A Listen to Me, nuovo format voluto da Rai Contenuti Digitali e Transmediali disponibile dal 24 novembre su RaiPlay, Gloria Peritore racconta la sua storia personale davanti a un gruppo di giovani ragazzi e ragazze. Ripercorre con un monologo di cinque minuti la sua storia e la sua vicenda personale, ricordando come da vittima di violenza psicologica da parte di un fidanzato che ha annientato la sua identità è diventata una campionessa mondiale di kickboxing e un’attivista.
Sette puntate, quelle di Listen to Me, ricche di pezzi di vita e realtà fuori dal comune capaci di scuotere gli animi ma anche di divertire. E tanti gli argomenti toccati da persone qualsiasi, influencer o personaggi del mondo dello spettacolo che dal palco si rivolgono ad un pubblico giovane e curioso e con loro spaziano dall’omofobia alla disabilità, dall’identità di genere al cyberbullismo, dall’ansia all’amore e molti altri temi attualissimi e di grande interesse.
Noi non vogliamo ricordare la storia di Gloria Peritore e non vogliamo fare pornografia del dolore, motivo per cui non ci addentriamo nei dettagli di ciò che le è successo anni fa. Chiaramente, la sua esperienza tornerà fuori durante la nostra intervista in esclusiva ma solo per sottolineare come ciò che è accaduto a lei potrebbe accadere a tutte e tutti noi.
Tra ori, titoli e allenamenti in palestra, Gloria Peritore ha fondato un’associazione antiviolenza The Shadow Project. Ha sostenuto la nascita dei Punti Viola a cui rivolgersi per chiedere aiuto e punta più sulla concretezza delle azioni che sull’evanescenza delle parole. Proprio per sabato 25 novembre ha organizzato un evento unico che si terrà alle ore 18 presso il San Gabriel Gymnasium a Roma: Fight the Violence, un’iniziativa nata per promuovere attraverso gli sport da combattimento la giornata contro la violenza sulle donne.
Testimonial dell’evento è il campione olimpico di karate Luigi Busà e la serata sarà momento di confronto e dialogo fra le associazioni antiviolenza, fra cui Alteya e Donnexstrada, con varie icone sportive del mondo fighting. Successivamente ci sarà il Fightwork, un allenamento misto tra uomini e donne senza contatto al fine di diffondere i valori degli sport da combattimento per stigmatizzare la violenza.
Obiettivo di Fight The Violence, come sottolineato da Gloria Peritore è “dimostrare che gli sport da combattimento possono essere un buon deterrente contro la violenza. L’orribile piaga del femminicidio si può contrastare insieme, uomini e donne uniti nel rispetto degli uni verso le altre e viceversa: in famiglia, nelle scuole, sul lavoro e nello sport”. Ma su una cosa Gloria Peritore è ferma: “Non insegniamo tecniche di autodifesa, come erroneamente hanno scritto in molti, né promuovo una mia palestra (a Roma non ne ho): lo scopo dell’evento è un altro”.
Intervista esclusiva a Gloria Peritore
“Il 25 novembre è una giornata fondamentale per tutti, non solo per le donne ma anche per gli uomini. Fight the Violence, l’evento che ho organizzato a Roma, nasce con l’intento di non escludere gli uomini dalla lotta quotidiana contro la violenza sulle donne, ragione per cui ho voluto che ci fosse un testimonial uomo, Luigi Busà”, è una delle prime cose che sottolinea Gloria Peritore quando la raggiungo telefonicamente mentre si trova in palestra ad allenarsi.
“Ci sarà un allenamento condiviso, a cui potranno prendere parte tutti dai 16 anni di età in su. Dobbiamo cambiare insieme la cultura perché quando si verifica la violenza è davvero troppo tardi. La violenza non è soltanto quella fisica ma anche quella psicologica, che può nascondersi anche dietro frasi all’apparenza banali: ci rimango, ad esempio, molto male quando mi dicono che “combatto come un uomo” dopo dieci anni di intenso allenamento o che “ho le palle”. Francamente, sono donna e vado fiera della mia genetica”.
“Si tratta di pensieri che si istillano in tutti quanti sin dalla nascita. Fino a qualche anno fa, nemmeno io ci riflettevo o facevo caso, lo dico molto sinceramente. Ed ecco perché dobbiamo cominciare dalla cultura e dal non vedere l’uomo come il nemico. Non odio gli uomini, anzi: mi alleno tutti i giorni con gli uomini, sono fidanzata con un uomo, vado d’accordo con mio padre e anche con i miei ex fidanzati, a parte il primo. Dobbiamo semmai cambiare quella cultura che vuole le donne sempre subordinate all’uomo”.
In Listen to Me, il nuovo format di Rai Contenuti Digitali e Transmediali disponibile su RaiPlay, racconti a mo’ di stand-up comedian la tua storia a un pubblico di giovani ragazzi. Cosa hai provato in quel momento?
Ricordo i sorrisi dei ragazzi e della ragazze in prima fila. Era la prima volta che mi cimentavo in un monologo, senza alcun intervento esterno, ma c’è stata complicità sin dal primo momento: è come se ci fossimo intesi solamente con lo sguardo: si percepiva dai loro occhi come stessere recependo il messaggio. Credo che molti di loro si siano identificati in me, anche perché ho volutamente sottolineato dinamiche di vita che sono abbastanza frequenti tra i giovani. Ho parlato delle difficoltà della crescita, dell’ansia, del panico e della solitudine che comporta l’essere vittima di violenza contro le donne.
In quei cinque minuti di Listen to Me sottolinei anche l’importanza del parlare con qualcuno di quello che stai vivendo: tu l’hai fatto, ad esempio, con tuo padre.
Sì, anche se ad accorgersi per prima della situazione che vivevo è stata mia sorella: è stato grazie a lei che ho trovato il coraggio di parlare con i miei. Spesso preferisco non entrare nei dettagli della mia storia per non connotarla troppo e far pensare che è successo solo a me: purtroppo, la mia è una storia che può accadere a tutti, è accaduta e accadrà se non interveniamo. Non mi piace che passi l’idea di essere stata un’eccezione. L’unica differenza, se vogliamo, sta nel fatto che, grazie alla notorietà dello sport che pratico, ho potuto canalizzare tutto il dolore vissuto facendone un messaggio, ben racchiuso in #FightTheViolence, un hashtag che ho creato io.
Cosa ti auguri di trovarti nel pomeriggio a Roma durante l’evento?
Una platea propositiva. Vorrei che la gente uscisse dall’evento cominciando ad agire concretamente da quel momento stesso. Spesso mi capita di girare per strada con un occhio nero per via dello sport che pratico: mai nessuno mi ha chiesto cosa mi fosse accaduto, come stessi o se poteva far qualcosa per me. Non tutti sanno che sono un pugile: capisco la delicatezza o la paura della reazione dell’altro ma è inammissibile tanto menefreghismo, il voltarsi dall’altra parte per non vedere. Impariamo a chiedere sempre, diamo un numero a cui eventualmente rivolgersi o l’indirizzo di uno sportello d’orientamento a cui chiedere aiuto.
Non dobbiamo trasformarci in paladini della giustizia, siamo umani e comprendo la paura di fronte a determinate situazioni, ma facciamo almeno squadra, uomini e donne. Ho voluto ad esempio creare i Punti Viola per le strade, esercizi commerciali in cui una donna, con qualsiasi tipo di problema, può entrare e chiedere aiuto. Ringrazio anche la TIM per aver creduto nel progetto e aver aperto dei Punti Viola in oltre 200 punti vendita dislocati in tutta Italia: sono un primo passo per combattere l’indifferenza e unire le forze. Le oltre cento donne che sono finora state vittime di femminicidio sono anche il frutto della nostra poca attenzione.
Spesso anche della disattenzione di chi ci circonda: amici, familiari, conoscenti, vicini di casa.
Sono stata fortunata dall’avere una sorella che si è accorta della bolla in cui vivevo in quel periodo che sono stata vittima di violenza psicologica. Avevo casualmente o forse inconsciamente lasciato aperto il computer e il servizio di messaggistica che usavo. Da lì si evinceva tutto quello che stavo attraversando. E mia sorella non se l’è tenuto per sé, non è rimasta inerme.
E qui si apre un’altra parentesi sull’aiuto concreto da dare alle donne vittime di violenza: abbiamo creato con The Shadow Project degli sportelli che prestano non solo aiuto a chi si rivolge a noi ma anche supporto alle famiglie, agli amici e ai conoscenti per far sì che chi è vittima di violenza, manipolata dalla paura e dal pensiero di non avere altra strada, apra gli occhi e sappia che non è sola nemmeno a livello logistico.
Ricordo che anch’io ero una di loro: per me, quasi non esisteva l’ipotesi di lasciarlo. In quelle situazioni, ci si costringe quasi a provare amore perché è ciò che fa meno male per tutti, per te ma anche per la tua famiglia.
Hai ricominciato a praticare sport dopo aver trovato l’aiuto di tuo padre, qualche anno dopo che ti eri trasferita a Firenze per studiare al PoliModa. Cosa ti ha dato lo sport? È stato un mezzo per sfogare la repressione della rabbia?
Non mi sentivo arrabbiata quando sono entrata in palestra. Non mi serviva per sfogare la rabbia, nonostante ci fosse anche quella. Volevo attraverso lo sport riacquisire un’identità. Mi sentivo fragile e svuotata, avevo comunque 21 anni e dovevo ancora capire come girava il mondo. Grazie alla kickboxing, mi sono sentita forte psicologicamente sin da subito, sebbene fossi fisicamente distrutta: ho avuto la sensazione di imparare velocemente ad affrontare qualcosa che mi faceva paura. È stata questa sensazione che mi ha portato ad andare avanti nella disciplina e ad avere i primi risultati dopo pochi mesi: lo sport mi ha restituito una nuova vita quando io ancora non la vedevo aiutandomi a liberarmi dagli strascichi troppo pesanti che mi portavo dietro.
Al primo torneo a cui hai preso parte ti sei classificata seconda, uscendo sconfitta da una cintura nera. Ti sei sentita una perdente in quel momento?
No, non sapevo ancora cosa significasse veramente vincere o perdere. Avevo affrontato il tutto con molta leggerezza, non c’era insito in me il pensiero di vincere. C’era sì la paura ma ho scoperto anche quanto coraggio avessi dentro. La prima volta che mi sono sentita perdente è quando passando al contatto pieno la paura ha preso il sopravvento, tanto da avere abbandonato il match al secondo round.
Ho perso per abbandono ma non era per la sconfitta a tavolino che ho pianto dopo: quella volta, mi sono sentita nuovamente debole, è ritornato fuori il pensiero del “non ce la fai”. Era il contatto diretto a frenarmi ma, fortunatamente, l’incontro successivo a San Marino, con un’avversaria anche più mastodontica di me, sono riuscita a superarla, implorando persino il mio coach di non fermare l’incontro nemmeno se fossi stata io a implorarlo. Mi è bastato salire sul ring e guardare l’avversaria per capire che ero cambiata e che ce l’avevo fatta. Mi son detta: “Da ora in poi combatto finché non mi sdraiano” (ride, ndr).
Se ti ritrovassi di fronte a un bambino o una bambina in grado già di capire, qual è la prima cosa che vorresti che ritenessero essenziale per il rispetto delle donne?
Il valore delle altre persone. Cresciamo tutti quanti con un lato molto introspettivo che talvolta perdiamo. Non vorrei generalizzare ma i bambini sono molto introspettivi: vorrei insegnare loro a rispettare i propri simili. Lo so che risulta banale ma anche la banalità aiuta ad affrontare meglio la questione, non servono necessariamente grandi proclami retorici.
Sei originaria della Sicilia, una terra spesso descritta come culla del patriarcato per tutta una serie di dinamiche che, ahimè, la interessano. Cosa pensano oggi i tuoi compaesani di te sapendo ciò che fai?
Ho molto supporto dalle donne. Diverse di loro si sono anche rivolte agli sportelli dopo aver aperto l’associazione antiviolenza. In generale, i miei compaesani mi vedono come una sportiva, seguono la mia carriera e condividono la mia lotta alla violenza. Anche perché, diciamocelo in tutta franchezza, in Sicilia non ci sono tantissimi movimenti e c’è molta disinformazione a riguardo: mi piacerebbe un giorno tornare in quei luoghi per portare progetti un po’ più concreti.
La violenza sulle donne in Sicilia non è spesso alla luce del sole: è nascosta nelle mura domestiche, è psicologica ed è culturale. A Licata, di dove sono originaria, potrei camminare da sola per strada alle quattro del mattino e i soli incontri potrebbero essere con qualche ubriaco o qualche cane randagio: potresti persino trovare chi ti accompagna a casa. Ma probabilmente la donna, dopo essere stata accompagnata, troverebbe il pericolo ad accoglierla alla porta.
Vige ancora troppo la cultura del macho man con a fianco la donna al suo servizio: “Ma dove devi andare?” è quello che spesso una donna si sente dire venendo sminuita. Io stessa quando ho cominciato a praticare sport ero vista come quella “strana”, è insito nella cultura, o come quella che aveva un’identità di genere discutibile.