Holiday è il nuovo film di Edoardo Gabbriellini, che arriva in sala come evento speciale il 23, 24 e 25 ottobre, distribuito da Europictures. Una produzione Vision Distribution e Cinemaundici in collaborazione con The Apartment Pictures (società del gruppo Fremantle) e Frenesy Film, Holiday è un film prodotto da Olivia Musini con Lorenzo Mieli e Luca Guadagnino.
Protagonista della storia è la giovane esordiente Margherita Corradi nei panni di Veronica, una ragazza che sta per compiere vent’anni quando esce dal carcere. A portarla tra le sbarre era l’accusa di aver ucciso la madre (Alice Arcuri) e il suo amante nella vasca idromassaggio dell’hotel di famiglia, quell’Holiday che dà il titolo al film e che si affaccia sul mare. Il lungo processo che ha visto un pubblico ministero (Flavio Furno) passare al setaccio la vita di Veronica si è concluso proclamando l’innocenza della ragazza e sollevando il polverone di quella macchina mediatica, dalle televisioni ai singoli armati di smartphone, sempre pronta a sbattere il mostro in prima pagina.
Ad attendere Veronica c’è il padre (Alessandro Tedeschi) ma, soprattutto, la sua più cara amica, Giada (Giorgia Frank). Mentre il racconto di ciò che è avvenuto si intreccia, mischia e definisce il presente, Veronica tenta di riappropriarsi della sua identità e di vivere quello che per ogni ragazza della sua età è un momento di formazione cruciale: la sua prima volta.
È interessante notare come Holiday, sceneggiato da Edoardo Gabbriellini con Carlo Salsa, sia un film che mischia i generi per portarci su temi e discussioni di urgenza contemporanea. Con sguardo lucido, parte come un thriller alla ricerca del colpevole e si trasforma nel coming of age di una ragazza che, vittima anche dei limiti e delle aspettative sociali, cerca se stessa con l’aiuto della sua più cara amica. A un certo punto della storia, non interessa più chi abbia ucciso la madre di Veronica: veniamo rapiti dal mondo dell’adolescente, dalle sue percezioni, dalle sue sensazioni e dalla sua vulnerabilità. E quello che ne viene fuori è il ritratto di una generazione, la cosiddetta Z, che fatica a trovarsi e a identificarsi in un universo che la generazione dei genitori non è stato in grado di “apparecchiare” in maniera corretta.
Delle suggestioni e delle intenzioni legate al film Holiday abbiamo parlato direttamente con il regista Edoardo Gabbriellini, al suo terzo lungometraggio, arrivato a distanza di ben undici anni dal precedente Padroni di casa (“La verità è che sono pigro”, ci dice scherzando). Nel frattempo, per lui che aveva esordito nel 2003 dietro la macchina da presa con B.B. e il cormorano, c’è stata la regia di serie tv come Dov’è Mario? o In treatment 3, compresa quella della seconda unità di un prodotto cult come We Are Who We Are di Luca Guadagnino.
Ma, chiacchierando di generazioni e di giovani, è impossibile rimanere lontani da quell’Ovosodo che nel 1997 ha lanciato la carriera di Edoardo Gabbriellini con il personaggio di Pietro, che gli è valso la vittoria del Premio Pasinetti come miglior attore al Festival di Venezia.
Intervista esclusiva a Edoardo Gabbriellini
Da quale esigenza nasce un film come Holiday?
Per quel che mi riguarda, è sempre l’esigenza del cinema di per sé. Posso dirti che quello che ha cominciato a muoversi dentro di me, avendo anche un figlio più piccolo dele protagoniste che ho raccontato nel film: l’osservazione del mondo dei ragazzi di oggi. Nello specifico, l’idea nasce dall’aver visto la foto su un giornale online di una ragazzina nel cortile di un carcere.
Come accade oggi, ho scrollato senza particolarmente approfondire la notizia ma lo sguardo di quella ragazza mi è rimasto addosso. Ho sentito una particolare empatia: non conoscevo il motivo per cui era in carcere, non sapevo se fosse ritenuta innocente o colpevole e non avevo idea se l’articolo lo raccontasse… però, mi son chiesto si potesse essere davvero colpevoli a quell’età.
Da quella macro domanda, si è aperto un vaso di Pandora che ha fatto fuoriuscire un’altra serie di domande che sono diventate le fondamenta su cui oggi si poggia il film. Partendo dalla cornice del thriller, che man mano non interessa quasi più, ho cercato di ricostruire la serie di elementi antropologici e sociologici che ha intorno, elementi che non dico che la giustificano ma che in qualche modo mi auguro facciano sospendere il giudizio morale sulla protagonista.
Arrivando a un finale che, non spoilerandolo, porta lo spettatore a chiedersi chi abbia materialmente commesso il delitto.
Partecipando al Q&A che segue le proiezioni al Toronto Film Festival, dove il film è stato presentato, un paio di domande del pubblico mi hanno chiesto ad esempio se Veronica non stesse difendendo il padre. Era un aspetto su cui non avevo mai pensato: mi piace che ci siano una o più interpretazioni delle mie stesse intenzioni. È segno che la sospensione è tale che lascia un’apertura ancora più ampia dello spazio che pensavo di aver lasciato: è il bello del cinema. Anch’io da spettatore, amo il cinema quando mi dà la possibilità di far ricorso alla mia esperienza di vita per tradurre e riempire alcuni spazi vuoti o provare a illuminare qualche zona d’ombra.
Al Festival di Toronto eri stato in passato come attore per il film Io sono l’amore. Come hai vissuto ora l’esperienza da regista di fronte a un pubblico che ha un gusto diverso rispetto al nostro?
Credo di poter rispondere a nome di tutti: è una goduria per un autore di qualsiasi film, forma d’arte ed espressione, far vedere per la prima volta la propria creatura fuori da casa propria a un pubblico che, pur non essendo tanto culturalmente lontano dal tuo, è per forza di cose diverso o alieno da te. Da una parte, c’è del timore in più ma, dall’altra parte, c’è maggiore eccitazione. Sono andato a Toronto accompagnato da Margherita Corradi, la giovane che interpreta Veronica, ed è stato emozionante: era per lei la prima volta che stava davanti a una macchina da presa… peraltro, fino a un anno fa non pensava nemmeno di fare l’attrice. Vedere anche attraverso gli occhi di lei quello stupore, quella sorpresa e quell’eccitazione, ha rinfrescato e rinnovato la bellezza dell’esperienza attorno.
Cosa ti ha colpito di Margherita Corradi e Giorgia Frank, esordienti, per affidare a loro i ruoli di Veronica e Giada? Immagino che in fase di scrittura, ti sia fatto un’idea precisa dei due personaggi.
Assolutamente, sì. Ma poi ti scontri con la realtà, con la voce e con i corpi veri che inequivocabilmente portano quelli immaginati a cambiare e adeguarsi: è il lato bello di farsi stupire dalla realtà. Con Davide Zurolo, splendido direttore di casting, abbiamo affrontato un lungo street casting sul territorio ligure, nello specifico a Genova. Durante le presentazioni, c’è sempre qualcuno che ti acchiappa come una calamita, con cui si crea antipatia o verso cui si nasce antipatia, e che ti fa drizzare le antenne.
Margherita Corradi, alla cui presentazione non avevo assistito, mi ha colpito sin da subito: l’empatia è stata tale che, quando l’ho vista in fase di selezione, ho detto subito di chiamare lei ma… ha risposto che doveva tornare a Bologna per studiare e che si era divertita a immaginare ciò che avrebbe potuto essere. Ma non sempre in amore vince chi fugge… Capivo la sua ritrosia: il cinema non ha oggi la stessa allure che aveva quando ho esordito io come attore, ahimè, molti anni fa, tutto è cambiato e non c’è più la stessa impertinenza o inconsapevolezza doverosa.
Non mi sono però arreso: dopo averla convinta ad accettare, le ho chiesto (rischio di sembrare uno stalker o un vecchio pervertito nel dirlo) se potevo dare un’occhiata al suo profilo Instagram. Ho notato lì delle foto con alcune sue amiche e le ho chiesto di venire a fare un altro provino portandole con sé. Ed è in questo modo che ho trovato Giorgia Frank, che nella vita reale è una cara amica di Margherita.
Sentivo che, oltre alla verità di una giovane che non era abituata a stare davanti alla macchina da presa, per la storia potesse essere un’arma vincente portare sullo schermo la verità di un’amicizia vera. Il loro modo di guardarsi, toccarsi e scambiarsi la sigaretta di continuo, è qualcosa Margherita e Giorgia hanno regalato a me e al film senza che fosse prevista in sceneggiatura: sono frutto di gesti naturali che restituiscono l’impressione di quanto intimo sia il rapporto tra le protagoniste.
Sono dell’idea che i film si costruiscono non solo sulla carta ma anche direttamente sul set. Credo che sia abbastanza naturale: sul set, devi sempre stare attento perché a un certo punto il film comincia a parlare da solo, ad acquistare una propria identità a cui devi cercare di aderire.
Identità è una parola chiave per Holiday, a tutti gli effetti un film di formazione. E l’identità si costruisce anche attraverso la propria sessualità. Il delitto di cui è accusata Veronica si verifica in concomitanza con quella che avrebbe dovuto essere la sua prima volta.
Quelli di Veronica sono gli anni in cui, anche forzando la mano, si cerca di creare e capire la propria identità e il proprio posto nel mondo: chi siamo, dove siamo, come ci stiamo, cosa ci piace o no. Ma nel farlo siamo continuamente agiti da questioni esterne. Oggi, a mio avviso (non voglio puntare il dito, non è questo il messaggio del film), siamo continuamente agiti da canoni di bellezza e di comportamento che vengono continuamente aggiornati e ribaltati. E, se in quel preciso momento, non si rientra in quei canoni, si è in qualche modo degli outsider, un termine che non sempre ha un’accezione positiva o cool.
Holiday parla anche di questo: Veronica prova con tutte le sue forze a costruire una propria identità. Un’identità che passa anche attraverso la propria sessualità: è in quel momento che imponi il tuo io all’altro, entrandoci in relazione. Il sesso è la relazione all’apice: interagisci con l’altro nella maniera più intima, sotto tutti i punti di vista, e profonda, anche quando non è guidato dall’amore.
Holiday inoltre presenta uno squarcio delle relazioni tra i giovani di oggi e i loro genitori. Dietro Veronica c’è una realtà genitoriale che fa venire la pelle d’oca, al di là di ogni moralistico giudizio: ci sono una madre priva di spirito materno e un padre mosso da un amore paterno che non sappiamo mai se sia tale o meno. Perché questa spietatezza nei confronti degli adulti?
Come mi ha fatto notare qualcun altro, probabilmente c’è un rimprovero abbastanza inconsapevole nei confronti della mia generazione. Ritengo che la mia generazione abbia complicato un po’ le cose apparecchiando un mondo difficile da decodificare per i ragazzi di oggi. Appartengo a una generazione che fa fatica ad accettare l’idea di diventare adulta. I due genitori di Veronica incarnano tale spirito. Tra i due, il padre formalmente è quello che fa il dolce e carino ed empatizza con la figlia ma ci sono dei dettagli che lasciano trasparire come in realtà non ha la capacità di vedere oltre sé. Sono due genitori che in qualche modo compatisco perché compatisco la mia generazione: alla fine, mi sembrano dei poveri cristi disgraziati, inadeguati al ruolo che rivestono.
È stato facile spiegare tale inadeguatezza ad Alessandro Tedeschi, che interpreta il padre, che padre nella vita lo è realmente (è il compagno dell’attrice Barbara Ronchi, ndr)?
Non è facile da spiegare quando di fronte hai comunque un padre di due bambini ancora molto piccoli. Alessandro non è ancora entrato in quella fase in cui il confronto con i figli è più vicino e il rapporto tra genitori e figli è qualcosa che cambia in relazione all’età dei figli e delle loro fasi di crescita. Quando si portano i figli allo scivolo, non c’è alcun confronto con te genitore, non c’è nessuna forma di competitività: è tremendo usare questo termine pensando alla genitorialità ma esiste… più il figlio cresce e ti assomiglia più lo specchio restituisce un’immagine simile e meno distorta: è allora che capisci di non essere più tu il centro di tutto, che cambiano le prerogative e che cambiano le prospettive.
Certo, stiamo speculando su argomenti difficili ma ricordiamoci comunque che la vita è meravigliosa, perché altrimenti rischiamo di sembrare dei boomer attempati (ride, ndr).
Holiday è un film che mette in evidenza anche come i mass media oggi vivano nell’ossessione del mostro da sbattere in prima pagina. Televisioni, internet e fake news riscrivono il presente con la loro realtà mediata.
Era inevitabile non raccontare tale realtà quando oggi si presenta una storia come quella di una ragazza accusata di aver ucciso la propria madre. Nel mettere in scena l’arena in cui si svolge un fatto del genere, non puoi prescindere da ciò che comporta, dalle fake news alla tiktoker che speculano sulla vicenda per qualche like in più.
Non c’è alcun reale interesse dietro certe speculazioni se non sciacallaggio superficiale, lo stesso che un tempo si sarebbe fatto in qualche bar o salotto parlando di chissà chi o che cosa. Si è solo ampliata la potenza di fuoco: non c’è più solo il gruppetto a puntare il dito ma molti altri, una deriva pericolosissima che può portare alla deformazione stessa della realtà. Ma anche della propria identità, che si cerca di adeguare ai modelli proposti, spesso performanti e vincenti.
Da attore, sei stato il simbolo di una generazione per un film che credo continui, benevolmente, a perseguitarti: Ovosodo. Quanto sono cambiate le generazioni dei giovani da allora?
Molto. In qualche modo, ce lo siamo anche detti nel corso di quest’intervista. Quel film finiva ad esempio con l’ambizione del posto fisso che si concretizzava: Pietro, il mio personaggio, entrava in fabbrica, si sposava ed era diventato padre… una prospettiva che dai ragazzi di oggi sarebbe ritenuta devastante. L’arrivo forsennato di internet con tutto quello che ha portato, non ultimi i social, ha rappresentato un cambiamento epocale. E la mia generazione è rimasta fregata: si è ritrovata a non avere gli strumenti per destreggiarsi e manovrare quel tipo di roba.