica degli anni Ottanta e Novanta e il pensiero è corso subito a quei nomi tipo Alan Parsons Project. Ma non è stata solo quella la ragione: ci piaceva anche l’idea di progetto, di collettivo. Le Glicth Project non siamo solo noi due: sono anche le tantissime persone con cui ci piace collaborare a livello artistico: fotografi, videomaker, grafici, designer… Amiamo vedere come altri artisti appartenenti a sfere diverse vedano la nostra musica, ci aiuta a toglierci dalla nostra sola prospettiva. Lo scambio è pazzesco a livello di stimoli.
Istinto e razionalità: quanto contano nel vostro percorso?
Domanda molto difficile. Crediamo che esista una linea molto netta tra le due cose. Siamo due persone diverse: Federica è molto più razionale mentre Maida è più istintiva. È successo che talvolta ci siamo scambiate i ruoli ma non siamo mai state istintive o razionali contemporaneamente.
Siamo istintive quando siamo in studio. Federica va molto di pancia per quanto riguarda i suoni: se per lei un suono funziona non deve esserci necessariamente una spiegazione logica. Maida fa la stessa cosa con la scrittura o le melodie.
Siamo invece razionali quando si tratta di definire il progetto, di logiche di mercato o di altri aspetti più “tecnici”. Fortunatamente, c’è anche il nostro produttore a far talvolta da ago della bilancia, a consigliarci. Ci rivolgiamo spesso a lui: ci sono alcuni aspetti su cui non ci sentiamo all’altezza di prendere delle decisioni da sole, così come ci sono cose che non possiamo sapere. Lui vede il progetto dall’esterno, noi ci siamo invece molto dentro.
Cerchiamo sempre di essere abbastanza equilibrate anche per evitare errori. Viviamo in una società che è molto attenta a tutto e questo può essere anche un contro più che un pro: si ha come l’iper-urgenza di comunicare qualsiasi cosa. Noi preferiamo rimanere noi stesse e non farci influenzare da altri fattori: quando lo abbiamo fatto, non sempre è andata per il verso giusto. A volte devi anche rischiare per capire chi ti ascolta, come abbiamo fatto con il nostro secondo singolo Wane. Eravamo scettiche ma con grande stupore è stato accolto benissimo: quando un pezzo viene pubblicato, non hai più diritto di parola.
Tutt’altro discorso meritano invece i live. È molto più complesso organizzarli e deve esserci molta razionalità nel farlo perché occorre valutare mille fattori. Anche se, diciamoci la verità, quando sei su un palco, non c’è razionalità che tenga.
Volontà e destino: quanto vi siete sentite favorite dal destino e quanto invece avete creduto nelle vostre forze?
Favorite? Zero. Se fossimo state favorite, avremmo già fatto tutto quello che volevamo e vogliamo fare. Ma forse non ci sarebbe nemmeno piaciuto: è l’energia che ti fa andare avanti. È sempre la volontà a rimanere il motore principale. La musica è qualcosa che ci ha in qualche modo cercato. Maida è forse quella delle due con maggiore predisposizione artistica: è una tatuatrice. Federica, invece, è una psicologa. Ci eravamo trasferite a Torino una per tatuare e una per studiare fino a quando la musica non ci ha fatto incontrare.
E come hanno reagito i vostri genitori quando avete detto loro che volevate far le musiciste?
I genitori di Maida sono sempre stati molto propositivi. Federica per far capire cosa significasse ha portato sua madre a un nostro live: a volte, non sono necessarie tante parole ma solo gesti semplici. I nostri genitori appartengono a una generazione diversa dalla nostra e hanno una visione differente su tante cose ma oggi sono i nostri primi supporter. Credono nel progetto ma non capiscono molto i testi in inglese. Spesso siamo noi a mandar loro le traduzioni prima che ricorrano a Google Translate e alle sue traduzioni divertenti.
Avete paura del fallimento?
Noi siamo grandi fan del fallimento. Viviamo purtroppo in una società che ci chiede essere mega performanti, senza mai una caduta. Noi scriviamo invece di quelle cadute: sarebbe incoerente da parte nostra temere il fallimento. Siamo troppo abituati ai racconti, sui social e sui mass media, di gente che ce la fa sempre ma è bello fallire: non c’è niente di male.
Accogliamo il fallimento anche nostra vita privata: è sempre il punto da cui ripartire e andare avanti. Anche perché abbiamo fatto un percorso musicale che è stato pieno di fallimenti: abbiamo cambiato tanti produttori o fatto delle scelte anziché altre. Si impara solamente.
Noi cantiamo di cadute, di rialzamenti, dello star male. Non ci vediamo nulla di strano. Cantiamo di ciò in cui crediamo e non ci facciamo condizionare da chi ci vorrebbe portare avanti determinati concetti solo perché di moda. Ci hanno chiesto spesso di giocarci la carta dell’inclusività, ad esempio. Ma non l’abbiamo mai fatto: siamo convinte che non ci sia bisogno di toccare determinati argomenti solo perché “dobbiamo”. Preferiamo trasmetterli con altro. Anche questa è una questione tutta italiana: all’estero non ci hanno mai chiesto se stiamo insieme, in Italia sì.
Come vi vedete tra un paio di anni?
Non lo sappiamo. Ci siamo rese conto che dal primo EP a oggi le nostre sonorità sono cambiate. Sentivamo la necessità di farlo. Eravamo cambiate noi e sicuramente cambieremo ancora. Chissà… magari tra due anni faremo metal, non ci piacciono gli incasellamenti in un genere musicale.
Avete mai avuto paura dell’auto sabotaggio, visto che è anche uno dei temi di Shivers?
Quello che ti salva dall’auto sabotaggio è la rete di persone che hai accanto. Se hai una rete sana, non corri il rischio di fallire. L’auto sabotaggio non è altro che figlio della mancanza di coraggio nel fare qualcosa. Ti salvi avendo vicine anche tre o quattro persone tutte con punti di vista differenti e sperando che ti capiscano.
E voi vi siete sempre capite? Siete sempre state schiette l’una con l’altra?
Tre anni fa, ancor prima della pandemia, abbiamo scelto di andare a vivere insieme. Prima di essere un gruppo musicale, ci consideriamo una famiglia. Nessuna delle due ha bisogno, ad esempio, di chiedere all’altra quale sia il messaggio o il significato di un brano: siamo molto legate empaticamente. Abbiamo sempre dato grande risalto al nostro rapporto e ciò si riflette anche nella nostra musica: non ci sarebbe altrimenti il progetto che portiamo avanti. Non riusciremmo mai a lavorare o ad aprirci così tanto con persone che non conosciamo.