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I 43.Nove: “Via da schemi e da certezze” – Intervista esclusiva

43.nove ho perso di vista me
Ho perso di vista me non è solo il titolo del nuovo album dei 43.Nove ma è anche una frase a cui Cristiano Giannecchini, frontman della band, può affidare il racconto della sua giovane esistenza, tra paura di crescita e metamorfosi. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.
Nell'articolo:

Ho perso di vista me (Teide Dischi – Ada Music) è il primo album dei 43.Nove, giovane band considerata tra le più interessanti dalla critica degli ultimi tempi (non è un caso che abbiano aperto i concerti di Blanco e Chiello). Composti da tre ragazzi come tanti altri (Cristiano Giannecchini, Francesco Di Martino e Filippo Taccola), i 43.Nove raccontano nelle nove tracce di Ho perso di vista me l’arrivo sulla Terra di un viaggiatore proveniente da un mondo lontano alla scoperta delle emozioni umane.

Il viaggio diventa dunque metafora della scoperta verso se stessi, del perdersi e del ritrovarsi, un’esperienza vissuta ad esempio in prima persona dal frontman dei 43.Nove Cristiano Giannecchini, come ci racconta lui stesso in questa intervista in esclusiva. Cristiano non ha paura nel dire “ho perso di vista me” e nel ricostruire la genesi dei 43.Nove, il cui nome ad esempio si deve al parallelo che passava sulla casa in cui ha cominciato a comporre musica insieme all’amico Elia Fulceri, oggi non più parte della band.

Se la scoperta piena di Ho perso di vista me può avvenire ascoltando l’album, magari con in mano un libro di Bukowski, la scoperta di chi sono i 43.Nove passa attraverso la voce di Cristiano e del suo essere un giovane della Gen Z, che ha paura di crescere e che solo di recente ha realizzato come ad esempio è stato segnato da episodi di bullismo che, quando li ha vissuti, non ha nemmeno percepiti come tali.

I 43.Nove.
I 43.Nove.

Intervista esclusiva a Cristiano Giannecchini dei 43.Nove

Ci spieghi l’origine del nome della band, 43.Nove?

Il nome è frutto dell’idea di… nessun componente del gruppo! Risale ai primi giorni in cui avevamo, appena usciti dal lockdown, deciso di cominciare a suonare dal vivo che le canzoni che avevamo scritto dentro la nostra stanzetta. Era l’inizio dell’estate, eravamo alla ricerca di un nome e un nostro amico ci ha suggerito di usare il parallelo 43.9 che passa dalla casa in cui ci trovavamo tutti. È quindi una sequenza di numeri ma per noi ha un significato molto romantico: richiama il luogo in cui abbiamo composto le nostre prime canzoni.

Tra le righe, emerge che siete un po’ anche figli del CoVid…

Lo siamo, assolutamente. Ci ha aiutato soprattutto a fermare il tempo e a concentrarci su quello che prima del lockdown io ed Elia, con cui sono nati i 43.Nove, avevamo cominciato a fare. Prima della pandemia, Elia viveva a Londra, dove si era trasferito per studiare. Ci beccavamo ogni volta che tornava, insieme abbiamo scritto le prime canzoni in inglese ma il lockdown lo ha costretto a rimanere qui.

Per via delle restrizioni, ci incontravamo nella casetta dietro casa sua ed è maturata in quel frangente la decisione di scrivere in italiano, di tirare fuori le nostre idee e di renderle comprensibili a tutti. Abbiamo anche scritto una canzone che è poi finita nell’album appena uscito, Storia di un uomo: è la prima che abbiamo composto e che ha dato il via a tutto. Abbiamo dopo a cominciare live: era il nostro sogno sin da quando eravamo ragazzini.

Tuttavia, per me i componenti dei 43.Nove sono Cristiano, Francesco e Filippo. Non c’è nessun Elia.

I 43.Nove si sono poi evoluti e hanno cambiato varie forme nei loro due anni di esistenza. Elia è stato il fondatore insieme a me, suonava il pianoforte e la chitarra ma la sua crescita personale lo ha portato a scegliere un percorso differente: si è innamorato del jazz e ha intrapreso il percorso di studi al Siena Jazz. Oggi la formazione si è aperta anche a Laura Cosimini, una chitarrista fortissima con cui stiamo andando in giro a suonare.

Quindi, nessuna rottura con Elia: non se n’è andato sbattendo la porta.

Assolutamente no. Fare musica con qualcuno significa raggiungere un certo livello di intimità non facile da descrivere. Con Elia, c’è quindi un rapporto talmente profondo che qualsiasi cosa succeda non potrà mai mandarlo in malora. Credo molto nell’amicizia, è una delle poche cose che la provincia ti può dare in più rispetto al vivere in città. La provincia ti dà quando sei più piccolo gli strumenti per creare amicizie forti che servono anche a proteggerti dall’esterno: si creano come delle bolle che permettono di non sentirsi da soli.

Tu sei cresciuto in una zona particolarmente nota, Viareggio, che tutti conosciamo fosse anche solo per il Carnevale.

È una cittadina che vive momenti d’apice durante il Carnevale e altri in cui si viene riportati in un’altra dimensione molto malinconica in inverno. Sono convinto che ognuno di noi sia lo specchio del posto da cui proviene, degli ambienti che lo circondano e delle persone che lo attorniano. Ecco perché anche noi siamo un po’ malinconici: si avverte in alcune canzoni più che in altre, dove invece a emergere è la voglia di ballare, di fare un po’ di rumore e, quindi, di festa.

Sembri molto più grande dei tuoi 23 anni.

Non so se ringraziarti oppure no. Quando lo scorso anno, ho cominciato a prenderne consapevolezza, sono andato in crisi: mi sono sempre sentito un bambino ma mi sono accorto che stavo crescendo, cominciando a temere di perdere quella fantasia, sensibilità, istinto e creatività che mi contraddistinguevano. Non riuscivo nemmeno a gestire la scrittura e i momenti di vuoto creativo mi portavano a credere di non essere più in grado di farlo. L’ho vissuta parecchio male.

Dall’altro lato, però, mi rendo conto che è quello che emerge anche dalle canzoni. A album finito, in un ufficio una persona mi ha recentemente detto che sembra che abbia vissuto più vite in una.

Ho perso di vista me, l’album dei 43.Nove, è composto da nove tracce molto variegate come loro. Come sono nate?

L’album è una raccolta di canzoni nate negli ultimi due anni, dietro cui si nasconde un particolare viaggio. Mi sono immaginato un viaggiatore che viene da un pianeta lontano o da un satellite e che ha voglia di conoscere la Terra e gli esseri umani. Il viaggiatore ha la peculiarità guardando negli occhi una persona e toccandole una mano di apprenderne completamente la sua vita.

Appena arrivato, incontra un bambino (in Immagini e Capita alle volte); dopo un vecchio scrittore che gli fa vedere la sua camera, gli mostra la finestra da cui trae ispirazione e lo porta a correre in una spiaggia all’alba (in Storia di un uomo); e infine una ragazza che lo farà innamorare ma che a un certo punto deve lasciare per continuare la sua ricerca (in America), realizzando quanto sia doloroso bramare di sapere e allo stesso tempo provare le emozioni degli esseri umani.

Ed Essere umani è anche il titolo dell’ultimo brano, quello in cui, saturo delle esperienze, il viaggiatore decide di tornare da dove è venuto: la canzone ha un ritornello che è un po’ un’ammenda.

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L’album si apre con un’intro che invita a essere liberi da schemi e da certezze. Cosa sono schemi e certezze per un ragazzo della tua età? Più un vincolo o un vantaggio?

Un vincolo. Siamo pieni di preconcetti e schemi mentali che ci sono stati insegnati e tramandati negli anni. Ce li spiegano come naturali e millenari ma in realtà sono gioghi psicologici che ci sono trasmessi quasi geneticamente. Nasciamo sapendo che dobbiamo circondarci di persone, trovare una ragazza, farci una famiglia e raggiungere una certa stabilità: non è un’educazione tesa alla diversità ma al rimanere nella propria area di mondo, tranquilli e con regole scritte e non scritte che ti bloccheranno per sempre.

È qualcosa che sento molto. E che ho percepito soprattutto durante gli anni delle superiori: è stato allora che mi sono accorto che non volevo seguire questi schemi e preconcetti.

Che anni sono stati quelli dell’adolescenza?

Solo l’anno scorso ho realizzato di essere stato anche un po’ bullizzato, ragione che mi ha spinto alle superiori a comportarmi in un certo modo e a circondarmi di persone completamente diverse da me solo perché non erano sfigate come me. Nella mia logica, avrebbero potuto aiutarmi a non esserlo… e invece in quel momento ho annullato me stesso per essere un altro che non ero.

Spesso il bullismo non lo si realizza mentre lo si vive. Ricordi qualche atteggiamento ai tuoi danni?

Sono stato ad esempio appeso per le gambe, mi tenevano per i piedi sospeso nel vuoto delle scale. È qualcosa che avevo rimosso ma che è tornata alla mia mente proprio un anno fa. Lì per lì, pensavo che gli aguzzini fossero amici e che quel gesto fosse frutto della goliardia, uno scherzo. Mi ha salvato forse il non mostrarmi debole e il non dire di avere avuto paura.

I 43.Nove.
I 43.Nove.

Stando con chi era “lontano” da te hai finito con il perdere di vista te stesso. Cos’era che ti mancava maggiormente?

Proprio la musica, avevo abbandonato anche quella. Per un anno intero non ho ascoltato nemmeno una canzone, eppure suonavo da quando ero piccolino. Ho abbandonato tutto, pensavo solo al dover apparire uguale agli altri. Li studiavo anche: mi sedevo con loro al tavolo di un bar, anche in seconda fila, e li osservavo in silenzio, guardavo quello che accadeva e come reagivano alle persone che vedevano in piazza… cose anche un po’ squallide.

Quando è arrivato lo switch, il momento che hai capito che dove riprenderti te stesso e tornare anche nella musica?

Grazie a un viaggio a New York. Mi ci ha portato mia zia ed è stato il primo viaggio della mia vita, non ero mai uscito di casa. C’erano anche mia sorella e mio zio ed è stata un’esperienza assurda che mi ha aperto molto la mente. Al ritorno, mi sono appassionato alla letteratura inglese e agli scrittori della beat generation: Bukowski mi ha folgorato, ad esempio, spingendomi a voler ritrovare la mia dimensione, quella versione originale di Cristiano che si era persa, più vera e sincera. Ma ascoltavo anche tanto Bob Dylan. È partito da lì lo switch e mi ha spinto a suonare nuovamente, con Elia prima e i 43.Nove dopo.

Non mi sono mai appassionato però agli autori contemporanei. Forse perché con la testa ho sempre vissuto in un’altra epoca. Sarei voluto nascere negli anni Settanta, mi piace la dimensione dei figli dei fiori: la trovo molto bella, anche dal punto di vista dei colori.

Hai paura del successo?

La verità? Non ci ho nemmeno pensato. Walter, il nostro produttore, ci ha educato che più che al successo effimero di un singolo occorre pensare al voler essere un musicista per più tempo possibile nella vita. E quindi a costruirsi una carriera che sia credibile.

In America si parla anche di promesse non mantenute. Qual è la promessa che non hai ancora mantenuto?

Devo accettare di non essere più quello di 17 anni, il ragazzo che non aveva uno smartphone senza Instagram, che non guardava Youtube, che leggeva dalla mattina alla sera, che suonava e basta e che aveva il cervello talmente caldo da emozionarsi su qualcosa per poi trasferirla in musica. Non riesco più oggi a far le cose che facevo prima: è forse questa la promessa non mantenuta che maggiormente mi rode.

I 43.Nove hanno cominciato a portare in giro la loro musica. Cosa vi lascia il contatto con il pubblico?

È strana come sensazione. Quando abbiamo cominciato a suonare qua, non abbiamo subito avuto una risposta bellissima da parte delle persone che venivano a sentirci. Oggi invece il pubblico canta le nostre canzoni. A 600 mila follower su Instagram preferisco di gran lunga avere centinaia di persone che vengono ai nostri live!

I 43.Nove Live

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