Negli intricati meandri della geopolitica, dove le notizie sono spesso frammentate e le opinioni polarizzate, emerge una voce capace di fornire chiarezza e profondità, quella di Greta Cristini. Analista geopolitica e reporter di guerra, Greta Cristini rappresenta questa voce attraverso il suo nuovo podcast, Il Grande Gioco. Prodotto da OnePodcast, Il Grande Gioco offre una lettura inedita dei fatti internazionali, esplorando le dinamiche di potere tra Stati Uniti, Russia e Cina.
In un mondo dove la velocità dell'informazione supera spesso la capacità di analisi, Greta Cristini si distingue per il suo approccio meticoloso e la sua capacità di svelare le mosse nascoste dietro le dichiarazioni ufficiali. Con una carriera che l'ha vista operare come avvocato anticorruzione a New York, reporter in zone di conflitto come Ucraina, Israele e Palestina, Greta Cristini è tornata in Italia con l'obiettivo di offrire un punto di vista informato e accessibile sui complessi scenari globali.
Durante la nostra intervista esclusiva, Greta Cristini riflette sulla frenesia del suo lavoro, che tra conferenze e incontri non sembra mai concedere un attimo di respiro. Tuttavia, questa costante attività è anche ciò che rende il suo lavoro tanto stimolante e vitale. "Ti tiene sempre attivo, sempre sul pezzo", dice. È questa attitudine a rimanere aggiornati e reattivi che rende Greta una figura di riferimento nel panorama della geopolitica.
Le sue esperienze sul campo, dai fronti di guerra in Ucraina alle tensioni in Medio Oriente, offrono una prospettiva unica e preziosa. Ogni settimana, attraverso il suo podcast, Greta Cristini condivide questa ricchezza di conoscenze con un pubblico sempre più vasto e affamato di comprensione. La sua missione è chiara: decifrare la complessità delle dinamiche globali e fornire strumenti utili per interpretare il "Grande Gioco" delle potenze mondiali.
Nonostante le sfide e i pericoli che ha affrontato, Greta Cristini mantiene una determinazione incrollabile e una passione indomabile per la sua professione. La sua storia è un esempio di come la dedizione e la competenza possano superare pregiudizi e ostacoli, dimostrando che, indipendentemente dal genere, ciò che conta è l'impegno e la qualità del lavoro.
Intervista esclusiva a Greta Cristini
“È stato un periodo piuttosto intenso, ma sto bene”, mi risponde Greta Cristini quando mi risponde al telefono. “Sai, tra conferenze e incontri, a volte sembra di non avere mai un momento per fermarsi. Ma è anche il bello di questo lavoro, no? Ti tiene sempre attivo, sempre sul pezzo. Spesso mi trovo a riflettere su quanto il mondo stia cambiando velocemente, e quanto sia importante per noi analisti di geopolitica rimanere aggiornati e reattivi. Ogni giorno porta con sé nuove sfide, nuovi sviluppi, e noi dobbiamo essere pronti a interpretarli e spiegarli al pubblico”.
Sei appena tornata da un viaggio?
Sono stata in giro per diverse città italiane. Tra Trento, Bologna e Verona, sono state tutte conferenze focalizzate sulla geopolitica. È stato impegnativo, ma anche molto stimolante. Avere l'opportunità di discutere di temi così complessi con persone altrettanto appassionate è sempre un privilegio. Parlare con studenti, colleghi e appassionati mi permette di vedere diverse prospettive e arricchire il mio bagaglio di conoscenze.
E sarà impegnativo parlare di certi temi, immagino.
Esattamente. La geopolitica è un argomento affascinante, ma anche estremamente impegnativo. Ogni giorno si presentano nuove sfide e nuovi sviluppi da analizzare. È un campo in cui non ci si può mai permettere di abbassare la guardia. Ogni conferenza, ogni incontro è un'opportunità per approfondire la conoscenza e scambiare opinioni con altri esperti. E sì, a volte può essere stressante, ma alla fine ne vale sempre la pena. È una disciplina che richiede un continuo aggiornamento, una costante ricerca e una mente aperta. Ogni incontro è un'occasione per confrontarsi e crescere, sia professionalmente che personalmente.
Come nasce il podcast Il Grande Gioco?
Il Grande Gioco è un progetto che mi sta particolarmente a cuore. È un podcast settimanale che si propone di affrontare le tematiche della geopolitica, concentrandosi sui conflitti di potere tra le superpotenze mondiali. L'idea mi è venuta osservando quanto la geopolitica stesse tornando alla ribalta negli ultimi anni, soprattutto a causa delle numerose crisi internazionali.
Mi sono resa conto che c'era una grande fame di comprensione, di strumenti per decifrare la complessità delle dinamiche globali. Così ho pensato a un podcast che potesse fornire un'analisi approfondita e, al contempo, accessibile. Ogni settimana scelgo un dossier specifico - può essere un caso molto conosciuto o uno meno noto al grande pubblico - e lo analizzo attraverso le lenti della geopolitica.
Mi concentro principalmente su Stati Uniti, Russia e Cina, perché sono le tre superpotenze che maggiormente influenzano le dinamiche globali. Ma cerco anche di mostrare come il mondo sia così interconnesso che spesso i loro interessi, ambizioni e paure si intrecciano in modi inaspettati. Volevo colmare un vuoto nel panorama dei podcast, offrendo un punto di vista attuale e approfondito sugli eventi internazionali, senza però cadere nella superficialità o nel sensazionalismo.
Il podcast nasce anche dalla mia passione per la comunicazione e per la divulgazione. Volevo creare uno spazio dove poter spiegare concetti complessi in modo chiaro e coinvolgente, senza perdere la profondità dell'analisi. Ogni episodio è frutto di un lavoro di ricerca accurato e di un tentativo costante di migliorare e affinare il mio approccio. Ed è interamente pensato, scritto e condotto da me, mossa dal desiderio di offrire un prodotto di alta qualità, che possa essere utile sia agli addetti ai lavori che al pubblico generale.
Parlare di geopolitica in un settore dominato da uomini: quali sono state le tue maggiori difficoltà come donna in questo campo?
È una domanda molto pertinente. La geopolitica e il giornalismo di guerra sono settori storicamente dominati dagli uomini. Le difficoltà non sono poche. Tuttavia, ho avuto la fortuna di formarmi in ambienti internazionali dove la meritocrazia prevale su altre dinamiche. Ho studiato e lavorato a Parigi, Bruxelles e New York, e queste esperienze mi hanno forgiata professionalmente e personalmente.
In Italia, la situazione è diversa. Ho dovuto confrontarmi con pregiudizi e stereotipi, non solo come donna ma anche come giovane professionista. Quando mi sono avventurata nel mondo del reportage di guerra, ad esempio, molti mi hanno detto che non ce l'avrei fatta, che era un campo troppo duro e maschilista. Ma sono andata avanti, guidata dalla mia passione e determinazione.
In Ucraina, ho avuto la mia prima esperienza di reportage di guerra. Non avevo mai fatto nulla di simile prima, ma ho deciso di partire. Mi sono trovata in situazioni estremamente pericolose, ma questo mi ha permesso di dimostrare a me stessa e agli altri che avevo la forza e la competenza per farlo. Ho imparato a gestire lo stress e a lavorare in condizioni estreme, ma soprattutto ho imparato che la determinazione e la professionalità possono abbattere molte barriere.
Ci sono stati momenti in cui ho dovuto affrontare sguardi di diffidenza e commenti sessisti, ma ho sempre cercato di non farmi scoraggiare. La chiave è stata mantenere alta la mia professionalità e non permettere a questi atteggiamenti di influenzare il mio lavoro. Ma ho avuto la fortuna di incontrare anche colleghi e superiori che hanno creduto in me e mi hanno supportato. Questo mi ha dato la forza di continuare e di dimostrare che, indipendentemente dal genere, quello che conta è la competenza e l'impegno.
Un'altra sfida è stata quella di trovare il mio posto in un ambiente così competitivo. Ho dovuto lavorare il doppio per ottenere il rispetto e la credibilità che molti dei miei colleghi maschi davano per scontati. Ma ogni difficoltà superata è stata una vittoria, e mi ha resa ancora più determinata a raggiungere i miei obiettivi.
Hai lasciato una carriera avviata come avvocato a New York per dedicarti alla geopolitica. Come è avvenuta questa transizione?
È stata una decisione difficile, ma sentivo che era la cosa giusta da fare. A New York, lavoravo come avvocato in una grande multinazionale, occupandomi di indagini anticorruzione. Era un lavoro stimolante e ben retribuito, ma sentivo che mancava qualcosa. Il diritto mi dava strumenti utili, ma non mi permetteva di capire a fondo le dinamiche di potere che mi hanno sempre affascinato.
Leggendo Limes e altri testi di geopolitica, ho capito che quella era la mia vera passione. La geopolitica mi offriva una lente attraverso cui interpretare la complessità delle relazioni internazionali. Così, a 26 anni, ho deciso di fare un salto nel vuoto. Ho lasciato il mio lavoro a New York e sono tornata in Italia, determinata a seguire la mia passione.
All'inizio non è stato facile. Ho dovuto ricominciare da zero, costruire una rete di contatti e dimostrare la mia competenza in un nuovo campo. Ma non mi sono mai pentita di questa scelta. La geopolitica mi ha permesso di combinare il mio interesse per le dinamiche di potere con il mio desiderio di comprendere meglio il mondo. Ogni giorno è una nuova sfida, ma è anche una nuova opportunità di apprendere e crescere.
Lasciare New York è stato un passo coraggioso. Avevo costruito una carriera solida e rispettata, ma sentivo che il mio cuore era altrove. La geopolitica mi ha sempre affascinato per la sua capacità di spiegare le interazioni complesse tra nazioni, culture e poteri. Volevo approfondire queste dinamiche e contribuire alla comprensione di eventi globali.
La transizione è stata graduale. Ho iniziato a studiare geopolitica mentre ancora lavoravo come avvocato. Leggevo articoli, libri, partecipavo a conferenze. Poi, ho capito che dovevo fare il salto. Ho preso un anno sabbatico per dedicarmi completamente a questa nuova passione. Durante questo periodo, ho viaggiato molto, ho incontrato esperti e ho iniziato a scrivere i miei primi articoli.
Il ritorno in Italia è stato un altro momento cruciale. Ho dovuto adattarmi a un contesto professionale diverso, dove la geopolitica non era ancora così valorizzata come in altri paesi. Ma questo mi ha dato la spinta per creare qualcosa di nuovo. Ho fondato il podcast Il Grande Gioco con l'idea di portare un'analisi geopolitica rigorosa e accessibile al pubblico italiano.
Ogni giorno mi sveglio con la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Il mio lavoro mi appassiona e mi dà la possibilità di contribuire alla comprensione di un mondo sempre più complesso e interconnesso. E, nonostante le difficoltà, non c'è stato un solo momento in cui ho rimpianto la mia decisione.
Come riesci a mantenere l'obiettività quando parli di conflitti così polarizzati come quello israelo-palestinese?
Mantenere l'obiettività è fondamentale in questo lavoro, ma è anche una delle sfide più grandi. La geopolitica è intrinsecamente legata alle vicende umane, e ogni conflitto è carico di emozioni e storie personali. Il mio approccio è quello di cercare di vedere le cose dal punto di vista delle persone coinvolte, ma mantenendo sempre una certa distanza emotiva.
Ad esempio, quando sono stata in Israele e Palestina, ho cercato di vivere e lavorare con entrambe le comunità. Ho passato del tempo con i coloni israeliani, ascoltando le loro ragioni e la loro visione del conflitto. Poi sono andata nei campi profughi palestinesi, dove ho ascoltato storie di sofferenza e oppressione. Questo mi ha permesso di comprendere meglio la complessità del conflitto e di riportare una visione più equilibrata.
La geopolitica mi permette di analizzare i fatti senza cadere nella dicotomia buoni-cattivi. Ogni situazione è complessa e multi sfaccettata, e cercare di ridurla a una semplice contrapposizione morale è fuorviante. Cerco di mantenere un approccio realistico e cinico, staccandomi emotivamente quando faccio l'analisi. Questo mi permette di offrire una visione più neutra e obiettiva, anche se a volte può sembrare fredda o distaccata.
Un aspetto cruciale del mio lavoro è l'empatizzare con le persone che incontro, comprendere le loro paure, le loro speranze e le loro sofferenze. Ma è altrettanto importante non lasciarsi coinvolgere emotivamente al punto da perdere la capacità di analisi. Questo equilibrio è difficile da mantenere, ma è essenziale per fare un buon lavoro di geopolitica.
Quando, ad esempio, parlo di conflitti come quello israelo-palestinese, cerco di raccogliere il maggior numero possibile di prospettive diverse. Intervisto persone da entrambi i lati del conflitto, leggo fonti multiple e contrastanti, e mi sforzo di capire le radici storiche e culturali delle loro posizioni. Solo in questo modo posso sperare di fornire un'analisi completa e imparziale.
La neutralità è un obiettivo, ma è anche un processo continuo. Significa essere aperti a cambiare idea alla luce di nuove informazioni, e non lasciare che i propri pregiudizi personali influenzino il giudizio. È un compito arduo, ma è ciò che rende il mio lavoro così appassionante e significativo.
Hai mai vissuto momenti di pericolo durante i tuoi reportage di guerra?
Sì, purtroppo sì. Durante i miei reportage, soprattutto in Ucraina, ho vissuto momenti di grande pericolo. Ricordo un episodio in particolare, quando cercavamo di entrare a Severodonetsk. Eravamo in una zona di guerra attiva, con i russi che avanzavano. Davanti a noi c'era un carro armato ucraino bloccato che ci impediva di passare. Abbiamo fatto marcia indietro, ma quando abbiamo tentato di nuovo, siamo stati presi sotto il fuoco nemico.
I missili russi hanno iniziato a cadere vicino a noi. Il suono era così potente che non riuscivo a capire se ci avessero colpito o se fossero esplosi a qualche decina di metri. In quel momento, mi sono resa conto di non avere il controllo della mia vita. Era come se fossi alla mercé del destino. È stato un momento di grande paura, che mi ha segnato profondamente.
Queste esperienze ti cambiano. Quando torni a casa, ti accorgi di portarti dietro il peso di ciò che hai vissuto. Ad esempio, ora ho difficoltà a stare fuori durante i temporali, perché il suono dei tuoni mi ricorda i bombardamenti. È una sensazione che imparerò a convivere, ma che non dimenticherò mai.
In quei frangenti, ti rendi conto di quanto sia sottile la linea tra la vita e la morte. Ogni decisione, ogni movimento può fare la differenza tra sopravvivere e non farcela. E questo ti cambia. Ti rende più consapevole della fragilità della vita, ma anche della tua stessa resilienza. Ho imparato a mantenere la calma sotto pressione, a prendere decisioni rapide e a fidarmi del mio istinto.
Queste esperienze mi hanno anche insegnato l'importanza della preparazione e della consapevolezza situazionale. Quando entri in una zona di conflitto, devi essere preparato per ogni evenienza. Devi conoscere il terreno, capire i rischi e avere un piano per ogni scenario possibile. Questo richiede non solo coraggio, ma anche disciplina e attenzione ai dettagli.
Nonostante tutto, continuo a fare questo lavoro perché credo profondamente nell'importanza di riportare la verità da questi luoghi. Le storie delle persone che vivono in queste condizioni estreme devono essere raccontate. Devono essere ascoltate. E se posso contribuire, anche solo in piccola parte, a far conoscere queste realtà al mondo, allora ne vale la pena.
Ti senti influenzata da modelli di riferimento come Oriana Fallaci?
Oriana Fallaci è sicuramente una figura iconica nel mondo del giornalismo di guerra, ma non posso dire di considerarla un mio modello di riferimento. Il mio approccio è diverso. Cerco di combinare il reportage di guerra con l'analisi geopolitica, offrendo una visione più completa e sfaccettata delle situazioni che racconto.
Fallaci aveva un approccio molto ideologico, mentre io cerco di mantenere una prospettiva più neutrale e analitica. Non voglio essere io la protagonista delle storie che racconto, ma piuttosto un intermediario che offre al pubblico una visione equilibrata e comprensiva dei fatti. In un certo senso, credo che il giornalismo debba evolversi e adattarsi ai tempi, e il mio tentativo è quello di trovare un equilibrio tra cronaca e analisi.
Il mio obiettivo è sempre stato quello di raccontare le storie delle persone coinvolte nei conflitti, di dare voce a chi spesso non ha voce. Questo significa ascoltare, osservare e riportare senza filtri ideologici. Significa cercare la verità, anche quando è scomoda o complessa. E questo è qualcosa che mi distingue da molti altri giornalisti.
Un altro aspetto importante del mio lavoro è la ricerca continua. Non mi accontento mai della superficie delle cose. Scavo in profondità, leggo, studio, parlo con esperti e con le persone sul campo. Questo mi permette di offrire un'analisi dettagliata e sfumata, che spero possa aiutare il pubblico a comprendere meglio le dinamiche complesse dei conflitti internazionali.
Oriana Fallaci ha certamente aperto la strada per molte giornaliste, e il suo coraggio e la sua determinazione sono stati fonte di ispirazione per molti. Ma il mio approccio è diverso. Voglio che il mio lavoro parli per sé, che le storie che racconto siano al centro dell'attenzione, non la mia persona. E questo richiede un costante impegno per mantenere l'obiettività e l'integrità giornalistica.
Qual è la storia che porterai sempre con te?
Una delle storie che mi ha colpito di più è quella di un bambino nel campo profughi di Jenin, raccontatami da sua nonna. Le ha dato una sua foto dicendo che voleva che fosse mostrata quando sarebbe morto da martire come suo fratello. È una storia che ti spezza il cuore, ma che mostra la complessità del conflitto israelo-palestinese.
Il bambino aveva solo cinque anni, e già parlava di morte e martirio come se fosse una cosa normale. Questo ti fa capire quanto profondamente radicati siano i conflitti e le sofferenze in quelle comunità. È una storia che mi ricorda costantemente l'importanza di mantenere un approccio umano e compassionevole, anche quando si trattano temi così difficili e dolorosi.
Quando ho incontrato la famiglia di quel bambino, mi sono resa conto di quanto la loro realtà fosse distante dalla nostra. Per loro, la violenza e la guerra sono una parte quotidiana della vita. Crescono con la consapevolezza che la loro esistenza è costantemente minacciata, e questo influisce profondamente sul loro modo di vedere il mondo.
Questa storia mi ha insegnato molto sull'importanza di raccontare le vicende umane dietro i conflitti. Dietro ogni numero, ogni statistica, ci sono persone reali con storie reali. Ed è nostro compito, come giornalisti e analisti, far emergere queste storie, dare loro voce e far sì che il mondo le ascolti.
Ma ogni esperienza mi ha spinto a vedere oltre le etichette e le generalizzazioni. Ogni persona ha una storia unica, e ogni storia contribuisce a formare il quadro più grande. Raccontare queste storie è una responsabilità che prendo molto seriamente, e cerco di farlo con la massima integrità e rispetto.
Cosa ti manca di più quando sei all'estero?
La sensazione di casa, senza dubbio. Sono cresciuta in un piccolo paese di 1400 anime, e quella solidità e quella familiarità mi mancano quando sono lontana. La mia famiglia è sempre stata il mio punto di riferimento, e anche se sono stata molto all'estero, ho sempre sentito la loro presenza come un'ancora.
Durante la pandemia, quando ero a New York, non ho potuto vedere i miei genitori per quasi due anni. È stato difficile, ma mi ha anche reso più forte. Sapere di avere un posto dove tornare, una famiglia che ti sostiene, ti dà una grande forza. Mi permette di affrontare le sfide con maggiore determinazione, sapendo che ho sempre un rifugio sicuro dove tornare.
Un'altra cosa che mi manca è il calore e la convivialità della cultura italiana. I pranzi di famiglia, le chiacchierate con gli amici, le tradizioni che rendono la nostra vita quotidiana così ricca e significativa. Quando sei all'estero, soprattutto in situazioni di conflitto, queste cose sembrano lontane e irreali. Ma sapere che esistono e che puoi sempre tornare a esse ti dà una grande forza.
Anche il cibo italiano mi manca terribilmente! Non c'è niente di paragonabile a un buon piatto di pasta o a una pizza fatta come si deve. Questi piccoli piaceri della vita quotidiana diventano ancora più preziosi quando sei lontano.
L'Italia ha una ricchezza culturale e storica che è unica al mondo, e ogni volta che sono lontana, sento una grande nostalgia per i nostri paesaggi, i nostri monumenti, la nostra arte. Ma questa nostalgia è anche una fonte di ispirazione. Mi ricorda chi sono e da dove vengo, e mi dà la motivazione per continuare a fare il mio lavoro, sapendo che rappresento una piccola parte di questa grande tradizione.
È stato facile essere intervistata anziché intervistare?
No, non proprio. Parlando di lavoro è sempre più facile, ma quando si tratta di aspetti personali è più difficile. Riflettere su se stessi e sulle proprie esperienze richiede una certa introspezione, e non è sempre semplice. Ma è stata un'esperienza interessante, e mi ha fatto piacere condividere un po' di più della mia storia.
Essere dall'altra parte del microfono ti costringe a fare un passo indietro e a guardare la tua vita e la tua carriera da una prospettiva diversa. Ti fa riflettere su ciò che hai raggiunto, sulle sfide che hai affrontato e sulle lezioni che hai imparato lungo il percorso. È un esercizio prezioso, che ti permette di apprezzare meglio il tuo viaggio e di riconoscere l'importanza di ogni singolo passo che hai compiuto.
Parlare di sé stessi può essere un po' imbarazzante, ma è anche un'opportunità per essere onesti e autentici. Condividere le proprie esperienze può ispirare e motivare gli altri, e questo è qualcosa che considero molto importante. Se la mia storia può aiutare anche solo una persona a trovare il coraggio di seguire le proprie passioni, allora ne vale la pena.