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Gorka: “Le stelle sono là. Le vedi ma non ti dicono niente” – Intervista esclusiva al rapper genovese

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Gorka, classe 1997, ha appena pubblicato il suo nuovo singolo, Starbox, frutto dell’incontro con Fra Bracci degli Ex Otago. Una canzone rap che si trasforma nel suo manifesto personale e musicale. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.

Gorka ha tutta l’energia dei suoi 25 anni, quella di chi nel suo piccolo sogna di poter cambiare il mondo che lo circonda. Non per renderlo a sua immagine e somiglianza ma semplicemente per trasformarlo in un posto migliore dove vivere, con la speranza di un futuro che non sia così compromesso come il presente. Originario di Albenga e da sempre amante delle sottoculture, Gorka ha alle spalle almeno due vite. Una, fatta di consensi nei locali, apertura dei live di artisti mainstream e contratti firmati. L’altra, di realtà di strada, di salette in cui suonare, di palchi su cui rappare e di bar in cui parlare coinvolgendo i ragazzi e le ragazze di Genova.

In mezzo, tra le due esistenze, ci sono stati anni di lockdown, delusioni, musica di m***a, social network e la morte di un amico fraterno. Ma di questo lasciamo che a parlarcene sia la voce di Gorka nel corso dell’intervista che ci ha concesso.

Con un nome basco dato dai genitori perché vivevano a Bilbao e su cui ha anche scherzato in una sua canzone (Giovane lupo), Gorka ha da poco pubblicato il suo ultimo singolo, Starbox (Pioggia Rossa Dischi). Il brano vede la produzione di Fra Bacci, chitarrista degli Ex Otago e produttore musicale. “Starbox è una canzone rap, con una base elettronica, senza ritornello”, ha raccontato Gorka. “Parla di ragazzi di provincia che muoiono giovani come rockstar, parla di amore e di attacchi di panico, parla di stelle che a Milano non vedono, ma nel mio paese si. Perché l’hiphop è a New York, il punk è a Londra, il reggae è a Kingston, ma le stelle sono nell’entroterra di Albenga”.

Intervista esclusiva a Gorka

È da poco uscito Starbox, il tuo nuovo singolo. È frutto della collaborazione con Fra Bacci.

Possiamo definire Starbox un momento di sperimentazione tra me e Fra Bacci. Per me, rappresenta una prima volta. Ho sempre fatto rap mentre Bacci viene da un mondo completamente distante dal mio. Oltre a essere chitarrista degli Ex Otago, è anche da qualche anno un produttore di musica elettronica. Mi ha chiesto se avessi avuto piacere di provare a scrivere su una produzione che avesse quell’impronta ed io ci ho provato. In poche ore, cose che non succede mai – solitamente impiego più tempo – ho buttato giù il testo e abbiamo registrato tutto: non abbiamo cambiato nulla, era un po’ come uno sfogo.

Starbox è una parola che avevo da tanti anni in testa. Mi piace, come penso a tantissimi, ogni tanto in estate andare in qualche rifugio di montagna o a far serata da qualche parte in tenda o cose del genere. E, quando ero bambino, andavo in un rifugio in cui c’erano dele casette per guardare le stelle. Anche se, in realtà, non ci sono mai entrato: le stelle si vedono anche sdraiati su un prato. Però, le casette mi hanno sempre affascinato.

Sono anche molto affezionato al suono delle parole. E Starbox è una parola che mi ha sempre fatto impazzire: mi ero ripromesso che prima o poi avrei chiamato un testo così.

Cosa rappresentano per te le stelle?

Essendo cresciuto in un paese di provincia, ho sempre visto tante stelle. Così come ho visto tante stelle cadenti ed espresso altrettanti desideri. C’era un gioco che ero solito far da bambini: si rimaneva un’intera notte d’estate a contare le stelle cadenti e si arriva a vederne anche venti o trenta. Ora non so se si è mai realizzato niente di quello che ho desiderato però le stelle son qualcosa che affascinano l’uomo da sempre.

Ho un mio modo di intendere la mia voglia di scrivere, di rinchiudermi in camera, di cercare rime: è un po’ una risposta a un mondo che poi non ti parla e non sa comunicare. Come le stelle: sono là, le vedi ma non ti dicono niente. Sei tu che parli a loro. E io parlo scrivendo alle stelle, all’universo, ai morti.

Hai appena citato la parola “morti”. In Starbox canti in un verso dei giovani che su una cabrio muoiono come rockstar. Ha origine da un episodio molto particolare della tua vita privata, ovvero la morte di un tuo carissimo amico, lo stesso che ti ha iniziato alla musica.

Nella mia zona, purtroppo, come in tanti altri posti, muoiono tanti ragazzi in incidenti stradali. È proprio una costante: ogni tanto vien fuori questa notizia del caz*o che non vorremmo mai leggere. E un giorno è toccato anche a me di ricevere una chiamata che non mai avrei voluto: era morto un mio amico. Per me, era come un fratello maggiore. Ci eravamo conosciuti da piccoli quando si era trasferito nel mio paese. Ed era il classico ragazzo un po’ più grande di me che copiavo: cercavo di essere come lui, ascoltavo la musica che ascoltava lui ed era a lui a cui ho mandato le prime canzoni che ho fatto.

Da più grandicelli, quando la distanza di età non era più così “invalidante”, abbiamo iniziato anche a frequentarci alle serate o ai concerti. Mi faceva i video e veniva a fare il dj. Aveva una personalità artistica veramente gigante con una mentalità talvolta anche parecchio estrema. Non voleva ad esempio avere niente a che fare con il mondo discografico o con il desiderio di fare soldi. Per lui la musica era qualcosa da fare dal basso per la gente e, soprattutto, per i ragazzi. Non condividevo tutto ciò che rappresentava ma mi ha ispirato sin da quando avevo sei o sette anni. Non avevo mai scritto di lui ma in Starbox ho voluto finalmente farlo: ho scritto di lui ma anche di tutti quei ragazzi che purtroppo, chi per un motivo chi per un altro, non ci sono più.

Il tuo amico non voleva far soldi con la musica. Tu invece dichiari che il tuo obiettivo è far soldi per fare musica e per cambiare Genova. Perché è così forte in te l’esigenza di cambiare la tua città?

Non voglio cambiare Genova a mia immagine e somiglianza. Insieme a più persone possibili, senza voler fare il guru o il leader di niente, voglio semplicemente cercare di dare a questa città (e all’intera regione) un’alternativa al solito intrattenimento, ovvero la discoteca, la stagione estiva, i turisti e così via. Genova e la Liguria stanno purtroppo diventando un po’ la periferia di Milano o Torino, il posto dove andare al mare tre mesi all’anno. Qui, d’inverno si sta tutti chiusi in casa e il numero dei ragazzi sta costantemente diminuendo: negli ultimi tre anni ho visto partire tutti i miei amici, uno dopo l’altro, e presto toccherà anche a me farlo.

Vorrei che chi abita qui o che ha voglia di restarci trovasse un posto confortevole, con contratti di lavoro decenti, un posto di lavoro tutto l’anno e iniziative culturali interessanti. Tutte cose che in provincia non esistono e che in città stanno scomparendo pian piano.

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Eppure, dalla televisione e dalle serie tv, abbiamo un’immagine di una città che ha voglia di rinnovarsi.

Certo. Per assurdo, a Genova stanno girando film e serie tv. C’è attenzione verso la città. sicuramente Blanca o altri prodotti anche per Netflix hanno portato Genova sullo schermo e non è una cosa usuale. Mi sarebbe piaciuto partecipare ad esempio a Blanca come comparsa perché spero un giorno di riuscire a entrare in quel mondo, mi affascina molto.

Però, ho scritto per la serie di Rai 1 un pezzo chiamato dai Calibro 35. Cercavano un ragazzo del posto e qualcuno ha fatto il mio nome. Mi hanno chiesto un provino ed è andata bene. Credo che sia il momento più alto da me mai raggiunto: loro sono veramente una potenza.

Sembri molto più maturo dei tuoi 25 anni. A cosa si deve?

Sono un giovane intellettuale. Battuta a parte, non mi sento migliore dei miei coetanei. Sicuramente mi ha aiutato tanto nella vita leggere. Sembrerà una frase del caz*o però mi accorgo che quando non leggo per tanto tempo regredisco come essere umano. Leggere è quello che non fa quasi più nessuno.

Qual è il tuo libro preferito?

Per un fattore di sensazioni a livello personale, Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti. È un romanzo che ho letto da ragazzino e come scrive Ammaniti mi ha sempre fatto impazzire.

Oltre che di sogni e di desideri espressi, in Starbox parli anche di passioni viscerali. Quali sono le tue oltre la musica?

La musica da anni è abbastanza totalizzante e non mi lascia spazio per altro. Da quando sono ragazzino, mi sono dato totalmente alla musica e non mi resta molto altro tempo libero. Però, mi piace stare in giro. Sto parecchio per strada perché mi piace stare all’aria aperta, vedere amici, sostare al bar e guardare la città. mi piace vivere in questa maniera: credo che sia anche, purtroppo, un modo per immagazzinare più cose e poi metterle in scrittura.

È come una fase di assorbimento. È scrittura terapeutica la tua?

La scrittura? Direi di no ma io vado da uno psicoterapeuta! Scrivere è sempre stata la mia maniera per esprimere i miei pensieri e per sfogarmi e calmarmi. Ho scelto il rap come genere proprio perché dà la possibilità di mettere insieme tante parole, una attaccata all’altra.

Vai dallo psicoterapeuta per gli attacchi di panico?

No. Come tutti, ho avuto a che fare anche con quelli. Tuttavia, vado perché sono sempre stato un soggetto evitante. Ho sempre evitato di parlare e mi sono tenuto dentro tante cose, che rispuntavano poi fuori ciclicamente e anche in maniere più grave. Ognuno di noi ha fantasmi che se non vengono affrontati tornato comunque a tormentarti prima o poi. Sto vivendo un momento di crescita: non sono più un ragazzino, anche se non sono ancora un uomo adulto, e voglio cercare di viverlo nella maniera più tranquilla e serena possibile.

Sei riuscito a seppellire qualche fantasma?

No, non si possono seppellire. Ho sempre tenuto tutto dentro pensando che la vita fosse una e che occorresse guardare dritto, andare avanti e fare. Però, a volte, mettere un po’ d’ordine dentro o dare il giusto nome alle cose aiuta. Faccio musica da quando ho 15 anni e più volte, a causa di problematiche personali che tutti viviamo anche se con sfumature diverse, ho pensato di mollare tutto.

Del resto, lo cantavi già in 20 anni (Andale): “questo mondo non è fatto per quelli come me”.

Bisognerebbe però trovare il modo per starci nella maniera più serena possibile.

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15 anni… eri veramente piccolo. Erano gli anni in cui avresti dovuto impegnarti a scuola.

Eh, sono un veterano! (ride, ndr). Fa strano dirlo ma, purtroppo, non mi è importato mai niente della scuola, seppur mi sia diplomato e abbiamo dopo continuato con un corso post diploma. La musica è sempre stata il mio modo di star al mondo, il mio daimon, come lo chiamano i greci. Sin da bambino, mi sono appassionato alle sottoculture musicali di tutti i tipi, a tutto ciò che musicalmente era alternativo a quello che poteva ascoltare un mio cugino più grande. E volevo diventare come gli artisti che ascoltavo: un punk o un rapper che suonava la chitarra, scriveva e saliva sui palchi.

Può coniugarsi questo amore per le subculture con la grande tradizione della scuola cantautorale genovese?

Non saprei. Non sono un grande fan del cantautorato e della musica con cui sono cresciuto. Anche senza volerlo, in casa ascoltavo De André e ho imparato a suonare la chitarra con le sue canzoni. Pensa che quando arrivavano i parenti dalla Francia io cantavo loro De André, me lo chiedevano e li accontentavo. La figura di De André a Genova è ad esempio molto pesante: non c’è intervista a cui a un rapper genovese non chiedono se l’abbia ascoltato o se sia stato influenzato.

L’associazione ha raggiunto però la sua maturità quando è uscito il documentario La nuova scuola genovese, a cui ho preso parte anch’io. Il film ha fatto dialogare i due mondi ma sono due cose differenti. Questo non vuol dire che una sia meglio dell’altra: vanno semplicemente contestualizzate nel periodo in cui sono avvenute. La Genova degli anni Ottanta non è la Genova di adesso.

Che tipo di bambino sei stato?

Ero molto esuberante e molto, molto vivace. Mi piaceva fare lo show e poter dire la mia. Se avessi continuato con il carattere che avevo da bambino, oggi sarei Damiano dei Maneskin. Ero veramente folle! Crescendo, mi sono calmato molto ma da bambino ero veramente fuori.

In West Liguria Story, una tua canzone, fai riferimento a urla a cui eri abituato sin dalla culla.

Sono cresciuto in una famiglia numerosa con tante donne. Tutte donne, direi, perché alla fine ero io l’unico maschietto. Una famiglia, quindi, molto numerosa, casinista e disordinata, se vogliamo. Ho sempre notato una grossa differenza tra la mia famiglia e quelle dei miei amici. Chiaramente, crescendo uno cerca un proprio modo di stare al mondo e le cose che si sente di voler essere ma venire da famiglie un po’ disastrate ti fortifica. Mi piace pensarla così.

Cosa sogni di diventare?

Spero di continuare ad avere questa voglia di scrivere e di fare musica che ho adesso. E di coinvolgere persone di qualità per farmi aiutare in questo. Ci sono persone che scrivono i pezzi e altre che ascoltano le loro parole per varie ragioni: mi auguro che si moltiplichino le seconde.

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