Interpretare Angelo Izzo, uno dei responsabili del massacro del Circeo, nella serie tv di Rai 1 Circeo non è stato facile per Guglielmo Poggi, trentaduenne attore romano impegnato quasi sempre in tv o al cinema in ruoli da commedia. La difficoltà non era legata tanto alla drammatica storia vera che Izzo che si porta alla spalle: sì, è stata determinante per Guglielmo Poggi ma non tanto quanto il suo studio per il personaggio, diventato quasi maniacale o ossessivo.
Ne aveva parlato in una bella intervista a Vanity Fair qualche tempo fa, in occasione della release di Circeo su Paramount+. A sette mesi di distanza da quell’intervista, siamo tornati sull’argomento con Guglielmo Poggi per capire cosa ne è stato dopo di tutta quella fatica per calarsi nei panni dell’unico serial killer italiano ancora in vita e uscirne senza conseguenze. Pian piano, nel corso della nostra intervista esclusiva, emergono pian piano dettagli che rendono Guglielmo Poggi non solo un attore sfaccettato ma anche una persona dalle infinite e romantiche sfumature, dove romantico ha l’accezione letteraria più nobile di sempre.
Sono tanti gli spunti che la serie tv di Rai 1 Circeo ci offre per affrontare una chiacchierata non sempre facile, che richiede a Guglielmo Poggi di denudarsi senza scadere nella pornografia. E forse per tale ragione quella che segue è un’intervista rock’n’roll o, se vogliamo, punk, in cui si susseguono argomenti come la violenza sulle donne, la manipolazione, i disturbi alimentari, la recitazione, la cancel culture, i social e, anche, la morte. Tutti piccoli passi che ci permettono di bussare alle porte dell’anima di Guglielmo Poggi ed entrare in un mondo meravigliosamente schietto e onesto, in cui la retorica è sostituita da un’alta schermaglia verbale di cui andare fieri.
Intervista esclusiva a Guglielmo Poggi
Sta finalmente per andare in onda su Rai 1 la serie tv Circeo, in cui interpreti il personaggio di Angelo Izzo. Hai sulle spalle un peso non certo indifferente. In un’intervista a Vanity Fair di qualche tempo fa dichiaravi di non riuscirti a scrollarti di dosso il personaggio: vale ancora?
No, finalmente ci sono riuscito ed è stato per me molto utile per vedere il tutto con un certo distacco. Purtroppo o per fortuna, noi attori viviamo in un’epoca di grande rapidità esecutiva e riusciamo a liberarci dei personaggi in maniera molto veloce ma nel caso di Circeo le cose sono andate diversamente: la lavorazione, in pieno periodo CoVid, si è protratta per mesi e, quando ho cominciato tempo dopo a vederne le prime immagini, non sentivo di esserne ancora fuori. È intercorso un anno dall’intervista rilasciata a Chiara Ortolani e, rispetto ad allora, sono abbastanza lontano dal mondo di Izzo, tanto che ho smesso di esercitarmi sulla voce, sugli occhi e su tutti quegli aspetti anche solamente tecnici che mi servivano per dar corpo al personaggio.
Tuttavia, oggi mi rendo conto che il lavoro fatto è stato molto importante. Buono o cattivo che sia, non entro nel merito e non spetta a me giudicarlo, è stato svolto con il giusto coinvolgimento e la giusta responsabilità. Mi è servito molto il distacco, soprattutto a livello umano, perché portarsi dietro quella roba non è mai piacevole. Non si rischiava che diventassi un mostro, sia chiaro, però ho preso le distanze da certi pensieri e da un certo tipo di attenzione al femminile che non mi appartiene e non mi è mai appartenuto.
Angelo Izzo è uno dei tre responsabili del massacro del Circeo, uno dei casi forse più eclatanti di violenza sulle donne rimasto impresso nella memoria collettiva. Quanto è stato importante per te che la sceneggiatura fosse firmata da tre donne, Flaminia Gressi, Viola Rispoli e Lisa Nur Sultan?
Tantissimo. Tra l’altro, c’è un aneddoto molto divertente che riguarda Flaminia Gressi, l’ideatrice della serie tv Circeo. Io e lei non ci eravamo mai visti quando ci siamo ritrovati a uno stesso evento per cinematografari. Ricordo distintamente quando, dopo avermi guardato per un paio di minuti, è sbiancata in volto nel riconoscere in me “il suo Angelo Izzo”. È stata in quell’occasione che mi ha raccontato come è nato il lei il desiderio di raccontare questa storia e quanto fosse necessario farlo nel suo immaginario. Ho avuto come la sensazione che nessun altro avrebbe potuto raccontarla se non una ragazza giovane come lei: è qualcosa che ha segnato indissolubilmente e per sempre la storia italiana.
Senza la vicenda del Circeo non saremmo mai arrivati a considerare lo stupro come un reato contro la persona e non contro la morale.
Può sembrare solo una questione di termini legali ma dietro c’è una bella differenza. Tra l’altro, durante il processo, anche la stessa Donatella Colasanti teneva molto a sottolineare come Izzo, Guido e Ghira fossero mossi da intenzioni omicide. Un istinto che Izzo ha dimostrato di avere anche qualche anno dopo, nell’unica occasione di libertà che gli è stata concessa: ricordiamoci che parliamo sempre di quello che è attualmente l’unico serial killer italiano ancora in vita.
Flaminia Gressi è stata bravissima nell’individuare che direzione dare a Circeo, una serie tv che in questo momento assume un’importanza notevole. A memoria, non ricordo un anno come quello che stiamo vivendo, in cui non passa giorno in cui le pagine di cronaca non raccontino di femminicidi, violenze sulle donne o stupri, da quello di Palermo alla storia delle cuginette di Caivano. Ogni volta mi sembra di essere di fronte a notizie che arrivano da cinquant’anni fa: è mai possibile che in un’epoca in cui ci si preoccupa anche semplicemente delle desinenze, ci siano due ragazzine sotto i quattordici anni che vengano minacciate di morte e abusate dal branco?
Interpretare un personaggio come Izzo, senza apparire mai giudicante nei suoi confronti, significa necessariamente scrutarsi dentro e ricercare anche il proprio lato oscuro. Cosa hai imparato su te stesso che prima non sapevi?
Il nostro lavoro non è quello di giudicare ed è qualcosa con cui mi sono allenato già in passato. L’approccio tecnico dello studio della sceneggiatura e dello studio del personaggio è la prima porta di ingresso in una storia. Ho studiato per mesi ogni documento su Izzo, cominciando a notare delle piccole cose che in qualche modo potessero risuonare in me.
Ovviamente, non ho vissuto la sua stessa esperienza e non conosco quel tipo di pulsione che l’ha spinto ad agire ma so cos’è la coercizione. Obbligare qualcuno non mi dà alcun tipo di piacere ma mi sono reso conto che provo gusto nella manipolazione, esercitata nel bene, per portare qualcuno dalla mia parte con il fascino e con le parole. Ho trovato che fosse un punto in comune cruciale: Izzo non solo ha convinto due ragazze della Montagnola a seguire lui e gli amici, giovani, belli e ricchi, con la gentilezza e la galanteria ma è riuscito negli anni anche a convincere una giornalista esperta come Franca Leosini di essersi redento prima di tornare a uccidere nuovamente. Ha convinto lei, come la convinto la Magistratura o i medici.
E riconosco di condividere con lui anche una certa paura della complessità femminile. L’Izzo che ho portato in scena ha una certa tridimensionalità che mi auguro arrivi allo spettatore. E la tridimensionalità nasce dal fatto che ha paura di rimanere da solo con Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, perché non riesce ad avere un’altra modalità di comunicazione con loro se non quella del plagio o della violenza. Per quest’aspetto, ho portato in lui la mia paura della complessità femminile, quella di mia madre e delle ragazze con cui sono stato… la mia paura di quanto è complessa la donna e di quanto sia meravigliosamente e incredibilmente difficile da sondare e far propria intellettualmente.
Non sono andato a cercare in me qualcosa che non ho e che non mi appartiene. Non riesco nemmeno lontanamente a immaginare come si possa obbligare qualcuno con la coercizione o arrivare a seviziarlo… a me piacciono la complicità e il gioco della schermaglia intellettuale, qualcosa che purtroppo si sta sempre più perdendo. Sarebbe stato facile appiattire il personaggio di Izzo rendendolo semplicemente mostruoso: non si sarebbe resa giustizia alla storia delle due vittime, che non erano ingenue… non sono andate fino al Circeo per farsi massacrare, Donatella Colasanti ha dimostrato di essere tutto fuorché ingenua: non ha fatto giustamente sconti a nessuno e della sua storia ha sempre parlato con una lucidità gigantesca, anche quando aveva tutto uno Stato contro che le addossava la colpa di quanto accaduto.
Nell’interpretare Angelo Izzo nella serie tv Circeo hai dovuto perdere e prendere peso in poco tempo. Non hai nascosto come tale forzatura abbia lasciato in te e nel tuo comportamento alimentare dei solchi molto profondi. Non è facile per un uomo parlare di rapporto disturbato con il cibo.
So quanto sia difficile farlo. Sento molto il tema dei disturbi alimentari perché ho avuto vicino a me persone che ne hanno sofferto: sono qualcosa che ho visto e che ho voluto raccontare due cortometraggi realizzato come regista sull’anoressia e sulla bulimia. Per realizzare il secondo, ho chiesto pubblicamente aiuto sui social invitando a raccontarmi in forma anonima le proprie esperienze. Quella storia di una ragazza bulimica si basa sul racconto di un uomo che faceva dodici pasti al giorno, ne tratteneva solo tre o quattro e il resto li vomitava.
Capita raramente che un uomo esponga i propri problemi e che a farlo sia un attore. Siamo tutti entusiasti di fronte a una prova di Christian Bale che dimagrisce e ingrassa in breve (o di quella splendida di Andrea Arcangeli in Come pecore in mezzo ai lupi) ma non ci chiediamo mai cosa ci sia dietro. Guardiamo solo alla parte estetica e non a quella psicologica: si dovrebbe porre l’attenzione su come si gestisce il dimagrimento. Se non viene fatto nella maniera giusta, le conseguenze sono profonde.
Personalmente, ho un rapporto complicato con il cibo, non molto sano. Dopo essermi ritrovato a mangiare pochissimo o a vomitare quello che avevo mangiato per dimagrire, sarei dovuto tornare a un’alimentazione normale ma il mio corpo per un bel po’ di tempo non mi ha seguito. Sono dovuto ricorrere a un nutrizionista per provare a rimettermi in carreggiata. Non so perché noi uomini non ne parliamo, forse è considerato uno stigma, ma i problemi con il cibo non hanno sesso e posso condizionarti anche l’intera esistenza, anche fisicamente e non solo psicologicamente. Il mio corpo oggi non è più quello di prima: ho fatto dei danni al mio metabolismo che per quanto cerchi di rieducarlo persistono. Ecco perché la figura di un nutrizionista, quando si vuole perdere peso, è necessaria tanto quella di uno psicologo.
È difficile mettere nero su bianco quale meccanismo si instauri psicologicamente. In qualche modo, i mostri nella nostra testa mi riportano alla storia di Izzo e sul bisogno di provare a sistemarli. È un errore imperdonabile, ad esempio, l’averlo dichiarato incapace di intendere e volere: in questo modo, in carcere non ha ricevuto alcun tipo di supporto psicologico per capire dove aveva sbagliato tanto che alla prima occasione è tornato a farlo. Per migliorare, abbiamo bisogno sempre di non nascondere la polvere sotto il tappeto, un’abitudine che a livello culturale ancora conserviamo quando invece dovremmo guardarci dentro e capire il perché funzioniamo in un determinato modo.
Nel guardarsi dentro, i social giocano forse un ruolo fondamentale. Sono quel luogo in cui tutti quanti pensiamo a restituire la parte migliore di noi stessi. Tu hai smesso di pubblicare contenuti da qualche tempo. Le due cose sono collegate?
A un certo punto, ho capito come la mia dimensione personale e privata dovesse rimanere solo mia o con chi decido di condividerla e non con tutti: la riservo a me stesso e a chi decido che va riservata. Occorre stare attentissimi a dare in pasto la propria vita a tutti quanti in maniera così leggera. Ma che fascino aveva un Mastroianni di cui non si sapeva nulla? O, meglio, di cui si sapeva perché andavi tu a cercare informazioni sulla sua vita e non era lui che te la spiattellava 24 ore su 24? Ma quant’è affascinante il mistero? Quanto è bello poterci svelare come e quando vogliamo, a piccole dosi?
Un tempo, attori, scrittori o poeti, rilasciavano interviste che passavano alla storia e che ancora oggi rivediamo e rileggiamo. Oggi, invece, vedo anche persone per cui ho anche stima e rispetto per come lavorano che sentono l’esigenza di commentare qualsiasi cosa, anche quando non è richiesto o non sanno di cosa parlano basandosi sulle poche informazioni che hanno. Ma davvero pensano che si abbia bisogno del loro giudizio personale o commento? È un po’ il fallimento della nostra epoca: sono altre le voci competenti che andrebbero ascoltate e che invece, nella confusione, finiscono nell’oblio.
Se io oggi posso parlare di Angelo Izzo e dei suoi legami con i neofascisti è perché qualcun altro l’ha studiato e scritto, dando a me i mezzi per farlo. Sono competente grazie alla competenza di qualcun altro, su cui impieghi anche mesi e mesi di studio. Se non ho la competenza necessaria a parlare di qualcosa, pretendo almeno di averla capita e di essermi informato abbastanza prima. Capisco che lo faccia la tiktoker diciottenne che fa l’influencer ma non qualcuno che al mattino vanno a prendere col pickup e a cui portano persino il caffè solo per dire le sue battute davanti alla macchina da presa: già dovrebbe ritenersi un privilegiato, che bisogno ha di cospargere il mondo di informazioni non richieste?
Ecco, di mio, cerco di evitare questo ai miei followers. È chiaro che mi sono pentito di non aver capito i social per tempo e di non averli utilizzato a mio vantaggio, non sono ipocrita: capisco che sono un mezzo per lavorare ma perché usarli per inquinare? Usiamoli semmai per parlare del nostro lavoro o per condividere ogni tanto ciò a cui teniamo veramente, per porre l’attenzione su temi fondamentali, per condividere ciò che fai o che fa qualche tuo collega che ti piace… sono ad esempio portato agli endorsement per i progetti che valgono e che magari non trovano la giusta considerazione o il giusto spazio.
Trovo deprimente o squallido mostrarsi eternamente vincenti: se sto male per qualcosa, perché dovrei farmi vedere con il bicchiere di champagne in mano? Sono cresciuto con due genitori che, purtroppo, mi hanno raccontato un mondo dove fare questo mestiere era tutt’altra cosa e il prendersi sul serio era qualcosa che apparteneva alle generazioni passate. La mia idea di attore è differente dal rendere più importante l’ufficio stampa dell’agente: se accade, qualcosa non quadra. Sono innamorato del mio mestiere ma non mi piace l’egomania: l’attenzione che riserviamo all’ego dedichiamola alla parte più fragile di noi, quella da custodire e da mettere al servizio di una storia tanto più grande della nostra.
“Due genitori che, purtroppo,…”: perché “purtroppo”?
Il loro racconto porta con sé anche tanta disillusione e malinconia. Ho visto cosa accade nei teatri piccoli e scalcinati, quelli in cui ancora vado e in cui non ho mai visto mettere piede agli attori di grande successo. Non c’è per me cosa più bella del ricordarsi del perché si faccia questo lavoro che, purtroppo, è anche in grado di disilluderti. Se non mi facessi così tante domande sulla mia occupazione, sarei forse la persona più serena e felice del mondo: sono responsabile del fatto che chi mi guarda, seduto dal divano di casa o da una poltrona in teatro o al cinema, non deve pensare di aver sprecato il suo tempo.
A teatro tornerai presto con un nuovo spettacolo.
Il teatro è quel luogo dove ritorno quando sento il bisogno esprimermi seriamente. Il nuovo impegno, di cui non posso ancora anticipare molto, mi vedrà recitare a fianco di un attore ipovedente, una sfida per me pazzesca che mi porta ad avere a che fare con un linguaggio completamente diverso dal mio.
Credi che esista una sorta di percezione sbagliata dell’attore Guglielmo Poggi?
Ho avuto la fortuna di fare il genere più bello e più importante nel nostro Paese, la commedia. Non cambierei nulla del mio percorso e rifarei le stesse scelte ma da noi si tende a distinguere l’attore da commedia, quello da teatro o quello da fiction. In teatro, qualcuno mi ha anche rimproverato di portare solo storie che fanno piangere ma non è una scelta consapevole: forse in teatro porto cose che di là faccio di meno, sopperisco a una mancanza. Non so quanto sia razionale ma cerco la possibilità di cimentarmi anche in altro. Forse è anche per questo che ho amato così tanto Circeo.
Per Cops, serie tv di Luca Miniero, hai recitato nei panni del poliziotto gay che si auto-discriminava senza che nessuno lo etichettasse per davvero. Come sei riuscito a non cadere nel cliché dell’attore eterosessuale che interpreta un omosessuale?
Era un’idea divertente che ricorreva a una soluzione interessante proprio per combattere i cliché. Quando si interpreta un personaggio lontano da sé, occorre semplicemente non pensare ai cliché: è il modo migliore per evitarli. Con Luca Miniero, regista davvero intelligente, ci siamo proposti di fare un certo tipo di lavoro: volevamo un bruto di provincia che nascondesse un animo meraviglioso e che facesse la drag queen. Restituisce bene il pensiero per cui la sessualità non ha un’estetica.
Non ci sono state critiche? Va di moda asserire che un determinato tipo di personaggi deve essere interpretato da un determinato tipo di attore.
Se aiutasse in chiave inclusione, smetterei da domani di interpretare personaggi diversi da me. Ma non aiuterebbe. Reputo certe discussioni follia: sarebbe ad esempio follia cancellare anni di storia del cinema e di interpretazioni fantastiche solo perché oggi è cambiata la sensibilità su certi temi, penso ad esempio a quella di Ugo Tognazzi in Il vizietto. Tra l’altro, non credo che lasciando il ruolo a un attore veramente omosessuale si faccia del bene alla stessa community lgbtqia+: non sono queste le lotte da portare avanti ma quelle contro i cliché.
La discussione pubblica deve vertere su altro, sul come ad esempio evitare ripercussioni a chi non può viversi la propria sessualità liberamente. E lo dico da persona dalla mentalità straordinariamente aperta: sono cresciuto in una famiglia di artisti e ho avuto omosessuali intorno tutta la vita. Non esiste distinzione alcuna ma ricordiamoci sempre che l’unico limite da prendere in considerazione nel mio mestiere riguarda la capacità e la credibilità del calarsi nei panni dell’altro. Posso riconoscere che un collega è più bravo di me in un ruolo ma non in base al suo orientamento sessuale: non è onesto intellettualmente.
È stato facile girare sui tacchi?
Eh, no: erano tacchi da 16 cm! Ho fatto il figo per le prime due ore di set, anche perché c’era un clima incredibile con colleghi di cui ho grandissima stima: Claudio Bisio, Francesco Mandelli, Giulia Bevilacqua, Gaia Messerklinger, Pietro Sermonti, Dino Abbrescia… Ma il giorno dopo i miei piedi avevano una circonferenza che era il doppio di quella normale: mi veniva da piangere, altro che camminarci ancora. Quindi, grande solidarietà nei confronti di chi porta quei tacchi!
Chiudere quell’esperienza è stato un piccolo dispiacere. Il bello è però che noi attori siamo rimasti molto legati anche dopo. Con Giulia, ad esempio, abbiamo girato insieme un film indipendentissimo diretto da mio padre… è un attrice sublime che questo Paese non ha capito ancora fino in fondo, un mostro di bravura…
Oltre che attore, sei anche regista, un lavoro di cui difficilmente ti chiedono. Qual è l’urgenza che ti porta a voler raccontare una storia?
Ciò che ho diretto racconta quasi sempre di temi che vengono da persone vicino a me. Ogni volta che ricevo un racconto, mi viene in mente un’astrazione o un modo diverso di raccontarlo che non scivoli nella pornografia del voyeurismo. Mi piacerebbe poterlo fare con la poesia o con la pittura ma non sono capace né di comporre poesie né di dipingere e, quindi, lo faccio con le immagini.
Che rapporto hai oggi con la morte? Anche quello è un racconto che ha interessato persone a te vicino e che, come tema, torna anche in Circeo.
C’è stato un evento specifico nella mia vita che ha dato alla morte un senso completamento diverso. Non l’avevo mai conosciuta fisicamente fino a un anno fa, quando l’ho incontrata su una persona che ho molto amato e si è rivelata uno shock. Ha cambiato per sempre la mia visione: per la prima volta, ho visto cos’è fisicamente: la paura astratta della perdita di tutto ciò che è per me vitale si è trasformata in qualcosa di molto più concreto ed esteticamente riconoscibile. E per tale ragione per me è diventato un dovere vivere la vita che desidero.
Ci salutiamo con la più difficile delle domande: ti vuoi bene, Guglielmo?
Vorrei volermi bene. Bisognerebbe parlarne con i vari psicoterapeuti che ho mandato dallo psicoterapeuta ma credo che alla base ci sia uno strano ragionamento: se non soffro, non riesco a tirare fuori il meglio di me. La compagna di mio padre, che mi conosce da quando sono ragazzino, mi chiama “il piccolo Goethe”. Ho sempre avuto questo mio lato romantico, da sturm und drang, che si mischia il mio guevarismo: sto male quando realizzo la quantità di ingiustizia che c’è nel mondo anche nelle piccole cose di tutti i giorni.
Non riesco a pensare solo a me stesso o a vedere ciò che amo andare nella direzione in cui vorrei andassero per tutti. Spesso finisco anche con l’auto-sabotarmi e con il vivere una certa polarità tra il me in scena e il me fuori dalle scene. Mia madre sostiene di non avere paura per me in palcoscenico ma di averla per il me fuori da esso. Forse è solo sul palco che mi voglio bene e mi faccio un grande bene: ho avuto rispetto ad altri la fortuna di capire molto presto cosa volessi dalla vita, nonostante i miei genitori mi abbiano anche spinto a valutare altre opzioni.