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I Sospesi: “I tentativi e gli errori ci hanno portato fino a qui” – Intervista esclusiva

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I Sospesi debuttano con l’album Tentativi ed errori, un manifesto contro il fallimento e la hustle culture. Abbiamo intervistato in esclusiva il leader della band per parlare, tra le altre cose, di società performativa e stigmatizzazione dell’errore.
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Tentativi ed errori è il primo album della band lombarda I Sospesi. Il titolo scelto per il lavoro de I Sospesi mette in risalto come il disco sia il frutto di una lunga e complessa gestazione: come tanti di noi, I Sospesi appartengono a una generazione che vive la sua vita come un fallimento continuo.

Nei nove brani che compongono Tentativi ed errori, I Sospesi raccontano di chi è esausto dei paragoni con gli altri, delle pressioni esterne e interne e della cultura performativa a cui siamo sottoposti quotidianamente. Lo accompagna un manifesto che propone una prospettiva ancora poco battuta: "Scegliere le emozioni e le esperienze per definire sé stessi invece di basarsi sulle performance. Perché una lista di obiettivi raggiunti dice di noi cosa abbiamo fatto ma niente di chi siamo davvero”.

E di Tentativi ed errori abbiamo voluto parlare in un’intervista esclusiva con Emanuele Salvi, frontman de I Sospesi e autore dei testi.

I Sospesi.
I Sospesi.

Intervista esclusiva a I Sospesi

Perché avete scelto di chiamarvi “I Sospesi” e di intitolare il vostro primo album “Tentativi ed errori”?

Sospesi è la condizione che viviamo noi della nostra generazione: troppo giovani per essere veramente adulti ma troppo adulti per essere ancora giovani. Ma sospesi anche tra la stabilità che ricerchiamo e gli ostacoli che ce ne impediscono il raggiungimento: si ha come la sensazione di non arrivare mai da nessuna parte. Il titolo Tentativi ed errori nasce invece dall’attenzione che viene posta fin troppo spesso sull’errore e sul successo. Sbagliare o fallire diventa fondamentale, soprattutto per la nostra generazione, bombardata continuamente da informazioni che esaltano e spingono verso il successo: sbagliare è invece normale. E nel disco abbiamo voluto inserire i dieci anni di fallimenti della nostra vita.

Parli di generazione: quanti anni hai?

Ho trent’anni ma ho cominciato a scrivere il disco dieci anni fa.

In dieci anni sono cambiate tante cose. si è anche ingigantita l’attenzione che si dà al performare. I social hanno spinto sempre più verso un modello vincente. Ma non sempre si è all’altezza delle proprie aspettative e di quelle degli altri.

Il confronto con le aspettative degli altri è inevitabile. Quando arrivi a trent’anni e vivi ancora in casa con mamma e papà mentre gli altri sono già andati via, qualche domanda te la poni.

Hanno più peso nel tuo caso le aspettative dei genitori o quelle della società in generale?

A livello personale, dipende. Quand’ero piccolo non capivo il modo di comunicare con me della mia famiglia, lo subivo con una forte pressione: mi sembrava di essere quello che non andava mai bene. Poi, con il tempo, ho capito che era un tentativo goffo di due genitori che non hanno mai avuto modo di imparare a comunicare con il figlio e di cercare a spronarlo a fare del suo meglio. Quindi, ho cominciato ad avvertire meno la pressione.

A livello di società, invece, la sento tantissimo. Ma non solo io: l’avvertono anche i ragazzi che suonano con me o le persone che vengono ai nostri concerti. Cerchiamo di fare del nostro meglio e di trovare la nostra strada ma non appena sbagliamo la sensazione è quella di non poter far mai niente nella vita. E, invece, no: abbiamo bisogno di esplorare tutti i vicoli ciechi.

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E musicalmente quando avete cominciato a esplorarli?

Come gruppo, nasciamo nel 2013 con una formazione a quattro, con anche una ragazza molto giovane che cantava. Poi, come spesso succede nelle band, ci si molla e ci si lascia… e dopo vari assesti siamo oggi in cinque.

La ragazza era la fidanzata di qualcuno dei componenti della band?

No, era la sorella minore della mia ragazza dell’epoca.

E, a proposito, i tentativi ed errori – come si deduce dalle canzoni dell’album – si riversano anche nella sfera sentimentale. Penso ad esempio a brani come Scenario o Le nostre foto. Come ci si pone in amore quando si parte con l’idea di aver già fallito?

La risposta è ovviamente soggettiva, non può per ovvie ragioni essere univoca. Tendenzialmente, in ogni tipo di relazione – sentimentale ma anche di amicizia – cerco di dare tutto ciò che posso all’altra persona senza aspettarmi nulla in cambio. Quando la relazione viene meno, all’inizio provo una grandissima delusione ma poi arriva la fase di autoanalisi, in cui cerco di capire cosa e dove ho sbagliato. Riesco a essere abbastanza lucido e razionale ma dieci anni fa ero totalmente in balia delle emozioni e dell’emotività del momento per cui vivevo la fine proprio male. Per me era un fallimento aver allontanato qualcuno. Anche se non era responsabilità mia, mi davo tutte le colpe del caso.

Un po’ come canti in Attitudine: “sono il mio peggior nemico, allontano chi mi sta accanto”. Allontani ancora le persone o hai imparato a gestire le relazioni?

In questo momento, no. Non allontano nessuno volutamente, quantomeno se sono cosciente delle persone che voglio nella mia vita cerco di tenermele strette. In caso contrario, c’è anche un po’ di rassegnazione: nel momento in cui provo a dar tutto e dall’altra parte non c’è interesse, il rapporto va a morire. Mi spiace, faccio spallucce e vado avanti più velocemente rispetto al passato.

Che hai rapporto hai con il passato? In Foglie, sostieni che “il passato ritorna per farti male”. Qual è questo passato?

È un passato di insuccessi, dieci anni di ricerca di una strada che non arrivava mai. Sono negli ultimi mesi sto riuscendo a ingranare la marcia a livello personale. In quel periodo, nonostante fossi circondato da amici, mi sentivo particolarmente solo. Avevo lo stigma di condividere tale sensazione per paura di cosa pensassero gli altri. Quando poi ho trovato la forza di condividere il mio stato d’animo, mi sono reso conto che era una sensazione molto diffusa.

Adesso guardo al passato in maniera diversa, sono a un livello più avanzato sulla time line della mia vita. Guardando indietro, mi rendo conto che forse il mio passato non era fatto di ostacoli incredibili ma era giusto che ci stessi male, che non riuscissi a reagire. Ma scontrarmi con quel fallimento è stato quasi propedeutico: mi ha portato a dove sono adesso. Se mi rivedo, mi fa sorridere il mio comportamento.

Sei anche cresciuto e c’è una maturità diversa rispetto a dieci anni fa. Ciò che prima stava in una sezione negativa dell’asse cartesiano, oggi avrà assunto un valore positivo. L’asse cartesiano è una citazione che viene da Zero, i cui dici che sono vent’anni che aspetti il domani. Hai cominciato già a dieci anni?

È a dieci anni che ho iniziato a capire l’importanza delle cose: all’epoca, potevano essere i compiti scolastici. C’era sempre in me la tendenza a voler rimandare ogni tipico di responsabilità forte relegandola al domani. Rimandi, rimandi, rimandi e di fatto poi arriva la scadenza che ti fa scontrare con il fallimento accumulato.

La lista dei fallimenti e degli errori genera ansia, affanno, attacchi di panico. Respirare, come canti in Respira, è la soluzione. Tu hai imparato a respirare?

Rispetto a prima, sto respirando. Mi ritrovavo in una condizione tale per cui per un certo periodo della mia vita sono anche andato settimanalmente in terapia da una psicologa. Il livello di ansia che provavo era paralizzante, qualsiasi cosa avessi davanti non riuscivo a portarla a termine. Adesso riesco ad avere un lavoro normale, quello di social media manager, e una vita più o meno normale.

E riesci anche a parlare della terapia. Molto spesso gli uomini, cresciuti con il mito del machismo, tendono a nascondere il loro lato fragile.

È un tipo di cultura che non ho mai capito. Mi è stata tramandata dall’ambiente sociale ma la soffrivo: a me veniva spontaneo il desiderio di dire a qualcuno che stavo male. E, invece, per via di quel modo di pensare non potevo farlo, mettendo un’altra barriera tra me e il mondo.

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In tema di malesseri dell’anima, in Sara affronti l’anoressia descrivendola in maniera molto vivida. Ci sono nel testo immagini che solo chi ha conosciuto l’anoressia da vicino può restituire. Penso ad esempio ai famosi segni sulle dita, che sorgono quando sistematicamente si ricorre al vomito autoindotto.

O al doppio spazzolino da denti, un’altra immagine che era presente in una prima bozza del testo. Ricordo che, alle scuole medie ma anche alle superiori, tutte le ragazze che conoscevo notavano in loro qualcosa che non andava ma che per me non esisteva. Ero stranito dal loro comportamento: non riuscivo a capire come una ragazza magrissima potesse trovarsi “grassa”. Crescendo, ho capito che c’era un mondo di cui all’epoca quasi non si parlava e ho cercato di capirne di più, di scoprire da cosa derivasse quel comportamento e di conoscere cosa sentissero quelle persone.

E per farlo, oltre a parlare direttamente con le persone che hanno vissuto determinati problemi, per mesi ho frequentato dei forum pro ana e pro mia: era il modo migliore per affrontare l’argomento senza far male a chi soffre di disturbi alimentari. Parlando con loro, ho capito ad esempio quanto temono il giudizio degli altri nel raccontare quello che vivono: non volevo esser quindi proprio io a scrivere una canzone che le giudicasse.

Sara è un testo che ho riscritto quasi una ventina di volte. La versione definitiva è molto più delicata della prima, che invece era molto diretta. Ed è una di quelle canzoni che, ogni volta che viene suonata live, fa scoppiare a piangere un po’ di persone. Alla fine del concerto, vengono ad abbracciarci per dirci che stavamo parlando di loro e per ringraziarci.

È uno dei risvolti positivi della musica: ognuno può riconoscersi e far proprie le parole scritte da qualcun altro. Tra creazione e terapia, cosa rappresenta per te la musica?

È difficile dare una risposta. A volte scrivo canzoni come Respira, che nascono come dei flussi di coscienza che non capisco da dove arrivano. Tanto più quando raccontano di ciò che da lì a poco mi sarebbe successo veramente. Quando capita, ciò che mi rende contento non è la qualità del suono o la rima incredibile trovata ma è il fatto che chi la ascolta riesca a farla propria. È l’unica ragione che mi spinge a far musica anche dopo una giornata di 13 ore di lavoro.

Tra i nove brani contenuti in Tentativi ed errori, ce ne sono due strumentali.

Ponte di Einstein-Rosen è l’intro del disco. In fisica o nell’universo cinematografico, per non far arrabbiare i divulgatori scientifici, è un cunicolo spazio-temporale: sostanzialmente, immagina di piegare l’universo in due per andare da un punto A a un punto B. Quindi, è una specie di “scorciatoia” che permette agli ascoltatori di entrare velocemente nel pianeta “Sospesi”. Ma anche di scrematura: se hai la pazienza di ascoltare tre minuti di musica strumentale, sei il nostro ascoltatore ideale. Altrimenti, se si cerca subito il testo o il ritornello a effetto, preferisco avere anche due mila ascoltatori in meno, mettiamola così.

Grigio siderale, invece, arriva a metà del disco ma non per dividerlo a metà. Era un brano che nasceva con un testo che raccontava di quel grigio siderale, appunto, che senti e per cui ti mancano le parole o la forza per muoverti. Un giorno, causa un mal di gola, l’abbiamo suonata senza che io cantassi. E alla fine abbiamo pensato che in un album così ricco di testo ci sarebbe stata bene una canzone senza parole.

Hai citato i testi, sempre ricchi e mai scontati. Anche “dolci”, se mi passi il temine. A cosa si deve la scelta di accompagnarli con una musica che è invece molto forte?

Quando abbiamo composto le canzoni, eravamo in una fase della nostra vita in cui ci serviva far rumore. Avevamo bisogno di urlare per sfogare tutto ciò che avevamo dentro, non potevamo farlo sottovoce.

I Sospesi.
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