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Glory Hole: La vita di un latitante dentro a un bunker – Intervista esclusiva al regista Romano Montesarchio

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Arriva nei cinema italiani il film Glory Hole, con Francesco Di Leva nei panni di un latitante della camorra costretto a vivere in un bunker. Ce ne parla il regista Romano Montesarchio.
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Il film Glory Hole arriva nei cinema italiani dal 18 luglio, distribuito da Altre Storie. Prodotto da Bronx Film, Minerva Pictures, Partenope Pictures Entertainment ed Eskimo con Rai Cinema, è l'ultima opera del regista Romano Montesarchio ma al contempo anche il suo primo lungometraggio di finzione. Montesarchio, noto per il suo impegno nel raccontare storie legate alla criminalità organizzata, ci regala una pellicola che esplora il lato più intimo e tormentato di un colletto bianco della camorra interpretato da Francesco Di Leva, un viaggio psicologico e visionario nelle profondità della mente umana e nei meandri oscuri della latitanza.

Il film Glory Hole si distacca dalle classiche narrazioni criminali per immergersi in un microcosmo sotterraneo, un bunker, dove il protagonista Silvestro è costretto a rifugiarsi. Qui, tra visioni allucinatorie e ricordi struggenti, Silvestro affronta un percorso di redenzione e autocoscienza, un tema centrale che si snoda attraverso l'intero racconto.

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Montesarchio ha sempre avuto una particolare attenzione per le tematiche sociali, portando alla luce aspetti poco noti della criminalità organizzata. Con il film Glory Hole, il regista continua questa tradizione, offrendo una prospettiva unica sulla vita di un latitante, esplorando non solo le dinamiche criminali, ma anche i sogni, le paure e le visioni di chi vive nascosto. Questo approccio distintivo rende il Glory Hole un'opera intensa e coinvolgente, capace di trascinare lo spettatore in un mondo sotterraneo dove la realtà e l'immaginazione si mescolano.

Nella nostra intervista esclusiva, Montesarchio ci racconta da dove nasce l'idea di un film come Glory Hole. Il regista rivela che l'ispirazione iniziale è venuta dalla sua curiosità per i bunker utilizzati dai criminali in latitanza. Questi luoghi, spesso nascosti e dotati di complessi sistemi di sicurezza, hanno sempre esercitato un fascino particolare su Montesarchio, che ha deciso di esplorarne le dinamiche attraverso la finzione cinematografica. "Avevo quasi l’intenzione di farne un documentario," confessa il regista, "ma è facile rendersi conto di come sarebbe stato impossibile convincere un latitante a farsi riprendere".

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Così, Glory Hole si è sviluppato come un film di finzione, frutto di una lunga ricerca e raccolta di materiali. Montesarchio, appassionato di noir e thriller, ha scelto di concentrarsi sulle dinamiche interiori del protagonista piuttosto che su quelle criminali, creando una storia che esplora l'impossibilità di amare e di rapportarsi alla bellezza. "Mi interessava raccontare una storia d’amore", spiega, "l’impossibilità di amare e quella di rapportarsi alla bellezza, questioni che hanno a che fare con i sensi di colpa e i peccati commessi".

Un aspetto centrale del film Glory Hole è il rapporto tra Silvestro e Alba, la figlia del boss per cui lavora con il volto di Mariacarla Casillo. Questa relazione impossibile spinge Silvestro a compiere un atto irreparabile, portandolo a rifugiarsi nel bunker. Qui, il protagonista deve fare i conti con il suo passato e con i suoi sensi di colpa, in un viaggio interiore che lo porta a confrontarsi con se stesso. "Vivere in latitanza comporta una messa in discussione anche della propria identità e della propria salute mentale", dice Montesarchio. "Un uomo solo all’interno di quattro mura sotto terra deve necessariamente interiorizzare il mondo che sta fuori travisandolo".

Con Glory Hole, Romano Montesarchio conferma il suo talento nel raccontare storie complesse e profonde, capaci di toccare corde universali pur restando ancorate a realtà specifiche. Questa intervista esclusiva offre uno sguardo prezioso sul processo creativo e sulle riflessioni che hanno guidato la realizzazione di un film destinato a lasciare il segno.

Intervista esclusiva al regista Romano Montesarchio

Da dove nasce l’idea di un film come Glory Hole?

Nasce dalla volontà inizialmente di indagare su uno dei luoghi peculiari dei criminali legati alle mafie: il bunker. Normalmente, la cinematografia di genere si concentra su altri aspetti come le lotte tra clan, le faide, i regolamenti di conti, i contrasti di padri contro figli, le sopraffazioni e i traffici illeciti, ma molto raramente indaga sul modus vivendi di un criminale, di un boss o di qualcuno legato alle cosche.

Da regista di documentari, diverse volte mi sono occupato di tematiche legate alla criminalità organizzata, in particolar modo alla camorra. Ho dunque attenzionato per lungo tempo determinate dinamiche e una delle domande che mi sono sempre posto riguardava proprio i bunker, quei luoghi in cui i malavitosi passano buona parte della loro vita in latitanza. Spesso, i bunker sono molto affascinanti perché sono case sotto terra il più delle volte dotate di sistemi ingegneristici di accesso molto complessi, celati o nascosti-

Avevo quasi l’intenzione di farne un documentario ma è facile rendersi conto di come sarebbe stato impossibile convincere un latitante a farsi riprendere. Di conseguenza, ho cominciato a pensare a un racconto di finzione che mi ha richiesto anche un’enorme ricerca e raccolta di materiale. Da spettatore, ho frequentato tutti i generi cinematografici ma i miei preferiti erano quelli legati al noir e al thriller, ragione per cui è stata questa la direzione in cui sono voluto andare, quasi senza soffermarmi sulle dinamiche criminali ma preferendo concentrarmi su quelle interiori e visionarie del protagonista.

Mi interessava raccontare una storia d’amore, l’impossibilità di amare e quella di rapportarsi alla bellezza, questioni che hanno a che fare con i sensi di colpa e i peccati commessi. Motivo per cui con gli sceneggiatori ci siamo messi al lavoro per dipanare delle tracce narrative che avessero a che fare con la teologia, concentrandosi sulla tentazione, sull’ambiguità dell’essere umano e sulla sua fragilità. Il protagonista, pur sempre un criminale, è dopotutto una persona inadeguata a vivere in un contesto come quello dei bunker: non è un boss di spicco ma un colletto bianco.

Vivere in latitanza comporta una messa in discussione anche della propria identità e della propria salute mentale, come accade a Silvestro, il protagonista di Glory Hole.

Sono partito dal presupposto che un colletto bianco legato alla criminalità sia comunque una persona che abbia delle lacune dal punto di vista interiore: partecipando a un mondo così perverso, avrà una salute mentale minata nel momento in cui la mette in crisi, dapprima con una storia sentimentale che ha a che fare con la bellezza, la purezza e il pericolo di perdere buona parte del potere, e poi con la reclusione in un bunker, che fa da enorme amplificatore a ciò che è accaduto.

Tra le varie documentazioni a cui ho fatto riferimento per il film, mi ha particolarmente colpito la dichiarazione di un pentito che sosteneva come durante la latitanza in un bunker non si può far altro che dividere la propria esistenza in ricordi e sogni. Nella sua banalità, la frase mi ha fatto riflettere: un uomo solo all’interno di quattro mura sotto terra deve necessariamente interiorizzare il mondo che sta fuori travisandolo. Ed è qualcosa che inevitabilmente sconvolge la mente, creando immagini distorte, paure e visioni, che ho cercato di rendere cinematograficamente ricorrendo all’utilizzo del buco nel muro, allegoria del buco interiore.

Il poster del film Glory Hole.
Il poster del film Glory Hole.

In una scena del film, non sveliamo quale, Eros e Thanatos convivono e diventano un tutt’uno. Perché farli combaciare?

Mi è sembrata la cosa più necessaria da fare per far comprendere l’evoluzione del protagonista Silvestro. Nel momento in cui si accorge di poter essere realmente amato, non essendo abituato a essere abbracciato dalla bellezza, ne ha paura ma, soprattutto, ha timore di non poterla coltivare, dal momento che è figlia del mondo criminale al quale appartiene. Nell’apice del sentimento, decide di porvi fine: la fine di quella vita coincide inevitabilmente con la fine della sua. È dopo quel gesto che sarà costretto a scappare, fare i conti con se stesso e capire che non ha altre alternative se non l’autocondanna.

Lui si chiama Silvestro, come il santo dell’ultimo giorno dell’anno. Lei, invece, Alba, come la prima parte del giorno.

Grazie per averlo notato, fa parte di uno die giochi subliminali a cui abbiamo aspirato e con cui ci siamo divertiti durante la scrittura per raccontare la nascita e la morte di un individuo. Non uso l’espressione a caso: è come se vedessimo nascere Silvestro in una delle prime scene, non dal grembo materno ma da una colonna, nudo e con il tubo di un respiratore attaccato che ricorda un cordone ombelicale. Da quel momento attraversa tutta la sua parabola tra buchi, amore, impossibilità, cunicoli e situazioni grazie alle quali prende atto di se stesso. Ma quando una vita prende atto di sé inevitabilmente ha acquisito anzianità e maturità, rendendosi pronta a consegnarsi alla morte.

I due nomi scelti sono comunque tipici della zona in cui il film è ambientato: Alba di Casal di Principe, che un tempo si chiamava appunto Albanova, e Silvestro della provincia di Caserta.

A proposito di nomi. Il titolo del film, Glory Hole, fa pensare a qualcosa a sfondo sessuale. E un chiaro riferimento a quel glory hole c’è in una delle scene oniriche…

C’è quel buco nel muro del bunker che richiama tantissimo la pratica sessuale del glory hole, in cui si cela l’identità dei due partecipanti all’atto ma in cui comunque si instaura un rapporto carnale. Ma mi piaceva giocare con le due parole. Nel film ci sono tanti e vari buchi che Silvestro attraversa ma è centrale anche il tema della gloria, in senso anche teologico. Il suo miglior amico e fiancheggiatore è un prete e nel corso della storia c’è sempre qualche elemento che richiama la gloria divina, sempre deforme e sempre latente.

E il buco è anche il punto di vista con cui ho scelto di osservare il protagonista, cercando di non condannarlo io come autore ma lasciando che fosse lui a prendere coscienza dei suoi errori, frutto della fragilità umana.

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Perché hai scelto Francesco Di Leva come protagonista?

Dopo aver scritto la storia, l’ho proposta al produttore Gaetano Di Vaio, recentemente scomparso. E uno dei primi nomi che ha messo tutti d’accordo è stato quello di Francesco. Intanto, perché aveva la fisicità giusta per il personaggio. E, poi, perché conosce bene la difficile periferia napoletana, in cui anche lui è cresciuto: non avremmo dovuto spiegargli gli atteggiamenti o il modo di pensare di determinati uomini della criminalità, aveva già di suo tutta una serie di cognizioni e strumenti per capire le dinamiche psicologiche di Silvestro.

Avendolo apprezzato particolarmente in Il sindaco del Rione Sanità di Mario Martone, mi sembrava anche che avesse il physique du role per un personaggio che sta in campo dalla prima all’ultima scena. Gli si richiedeva un’immersione totale e Francesco ha lavorato anche tantissimo nei processi di scrittura del suo personaggio, cercando di assimilarlo il più possibile. La scelta è stata proficua: è una macchina da guerra, come si suol dire, sempre presente sul set, il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via.

Glory Hole vive di una sua estetica particolare, oltre che di contenuto.

La messa in scena è molto calibrata, per cui non posso non elogiare il lavoro del direttore della fotografia Matteo Vieille Rivara e dello scenografo Massimiliano Forlenza. Ma anche quello del montatore Davide Franco, che ha unito il mondo onirico con quello reale in maniera magistrale, tenendolo fondamentalmente in equilibrio.

Il film è stato presentato in anteprima allo Shanghai Film Festival. Qual è stata la reazione di un pubblico così distante da certe realtà?

Premesso che comunque si tratta di un pubblico che un po’ conosce il fenomeno Gomorra e che ha una sua cinematografia sulle criminalità locali molto sviluppata, mi ha meravigliato come abbia apprezzato non tanto la questione criminale quanto la storia d’amore impossibile: se vogliamo, Glory Hole è un melodramma reale con sfumature da thriller psicologico. Ma molte sono state anche le domande sull’eventualità che il film fosse stato censurato dalle loro autorità per via delle tematiche sessuali o religiose affrontate: tutti sono rimasti colpiti da come anche in Europa si andasse nella stessa direzione di molto cinema asiatico, giapponese e coreano in primis ma anche cinese in parte. Ciò che invece ha colpito me è stato vedere le sale piene, gremite soprattutto di giovani.

Glory Hole: Le foto del film

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Da regista di documentari, perché hai concentrato da sempre la tua attenzione sulle tematiche sociali trasformandole nel fulcro di interesse del tuo cinema?

Forse per questione di provenienza. Sono originario della zona di Caserta, appartengo a un territorio da sempre teatro di storie di disagio sociale ma anche di riscatto che hanno alimentato il mio immaginario. Ho provato a raccontare quelle tematiche, quelle apparenti controversie e quelle vicende anche di malessere con prospettive diverse, concentrandomi sempre su aspetti meno usuali.

Da questo fulcro sembrano però distanziarsi due tuoi lavori, uno su Franco Ricciardi e uno su una giovane albina in Tanzania.

Lavorando molto per la televisione, per la Rai, ho raccontato spesso i neri nel mondo dei bianchi in Italia. Per varie vicissitudini, ero incappato nella storia della ragazza albina ospite in un nostro programma per parlare di come gli albini venivano trattati e considerati in Africa: uccisi alla nascita o perseguitati per tutta la vita. In pratica, accade in quelle zone l’esatto contrario di ciò che si vive da noi: sono i neri a perseguitare i bianchi… Mi sono appassionato all’argomento e ne è venuto fuori un film, così come presto mi occuperò dell’estinzione del popolo dei pigmei, la prima stirpe dell’umanità che si è sviluppata.

Franco Ricciardi per chiunque viva in Campania (e non solo) è un idolo, una sorta di icona: è la colonna sonora costante dei quartieri di Napoli. Il termine neomelodico è stato ad esempio coniato per lui e a voler il documentario è stato Gaetano Di Vaio: lo aveva incontrato per caso e voleva celebrarne i trent’anni di carriera. Mi sono profondamente innamorato di Franco già cinque minuti dopo il nostro incontro: bellissimo personaggio ma anche persona particolarissima, con un bel vissuto sulle spalle. Quel documentario è stata una delle esperienze più divertenti della mia vita…

Il regista Romano Montesarchio.
Il regista Romano Montesarchio.
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