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I racconti del mare: L’avventura di due ragazzi, oltre ogni pregiudizio – Intervista al regista Luca Severi

i racconti del mare film
Luca Severi, regista e produttore del film I racconti del mare, ci racconta la grande avventura di due giovani provenienti da mondi opposti, bloccati su una barca nel Mediterraneo. Tra temi attuali come l'immigrazione e il pregiudizio, il film sceglie la strada della commedia surreale per affrontare con originalità e profondità queste delicate questioni.
Nell'articolo:

"I racconti del mare parla di una grande avventura," afferma senza esitazione il regista Luca Severi quando gli si chiede di definire la storia di Tonino e Ima, i due giovani protagonisti del suo ultimo film, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella Città. E non ha torto a definirlo come tale: è un'avventura surreale che si svolge su una piccola barca nel Mediterraneo, tra due adolescenti provenienti da mondi completamente diversi, tanto figurativamente quanto letteralmente.

Da una parte, c’è Tonino, un giovane pugliese che, interpretato dal sempre più talentuoso Luka Zunic, cerca di dimostrare il proprio valore alla sua famiglia attraverso la pesca; dall’altra, invece, c’è Ima, un giovane migrante con il volto del sorprendente Khadim Faye che fugge verso l’Italia dopo un naufragio.

I racconti del mare è dunque un film che affronta temi attuali come l'immigrazione e il pregiudizi ma, lo fa attraverso una lente inusuale: quella della commedia surreale. Luca Severi ci spiega che la scelta di questo registro nasce dal desiderio di sfidare gli approcci più convenzionali al tema, evitando un dramma prevedibile e optando invece per un genere che suscita risate, ma anche riflessione. "Ridere di ciò che ci fa piangere senza ridicolizzare", dice il regista, che vede nel cinema un mezzo per mettere in discussione modelli esistenti.

Nel film troviamo un cast interessante e variegato: Luka Zunic e Khadi, come accennavamo, ne sono protagonisti. Entrambi incarnano perfettamente lo spirito che muove i loro personaggi, coadiuvati da attori esperti come Lidia Vitale, Geno Diana e Paola Sotgiu, che danno vita ai membri della famiglia di Tonino.

I racconti del mare si colloca nel solco del cinema indie, una realtà che Luca Severi ha abbracciato con convinzione dopo le sue esperienze internazionali, in particolare a Los Angeles. Il film è stato girato in condizioni difficili, in mare aperto, una scelta produttiva coraggiosa che, come sottolinea il regista, ha contribuito a dare autenticità all'opera. Questo lavoro fa parte di una più ampia strategia di Luca Severi per rendere il cinema indie italiano più sostenibile e accessibile, dimostrando come sia possibile realizzare film di qualità anche con risorse limitate.

Luca Severi, regista del film I racconti del mare.
Luca Severi, regista del film I racconti del mare.

Intervista esclusiva a Luca Severi

I racconti del mare parla di una grande avventura”, risponde senza esitare Luca Severi quando gli si chiede come definire la storia dei giovani Tonino e Ima, presentata in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. “Una grande avventura vissuta da due ragazzi più o meno coetanei che provengono, in maniera sia figurativa sia letterale, da due mondi diametralmente opposti”.

Chi sono questi due ragazzi?

Tonino è un ragazzo pugliese ed è un po’ la pecora nera di una famiglia molto umile, maschia e patriarcale. È un giovane contemporaneo, frequenta la scuola e spera di andare a studiare all’estero. Proviene da un piccolo paese della Puglia e, come tutti i ragazzi del Meridione della sua età, ha l’ambizione di allontanarsi da quel contesto fatto di agricoltura, pesca e manovalanza nell’industria. Una bravata commessa fa sì che poi si perda in mezzo al mare.

Ima ha ambizioni simili alle sue ma proviene da una realtà molto più drammatica, da una nazione che ci siamo inventati (il Mugamba) e che abbiamo immaginato come alcuni Paesi dell’ex Jugoslavia o l’Albania negli anni Novanta, ovvero stati che avevano grandissimi rapporti commerciali e culturali con l’Italia fino a quando le dittature non hanno bloccato tutto fissando nella mente degli abitanti un immaginario italiano che non esiste più o del tutto fuori tempo. Ima ha cercato di scappare insieme alla sua famiglia ma è rimasto vittima di un naufragio, da cui scaturisce l’incontro con Tonino e l’inizio della loro avventura insieme.

Scegli l’avventura per raccontare una serie di temi importanti, a cominciare dall’immigrazione.

Ho sempre detto che I racconti del mare è un film sui migranti, una commedia surreale il cui punto di partenza è un tema che mi ha ossessionato per diversi anni e che drammaticamente continua a farlo per tutto quello che si sta vivendo nel Mediterraneo.

Perché hai scelto i toni della commedia surreale per farlo?

Credo che il cinema debba avere un approccio critico nel senso etimologico del termine: deve ovvero mettere in crisi o in discussione dei modelli esistenti. Raccontare i migranti attraverso il dramma sarebbe stata la cosa più ovvia da fare: ho invece sentito l’esigenza di sfidare il tema e me stesso scegliendo un genere diverso, la commedia.

Ma ci sono anche altre ragioni che sottendono tale decisione: ho finora realizzato film molto lontani dalla commedia all’italiana con quei suoi toni amari grazie a cui il pubblico ride e si commuove laddove i protagonisti invece non lo fanno. Volevo dunque avvicinarmi a quei grandi maestri che hanno fatto grande la nostra tradizione: io stesso ho cominciato a fare cinema con Dino de Laurentis e ricordo ancora i suoi racconti su come è nato e si sono inventati il neorealismo.

E ho scelto la commedia  anche per un motivo polemico, se così possiamo definirlo: ero abbastanza stufo per non dire disgustato di vedere trattare l’argomento ‘immigrazione’ da chi se ne cura con un atteggiamento molto simile a quello di chi salva i cagnolini per poi rinchiuderli in un canile. “Mica possiamo lasciarli in mezzo al mare, dobbiamo assolutamente salvarli” per poi rinchiudere gli stessi migranti salvati in centri di accoglienza, in ghetti dai quali si pretende di non farli uscire per evitare che rubino posti di lavori, vivano nei nostri quartieri e via di seguito. Trovo tale atteggiamento quasi più stucchevole di quello tenuto da chi invece serenamente vorrebbe loro sparare addosso…

Il mio obiettivo ero quello di fare anche un po’ di satira generando una risata su quello che solitamente ci fa piangere, senza ovviamente ridicolizzare la questione.

Il poster del film I racconti del mare.
Il poster del film I racconti del mare.

L’immigrazione non è il solo macrotema che affronta il tuo film.

No, il secondo grande tema è quello del pregiudizio: è umano ed è ovunque, anche in Africa. Personalmente ad esempio sono stato in un campo di volontariato in Africa tantissimi anni fa ed è stato lì che ho scoperto l’esistenza di una ninna nanna identica alla nostra dove anziché dare il bimbo all’uomo nero per un anno intero lo si dà all’uomo bianco. Ho voluto per tare ragione mettere i due protagonisti sullo stello piano spogliandoli di tutta la geopolitica che li connota per riportarli a essere semplicemente due ragazzini che, in mezzo al mare, pur avendo paura l’uno dell’altro, vivono l’avventura più grande della loro vita mentre si raccontano per ammazzare anche la noia e scoprono nella dimensione più umana possibile di avere molto in comune.

Uno dei più grandi drammi che connotano l’immigrazione purtroppo è la tremenda propaganda deumanizzante che riguarda l’argomento. Purtroppo, quando si tratta di migranti, ci si dimentica che in realtà si parla di persone, di un pezzo di mondo intero in grado di portare con sé competenze, sogni e passioni. Africa, Gaza, Siria o Iran non sono entità astratte ma Paesi abitati da gente con esigenze, necessità, bisogni ed esistenze come le nostre… personalmente, mi piacerebbe che si pensasse a ogni persona persa in mare come a una vita che viene a mancare.

Come siamo stati noi persone a inizio Novecento quando andavamo altrove e continuiamo a esserlo.

Io stesso sono stato 14 anni negli Stati Uniti ma nessuno si sogna di dirmi che sono un “migrante economico”: per tutti, sono il ragazzo che voleva fare il regista e che è finito a Hollywood per agguantare il suo sogno. E il 60% di coloro che perdono la vita in mare avevano un sogno da voler concretizzare.

Scegli di chiudere il tuo film con un finale amaro. Perché?

Pur ridendo e sorridendo parecchio, non potevo perdere di vista la realtà di chi finisce in mezzo al mare: l’happy end sarebbe stato pietistico oltre che irrealistico. È chiaro che, se perdessimo in mare un sedicenne italiano, ci sarebbe uno spiegamento di forze bestiali, ragione per cui Tonino e Ima non potevano non esser cercati o essere lasciati in mezzo all’Adriatico, un mare tra l’altro relativamente piccolo, perlustrabile e molto trafficato.  Tuttavia, Tonino e Ima vengono salvati in maniera diversa: ci rallegriamo tutti della loro salvezza ma, mentre uno torna a casa dai suoi, l’altro trova ad attenderlo un futuro più incerto. Non dimentichiamoci di cosa accade.

Luka Zunic e Luca Severi sul set del film I racconti del mare.
Luka Zunic e Luca Severi sul set del film I racconti del mare.

È un caso che entrambi i protagonisti, Luka Zunic e Khadim Faye, non siano italiani?

Per molto tempo, ho sostenuto che i due attori avrebbero dovuto essere italiani per poi rendermi conto solo dopo che nessuno dei due che ho scelto lo è. Ma è la quadratura perfetta del cerchio, a testimonianza di come oggi l’Italia sia aperta a ogni cultura: da noi transitano attori italiani, non italiani, non italiani ma cresciuti qui e provenienti di tutto il mondo… Per un film che parla di emigrazione era quindi perfetto che fosse così.

Luka e Khadim recitano in perfetto italiano e nessuno penserebbe mai che non lo siano. Forse qualche dubbio nasce su Khadim perché è nero ma è cresciuto a Verona e parla con un accento veneto migliore del mio. Luka ha il cognome croato ma se gli chiediamo da dove viene la sua risposta è Salò, parlandoci dell’Italia (giustamente) come casa sua.

Ecco perché il chiudiamo i confini o i porti è ciò che di più anacronistico c’è: spalanchiamo semmai tutto e poi provvediamo a riorganizzarci dal punto di vista amministrativo senza andare a cercare i caratteri specifici che idealizzano l’italiano. Io stesso ho trascorso più tempo all’estero che in Italia e non so più da dove provengo o dove abito!

Mare: hai girato gran parte del film in mare aperto. Quali sono state le difficoltà nel farlo?

È stata un’esperienza mostruosa, la più difficile della mia vita. Credo di avere avuto al montaggio una sorta di disordine post-traumatico da stress: nel sistemare le scene, provavo sofferenza nel ricordare e rivivere le difficoltà di quel momento. In due o tre occasioni, ad esempio, abbiamo rischiato di affondare in mezzo al mare: non saremmo morti ma avremmo perso tutto quanto. Una volta invece è affondata la barca di scena, per fortuna vicino alla riva, con tutto ciò che ha comportato.

Sebbene sia un sostenitore dell’indie, che ritengo il nuovo modo o forse l’unico percorribile per fare cinema sostenibile, il film strategicamente non doveva essere girato in mare aperto. Avevamo trovato un golfo bellissimo a Leporano, con un resort che ci ha ospitato per delle riprese che, a causa di un meteo terrificante, si sono protratte molto più a lungo del previsto… abbiamo potuto cominciare girare con continuità solo quando il clima si è aggiustato ma nel frattempo non eravamo più soli: era iniziata l’alta stagione, la spiaggia era piena di turisti e ci siamo dovuti adattare.

Non eravamo preparati per girare in mare aperto ma farlo è stata una necessità assoluta. Non ringrazierò mai abbastanza la troupe che ha lavorato in condizioni estreme e gli attori che si sono adattati a una situazione estrema quando avrebbero invece potuto chiamare i loro agenti e chiedere di tornare a casa. Ma anche la gente del posto che ci ha aiutato e supportato in vario modo. L’avventura è stata per molti versi anche nostra ed è stata così forte che la paura e l’angoscia spesso emergono ancora oggi dai racconti che vengono fuori anche quando ci ritroviamo impegnati in altri progetti o set.

I racconti del mare non è però un esperimento pazzo di un gruppo di squilibrati pirati del mare.  Ma è un pezzo di una strategia ben precisa che vuole industrializzare il cinema indie, rendendolo sostenibile e replicabile: una nuova modalità di gestire e trattare l’industria cinematografica. I modelli finora utilizzabili non sono più attuali: gli studios americani vanno incontro a certi flop, come quello attuale di Joker: Folie à deux, che ne sono la dimostrazione e il sistema europeo, basato sugli incentivi pubblici, si sta incartando su se stesso.

Cerchiamo allora risposte nelle storie da proporre, con personaggi che siano forti, identificabili e trasversali a qualsiasi latitudine. Così come il cinema indie sta già facendo.

Il set del film I racconti del mare.
Il set del film I racconti del mare.

Definisci il tuo come cinema indie. Cosa ti ha portato verso l’indie dopo aver iniziato comunque con de Laurentis?

Due diversi elementi, forse tre. Il primo, è l’avercelo avuto sotto casa quando mi sono trasferito negli Stati Uniti nel primo decennio degli anni Duemila: la mia abitazione si trovava in quartiere di Hollywood popolato da tanti giovani ed emergenti figure del cinema. Mi sono dunque ritrovato in vari collettivi che giravano film in maniera sconvolgente con attori sconosciuti e grandissimi talent insieme, a ritmi velocissimi e senza chissà quali mezzi.

Ne sono rimasto colpito: non sapevo nemmeno che esistesse la possibilità di fare quel tipo di cinema, a cui il digitale ha poi contributo a dare una spinta ulteriore contribuendo all’affermazione di nomi come Sean Baker o Chloe Zhao, gente in grado di sfornare due o tre film all’anno quando io invece da decenni sognavo ancora di fare il mio primo lungometraggio non trovando fondi. Tutto ciò mi ha dato una prospettiva nuova su un nuovo tipo di cinema dal punto di vista produttivo ma anche creativo, artistico e distributivo.

Il secondo elemento è l’aver nel frattempo lavorato con Dino De Laurentiis. Mi ha presentato ai figli Aurelio e Luigi, che mi hanno riportato in Italia a fare cinema. Così facendo, mi hanno permesso di formarmi al fianco delle migliori troupe italiane nel periodo in cui le grandi produzioni americane mancavano. Ho conosciuto così tecnici pazzeschi in grado di insegnarmi un cinema pazzesco.

Shakerando i due elementi, ho allora cercato di mettere insieme quelle competenze che assorbivo anche di riflesso con quel modello che avevo visto in America e con i soldi guadagnati girando backstage per FilmAuro ho cominciato a pensare ai primi progetti da produrre. Ho trovato così un gruppo di persone che condivideva i miei stessi pensieri, dai gemelli D’Innocenzo a Giovanni Aloi, con cui ho iniziato quel percorso che mi ha portato fino a qui.

Ognuno di noi ha poi preso la sua strada e io, nel frattempo, realizzavo come il cinema tradizionale fosse poco aperto a esplorare nuovi modelli o a supportare nuovi autori. Sono rimasto ad aspettare fino a quando non ho pensato di attrezzarmi fondando la mia casa di produzione, la LSPG, che ora ha due sedi differenti, una a Roma e una a Los Angeles.

Ma cosa ti aveva avvicinato verso il cinema spingendoti a voler raccontare?

Ho sempre avuto una fascinazione per il mondo dello spettacolo, per la televisione e per la pubblicità. In altre parole, mi è sempre piaciuto il glitter, così come lo poteva vedere e percepire un ragazzino di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, com’ero io, cresciuto in un posto in cui nessuno fa cinema, sa bene che cos’è o come si fa a campare con esso.

Ad avvicinarmi al cinema è stata mia sorella che, più grande di me, voleva fare la regista (dopo essersi iscritta al Dams ha poi intrapreso tutt’altro percorso lavorando oggi nell’organizzazione della Berlinale), anche se mia nonna materna sostiene che in realtà i geni del cinema sono da far risalire a sua mamma, grandissima appassionata che nei primi anni del Novecento usava gli spiccioli che le rimanevano per andare a vedere i film in sala.

Il mio approdo al cinema è stato però del tutto casuale, tanto che non mi sono nemmeno accorto di esserci arrivato. Finite le superiori, come ogni ragazzo di provincia sognavo la grande città, affascinato dai racconti che mio padre milanese mi faceva della sua pazzesca Milano. Sono andato allora a studiare Comunicazione alla Cattolica e ho nel frattempo cercato un lavoretto: sebbene la mia famiglia in quel momento potesse permettersi di mantenermi, desideravo avere qualche soldo in più in tasca. Il caso ha voluto che il primo lavoro rimediato fosse quello di assistente a un regista: ricordo ancora benissimo come il primo giorno di lavoro si sia accesa in me quella lampadina che mi ha spinto a voler fare per tutta la vita ciò che faceva lui.

Sono arrivati così i primi documentari diretti e tanti lavoro nel settore della moda, dove la videoproduzione in quel momento era tanta. Il desiderio di raccontare, lo storytelling, è nato in quel periodo, anche se, guardando indietro, qualche segnale c’era stato in passato: al liceo, ad esempio, per un progetto scolastico contro il fumo ero stato io ad avanzare l’ipotesi di girare un cortometraggio, così come per un compleanno di un amico avevo realizzato un video di auguri con la telecamera di famiglia.

Avevo sì una fascinazione per il mezzo ma era celata, non così manifesta. E non sono stato nemmeno un nerd del cinema: guardavo i film ma senza ossessione o chissà quale spirito critico. Così come ho avuto modo di dire a lui personalmente quando l’ho intervistato per il documentario That Click su Douglas Kirkland, Baz Luhrmann e il suo Romeo + Juliet mi hanno di sicuro portato verso il cinema ma non per il film in sé (non sono nemmeno sicuro che mi sia piaciuto) ma perché sono rimasto scioccato da quanto potente fosse il mezzo. E una volta assaggiato il cinema mi è piaciuto da morire!

Luca Severi.
Luca Severi.

Cosa ti porta però da Milano a Los Angeles a 22 anni?

Ero sicuramente un viaggiatore in quel momento: avevo una fidanzata “viaggiatrice” e con lei mi sposto in Africa, Turchia e Marocco, tendenzialmente in vacanza ma sempre accompagnato dalla telecamera. Sono poi finito a girare piccoli documentari per un’agenzia di stampa che, intuendo in quel momento l’esplosione dei contenuti video online, aveva deciso di assumermi per gettare le basi per una futura agenzia video.

Poiché tale agenzia aveva un piccolo ufficio anche a Los Angeles e io avevo già maturato l’idea di fare comunque il regista, quando il progetto in Italia non decolla, mi viene proposto di andare a Los Angeles con la speranza che il tutto possa attecchire lì. Ovviamente, per me non c’era niente di più attraente che Hollywood: i miei genitori raccontano che ero timorosissimo e dubbiosissimo ma in realtà avevo semplicemente convinto loro di esserlo… non ci avevo nemmeno pensato un secondo, i dubbi erano semmai sulla loro probabile opposizione: ero costato già troppo a Milano e non avrei dovuto gravare più di tanto. Ho quindi venduto la macchina che avevo e con i soldi ottenuti ho prenotato un appartamento oltreoceano.

Una volta partito, però, sono accadute due cose che con il tempo mi hanno fatto riflettere parecchio. L’agenzia non è riuscita a sostenere economicamente il progetto chiudendo e la mia famiglia è colpita dalla grande crisi economica del 2008. Mio padre, che lavorava nel settore dell’edilizia, non riusciva più a mantenermi ed io mi sono ritrovato a Los Angeles con il sogno di fare il regista ma senza un lavoro e senza un soldo. E credo che ciò sia stata la mia più grande fortuna: non potevo tornare indietro, mi mancavano i soldi per il biglietto e le prospettive di un lavoretto come tanti non mi allettavano, e dovevo avere la forza, le idee e la grinta per un’altra soluzione.

Certo, per un mese ho mangiato pasta in bianco e ho rischiato di finire a montare film porno, ma oggi son qui a raccontarlo.

Quando pensi che sia arrivata per la prima volta la tua grande occasione?

Il mio è stato un percorso sempre in crescita, segnato da vari momenti catartici importanti: la conoscenza con Dino de Laurentiis e i backstage con la FilmAuro (ringrazierò sempre la famiglia De Laurentiis per avermi portato al cinema, là dove io non riuscivo a entrare); il mio documentario su Alberto Burri e Piero della Francesca, trasmesso in Italia da Sky ma con una premiere a Los Angeles al Chinese Theatre, uno dei simboli del cinema mondiale...

Ma anche il mio primo film di finzione, Calypso, coprodotto da Michele Placido e Federica Vincenti, che mi hanno dato fiducia; That Click, il documentario su Kirkland che ha coinvolto mezza Hollywood e che è stato presentato al Festival di Roma; o la produzione di Il Vangelo secondo Clarence, film con cui con la mia casa di produzione siamo riusciti a posizionarci sui gradini più alti del cinema internazionale…

Michele Placido porta a Roma il suo nuovo film: Eterno visionario. È una definizione che senti tua?

Mi è stato detto e lo trovo un complimento bellissimo perché credo che tutti gli autori di cinema, registi e sceneggiatori in particolare, debbano essere visionari. In America, la vision è qualcosa che viene richiesta al regista e coincide con la forza di immaginare mondi che altri non vedono: un regista deve portare ‘oltre’. Per me, la vision è un punto di partenza e non di arrivo di chi fa il mio mestiere.

Oggi hai una residenza artistica in Puglia. Qual è il suo obiettivo?

L’obiettivo era quello di ricavare uno spazio in cui tendenzialmente tutto fosse possibile a livello artistico. Amo moltissimo la Puglia, non a caso ci ho girato un film… Ho trovato una dimensione anche energetica, spirituale, magnifica in un trullo situato in un terreno lontano da tutto e da tutti, dove grazie a Dio non prende nessuna linea telefonica e nessun cellulare e dove ho deciso di invitare tanti colleghi e amici a condividere storie, idee, performance, esperienze, vissuto e opinioni anche molto diverse, orientate al vivere un’esperienza artistica più vera e sincera possibile.

Sei sempre stato sincero con te stesso?

Sostengo da sempre di essere un bugiardo nato. Mento sempre a tutti e sono felicissimo di farlo perché posso plasmare la realtà a mio piacimento. Non a caso, faccio il cantastorie… più che mentire a me stesso, professionalmente è capitato che mi sia appassionato a qualcosa perché lusingato dal diavolo che lusinga tutti: il denaro (il nostro è un ambiente che muove un sacco di soldi, anche se piangono tutti a morto). E non è mai un bene farsi lusingare dall’aspetto economico quando si lavora con le storie e si costruisce, nel grande o nel piccolo, un pezzo di percezione della realtà.

Sei stato bugiardo in quest’intervista?

No, neanche una volta.

Quindi, sarai sincero nel dirci dove ti vedi tra dieci anni?

Ovviamente, con un Oscar in mano… battuta a parte, mi vedo proiettato sempre in una dimensione molto internazionale. Mi piacerebbe molto avere una base produttiva in Asia, un continente che conosco poco e di cui mi piacerebbe esplorare stili, modelli e storytelling, per generare nuovi ibridi interessanti e modelli produttivi che non abbiano necessariamente bisogno del tax credit per esistere. La creatività è sempre stata la chiave che ha mosso il mondo e la Storia ce lo insegna: ancor prima di inventare le armi l’uomo nella preistoria disegnava nelle caverne, a dimostrazione di come esprimersi sia quasi più importante di salvarsi.

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I racconti del mare: Le foto del film

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