Veronique Charlotte è la conduttrice di I Think Fluid, uno dei tantissimi format messi a disposizione dallo scorso 9 marzo dalla nuova piattaforma on line tutta italiana Hibe. Veronique Charlotte, il cui nome si deve a un capolavoro di Godard (Charlotte et Veronque), è una direttrice artistica, fotografa e attivista sociale.
Nata a Rimini, cresciuta a Milano e trasferitasi a Londra, Veronique Charlotte ha mosso i primi passi come fotografa nel mondo della moda e della fotografia editoriale. Il suo lavoro è introspettivo e si concentra sul corpo in relazione all’ambiente sociale, dando forma al filo della connessione umana. Il suo approccio è sperimentale e performativo, spingendo il suo corpo e la sua mente al limite per ricercare maggiore chiarezza e liberazione.
TheWom.it ha intervistato Veronique Charlotte per saperne di più sia su I Think Fluid sia su Gender Project.
Cos’è Hibe
Fatta di creatività e interscambio tra content creator, talent e community, Hibe – come ha spiegato il co-founder Omar Bertoni – “nasce durante il primo lockdown, nel 2020. Proprio in quel periodo ci siamo resi conto di come - a causa delle restrizioni imposte e della sospensione forzata di produzioni da parte delle più famose piattaforme di intrattenimento - la carenza di nuovi contenuti sistematizzati di fronte alla quale ci trovavamo era notevole. Passavamo le ore a fare scrolling sui social senza davvero trarre dei contenuti interessanti. Ecco che abbiamo pensato ad Hibe: una nuova visione di intrattenimento, un nuovo spazio digitale per dare ai content creator la possibilità di offrire alla propria community un contenuto strutturato di qualità - abbattendo la barriera che da sempre li divide - fungendo così da “ponte”.
Inclusione e co-creazione diventano allora le parole chiave per la realizzazione dei vari format. Dedicata alla Generazione Z e ai Millennial, Hibe propone contenuti che abbattono le barriere tra tv, social network e streaming. Tra le produzioni originali, vi sono:
- Format sex educational tra cui: I Think Fluid, il salotto LGBT+ che vede la fotografa Veronique Charlotte come moderatrice; Erika Mattina e Martina Tamarro (alias Le Perle degli Omofobi)- in Ti ricordi? - si sono messe alla ricerca delle storie d’amore più divertenti ed emozionanti pronte a raccontare con delicatezza, ironia e freschezza il mondo delle coppie;
- Ludovica Bazzaglia, che condurrà Love Blind nelle vesti di cupido, con simpatia e spirito d’improvvisazione;
- Per il mondo gaming Dices, il reality che coinvolge 8 twitcher - tra i quali Ramalila Giustini - e giocatori e-sports come Los Amigos;
- Giorgio Vanni - re incontrastato delle sigle di tutti i grandi cult d’animazione anni ‘90/2000 - sarà padrone di casa in Catch the song, il format musicale che metterà alla prova il pubblico;
- Per il mondo food Giovanni Fois, nel ruolo di giudice in Food talent: la gara di cucina fuori dagli schemi;
- Dress me, il make over a colpi di armocromia guidato dalla tiktoker Rebecca Gradoni: il format tutto dedicato al fashion.
Cos’è I Think Fluid
Sono cinque le puntate che al momento compongono il salotto di I Think Fluid, in cui la fotografa Veronique Charlotte affronta con persone della comunità LGBTQIAP temi come l’universo delle drag queen, il fashion e la gender identity, la violenza di genere, l’importanza dei pronomi e la transizione.
I Think Fluid è figlio di Gender Project, il progetto di fotografia sociale che indaga sulla comprensione e sulla percezione dell’identità delle persone con l’obiettivo di rafforzare l’idea di fluidità e promuovere l’intersezionalità, aprendo un dialogo attraverso l’incontro di corpi, realtà, vite. Il progetto è fatto di mostre che cercano di stabilire reti attive e inclusive raccontando 1000 storie attraverso 100 ritratti che narrino lo spaccato sociale di 10 capitali mondiali.
INTERVISTA A VERONIQUE CHARLOTTE
Veronique Charlotte, raccontaci come nasce il progetto I Think Fluid. Lo possiamo considerare come una continuazione del Gender Project, il cui obiettivo era ed è “Il genere è di tutti ed è ovunque”?
È un ramo di tante esperienze che proponiamo legate al Gender Project, un progetto che spinge contro la necessità di classificare e richiede una fluidità più semplice. I Think Fluid è uno spazio in cui cerchiamo di proporre agli spettatori ma anche a chi fa parte dei nostri progetti, attingendo alla loro vulnerabilità, di incontrare gli altri in gentilezza. L’etimologia del termine gender, in inglese, parte dalla radice kind, tradotto in italiano in gentilezza. Non ci si focalizza esclusivamente sul genere come identità ma sul genere come persona, feeling, perché proponiamo un’esperienza emotiva che porta gli altri in conversazione.
Quanto l’immagine restituita dai mass media è lontana dall’essere inclusiva? Ho come l’impressione che si debba ancora fare molto. Spesso il racconto gender da chi non vive le problematiche ma ne parla. È ancora parliamo di loro ma non con loro. Sembra quasi una rappresentazione dall’alto in cui la comunità LGBTQIAP (o, comunque, ogni tipo di minoranza) è assente. I Think Fluid, invece, sceglie una modalità di approccio semplice e diretto: parlano loro di loro. Non c’è una maestrina che impartisce lezioni.
Assolutamente. Il problema della rappresentanza nei media è un problema grandissimo. Ci sono tantissime persone che si fanno portavoce di battaglie che non vivono nel personale. Credo che non ci sia nulla di male a fare questo e a continuare a portare wellness a tutte le problematiche affrontate. Gender Project è un progetto che non si rifà solo ed esclusivamente alla comunità queer o LGBTQIAP. È inclusivo, coinvolge qualsiasi tipo di minoranza, dai diversamente abili alle invisible disabilities, dalla black community a quella transgender…
Ma punta i riflettori anche sulla violenza sulle donne, che può essere subita dagli uomini o da altre donne, ma anche sulla violenza delle donne sugli uomini, altrettanto diffusa. Non parliamo di femminicidio, che è tutt’altra cosa, soprattutto in Italia, un paese segnato da una società molto patriarcale.
Il lavoro che proponiamo è quello di dar voce a chi può parlare veramente delle esperienze vissute in prima persona, chiedendoci quali sono i punti di forza ma, soprattutto, quali sono le necessità in una comunità eteronormativa di insegnare e di educare tramite le esperienze personali. Le storie che vengono raccontate durante I Think Fluid sono le storie che vengono raccontate nel Gender Project, non sono storie che puoi trovare su Google: sono esperienze personali di qualcuno che decide di aprirsi volontariamente e di sensibilizzare sulla propria vita nella vita degli altri.
Faccio sempre un esempio molto banale ma comune a tutti. Quando qualcuno ti spezza il cuore, sei in lacrime, tutto è nero. La prima cosa che dici è “Nessuno può capirmi, nessuno sa cosa sto provando in questo momento”. Questo dolore è lo stesso che prova una donna transgender, una black woman che non è stata accettata in una comunità fatta di white bodies, e così via. Cerchiamo di ricreare il potere emotivo delle esperienze e di utilizzarlo per connettere, tramite l’empatia ma anche un’educazione giusta, fatta di fatti, di statistiche e di contenuti reali che vengono direttamente da chi subisce quel tipo di violenza, quel tipo di vita.
I protagonisti devono essere chi sono i protagonisti. Certo, quando vengono affiancati da personalità che magari hanno più spicco in un mondo videotelegiornalistico si crea un connubio meraviglioso, a patto che venga integrato nella maniera giusta e consapevole. Se l’influencer con 14 milioni di followers parla di problematiche sulla pronuncia quando non ha mai avuto nessun problema inerente a ciò e si fa portatore di qualcosa che non è nella sua pelle, va bene fino a un certo punto. Facciamolo ma facciamolo con qualcuno accanto che spieghi cosa sia la disforia di genere, da cosa nasce, quali sono i triggers. Chi non vive le problematiche in prima persona può solo immaginarle ma non può parlarne a 360°. Il lato emotivo è importante: è il punto di fuoco con il quale ci si può connettere con qualcuno, è quello che porti a casa facendo avvenire la sensibilizzazione.
Come sono state scelte le storie? Te ne sei occupata personalmente o le ha proposte un gruppo autoriale?
Sono frutto della scelta personale. La bellezza di Hibe è stata quella di dirmi: “C’è un format, curalo tu”.
Lo si intuisce dal fatto che la conversazione è sempre in fieri. Non c’è mai l’impressione che ci sia una scaletta da seguire, con domande prestabilite a priori. È come stare nel salotto di casa propria e assistere a una conversazione tra amici che si aprono e si raccontano senza barriere.
Le interviste non erano, appunto, interviste. Le domande non sono state redatte prima: è stata una mia scelta quella di non creare una scaletta con delle domande, di non dare le domande prima a chi avrebbe fatto parte del salotto… anche perché non avevo le domande.
Nel 2022 non mi piace più parlare di rivoluzione queer: è semmai un’evoluzione di tutto quello che è sempre esistito. Non siamo qui a creare un’altra battaglia, un altro conflitto.
Veronique Charlotte
È uno dei valori aggiunti del format. Siamo abituati a delle trasmissioni in cui c’è chi formula una domanda e non ascolta nemmeno la risposta dell’intervistato. Tu ascolti invece il racconto e da quello ha origine il flusso di pensieri, di curiosità o di sottolineature successive.
Parliamo di argomenti che sono oramai all’ordine del giorno. La differenza, rispetto a prima, è che adesso abbiamo spazio per parlarne. Chi fa parte della comunità LGBTQIAP ha sempre avuto qualcosa da dire. Però, non veniva ascoltato. Perché? Perché dall’altra parte c’era qualcuno con una scaletta pronta che aveva delle domande già predefinite. Uno dei grandi poteri che si ha in questo momento, nel 2022, è quello di farsi ascoltare.
I problemi esistono da sempre. Quando c’è stata una prima rivoluzione negli anni Settanta, negli anni Ottanta, dove venivano tirate fuori queste discussioni e questi argomenti, c’erano grandi manifestazioni, tantissimi artisti, fotografi, videocinematografi… c’era di tutto e di più ma non si veniva ascoltati. C’è sempre stato qualcosa che ha bloccato un po’ questa evoluzione.
Nel 2022 non mi piace più parlare di rivoluzione queer: è semmai un’evoluzione di tutto quello che è sempre esistito. Non siamo qui a creare un’altra battaglia, un altro conflitto. Cerco con chi lavora con me di amplificare questo aspetto.
Non è più un getting out of your comfort zone. Non stiamo parlando di andare fuori dalla tua zona di comfort, stiamo parlando di espandere la tua zona di comfort. Se vai fuori dalla tua zona di comfort, l’unica cosa che puoi fare è solo tornare indietro, al punto di partenza. Ampliare il tutto significa considerare anche chi non fa parte di una cultura, chi non vive quelle problematiche, e includerlo. L’inclusione nasce da ciò. È uno scambio, è come avere una conversazione di qualsiasi altro genere.
Una conversazione che “normalizzi” la bipolarità della società italiana che tende a fare una classificazione tra ciò che è corretto e ciò che non lo è, provocando discriminazioni che nel Terzo Millennio non hanno ragione di esistere. Uno dei punti forti di I Think Fluid sia proprio l’eliminazione dei preconcetti che portano alla discriminazione, un termine abominevole.
E un altro termine abominevole è “normalizzazione”. Detesto quando mi viene detto “normalizziamo” qualcosa. Ma normalizziamo che cosa? È come quando durante l’International Women’s Month gli uomini se ne escono frasi tipo “Io rispetto le donne tutto l’anno e non solo l’8 marzo”. Che senso ha che dicano che ci stanno facendo un favore rispettandoci? Purtroppo, questi pensieri sono talmente radicati nella nostra cultura che sembra una cosa normale, come un atto di gentilezza o di puro amore, dire “io ti rispetto”. Perché? Da che cosa nasce il fatto che tu mi faccia un favore rispettandomi? È qui che emerge il dislivello, è qui che c’è la torre che crolla.
Non dovrebbe accadere, eppure siamo ancora qui a spiegare perché questo o perché quello. Ci sono tante persone come me che stanno lavorando allo sradicamento di tale pensiero. Ma penso anche a tante altre persone che si stanno affacciando e stanno cercando di aiutare nel loro modo. E l’aiutare nel loro modo non vuol dire aiutare qualcun altro: vuol dire aiutare se stessi ad aprirsi, a capire, a studiare, a ricercare, a fare ricerca interiore e a evolvere. È necessario che chiunque a livello umano parta da se stesso e capisca quali sono le problematiche che non riesce a capire come persona.
Non puoi far diventare tuo il problema di qualcun altro. È quello che avviene quando qualcuno che non è parte di una comunità usa i problemi degli altri per dare un po’ di luce a se stesso. È una cosa sbagliatissima.
Un po’ come quando qualcuno ti dice “io non ho nulla contro i gay perché ho tanti amici gay”.
O “io ti voglio bene e non mi importa se i tuoi pronomi sono questo, questo e quest’altro. Non ti preoccupare, io ti voglio bene”. Capiamo tutti che c’è un problema di base enorme. Se io sono una persona non binary, mi c’è voluta una vita intera per arrivare a capirlo e un’altra vita ancora per riuscire a esternarlo a te. A te che vieni da me a dire “non mi importa”. Beh, a me importa: stiamo parlando della mia di vita con te che dovresti capirmi e impegnarti ad andare avanti su questo. Se vuoi essere un supporter, un ally, fatti carico di ciò come io mi faccio carico di avere un amico come te che non capisce e necessita di un’altra spiegazione.
È necessario che chiunque a livello umano parta da se stesso e capisca quali sono le problematiche che non riesce a capire come persona.
Veronique Charlotte
Hai appena citato i pronomi, a cui hai dedicato una puntata di I Think Fluid. Per quanto riguarda l’inglese è una lingua molto più giovane rispetto all’italiano. L’italiano ha un problema di base: è una lingua binaria che declina tutto al maschile e al femminile. Come si fa a vincere una resistenza che deriva da una cultura che va avanti da secoli e secoli?
In Italia è un discorso molto sensibile, politicamente corretto o incorretto. La lingua italiana è una lingua meravigliosa ma è anche una delle più antiche che abbiamo. Non credo ci sia bisogno di cambiare la nostra lingua, non credo che possiamo tagliare a metà le parole per togliere l’ultima consonante o vocale. Non ha senso, ti viene da ridere mentre lo fai. Però, in ogni lingua, ogni giorno vengono coniate parole diverse. Credo tantissimo che verrà sviluppata una nuova maniera di adeguare il linguaggio, creando dei nuovi termini. In attesa, c’è una tecnica molto semplice, molto efficace e alla base di qualsiasi conversazione: il chiedere con gentilezza. Come preferisci che ti chiami? È l’abc della gentilezza: chiedere qualcosa quando non sappiamo, anziché pretendere di sapere. Parliamo di persone in carne e ossa: il pronome è importante ma la persona lo è anche di più.
Sarebbe come aggiungere un’ulteriore etichetta.
L’etichetta è sempre vista con un’accezione negativa. Ma se hai il sale e il pepe sul tavolo, in boccettine uguali ma senza un’etichetta sopra, cosa succede? Li confondi, la zuppa diventa troppo salata e non la mangi più. Le etichette servono, servono ancora. Servono perché si deve ancora prima imparare tutto. Solo dopo possiamo cominciare a toglierle. Non necessariamente l’etichetta è qualcosa di negativo. Dobbiamo cominciare un percorso di educazione prima di togliere tutto ciò che non sappiamo. Anche eterosessuale è un’etichetta, se vogliamo. Uomo e donna sono due etichette.
Fashion e gender identity sono al centro della seconda puntata. Giudichiamo chi abbiamo davanti in base a come ci appare. Siamo ancora nell’epoca in cui l’apparenza è sostanza?
C’è sempre una maniera diversa nella quale noi possiamo vedere le cose: è il giudizio, in realtà, alla base di tutto. Se una persona si veste in una maniera più stravagante di un’altra, non vuol dire che sia superiore o inferiore all’altra. Non ha senso. Se vai in ufficio in giacca e cravatta e stai bene con quei vestiti, è bene per te. Se una persona decide di uscire di casa vestendosi come si sente, è altrettanto bene per lei.
Partiamo dal fatto che stiamo parlando di fashion. La cultura queer è materia primaria di qualsiasi designer. Le passerelle che vediamo sfilare quest’anno richiamano la queer technosign, il rifarsi i vestiti da soli usando materiali e vestiti che non erano i miei ma sono di qualcun altro. È tutta creatività: è solo ed esclusivamente un’amplificazione di cosa sono, come mi vesto. Un giorno voglio vestirmi in una maniera, un giorno in un’altra: se sto bene con me stesso ma anche se voglio diventare un corpo politico (siamo tutti corpi politici in realtà), indosso qualcosa che rispecchia ciò che sono o dove vado.
Ma ci sono anche i casi in cui ciò che indosso rispecchia chi ci chiede di vestirci in una determinata maniera: se andiamo in ufficio, viene richiesto un dress code. Ed è sbagliatissimo: da come sei a quello che fai c’è una bella differenza. Nel 2022 stiamo ancora dando importanza ad argomenti o questioni che non sono la base delle problematiche critiche. Si cade spesso nel bigottismo. Chi stabilisce che un avvocato debba vestirsi in un determinato modo per essere un buon professionista?
Sono molti i casi di cronaca portati alla ribalta in cui si giudicano o licenziano professionisti se nel privato indossano qualcosa che viene ritenuto poco consono alla professione che svolgono.
È invasione della privacy. Io avrei fatto il contrario: avrei licenziato chi si è preso cura di andarsi a fare i fatti di qualcun altro. Ciò che si fa nella vita privata non ha niente a che fare con ciò che succede in quella lavorativa. È una presa di potere a cui dire no: nessuno decide per nessuno.
Quando nasce in Veronique Charlotte, conduttrice di I Think Fluid, la passione per la fotografia?
La passione per la fotografia c’è sempre stata. È più la passione per il reportage. I miei racconti, le mie fotografie, sono reportage di esperienze umane. Avrei voluto fare la reporter di fotografia politica durante le guerre. È una cosa che avrei sempre voluto fare, chissà magari un giorno lo farò. Per me la fotografia è un raccontare qualcosa che parte da un soggetto, da una realtà.
I ritratti che compongono il Gender Project non sono ritratti scattati a qualcuno che si mette in posa: sono discussioni aperte con i soggetti. Mentre discutiamo o parliamo normalmente, come si vede in I Think Fluid, vengono scattate le foto, che diventano quindi racconto di qualcuno.
Ma Gender Project è fatto anche di video, nei quali vengono rivelate parte delle storie in modo che chi viene durante le nostre mostre capisce in realtà cosa vogliamo raccontare o cosa sta succedendo. Gender Project, vedrà l’apertura di una mostra a Londra la prossima settimana dedicata alla violenza sulle donne da parte degli uomini in questo caso.
La fotografia in bianco e nero è stata una delle mie prime passioni. La sto portando avanti nel mio ma sto facendo anche delle foto a colori, mi sto avvicinando ad altre cose. Il mio tipo di fotografia è una fotografia sociale e lavora con minoranze. Voglio dar luce a problematiche ma non solo a quelle. Ci sono tantissime storie che sono a lieto fine: l’happy ever after esiste. Quando si parla della comunità LGBTQIAP o di tante altre comunità, si pensa sempre a qualcosa di triste o drammatico.
Ci sono anche storie bellissime o felici che ti danno quella carica in più per dire “mi faccio avanti, faccio coming out”. Ricordo a tutti che prima di fare coming out dovrebbe esserci il coming in, il provare a capire metaforicamente i vestiti che stanno meglio addosso e che ti permettono di essere trueself e non solo yourself. È un po’ come la differenza che si fa quando si dice selflove e selfcare: il selfcare è la tua routine quotidiana mentre il selflove ha un processo più difficile di accettazione, di amore verso se stessi, di sentirsi più liberi. Ma questo riguarda un po’ tutti: è un consiglio che dovremmo seguire e imparare a mettere in atto tutti quanti. Ama te stesso in modo tale che puoi amare gli altri: è una frase semplice, come un detto della nonna, ma è la realtà dei fatti.
Siamo nel 2022: le nuove generazioni danno un quadro completamente diverso. Lavoro tantissimo con i giovanissimi e quando sono con loro il cuore mi esplode. Penso: oh, che meraviglia! Ovviamente, terrei a ricordare che le loro battaglie sono leggermente diverse dalle battaglie che abbiamo affrontato noi prima e altri ancora prima di noi. Non dimenticavi da dove nasce il tutto, di chi le battaglie le fatte. Non dimentichiamo che, come si legge tutti i giorni, in altre parti del mondo ci sono persone che vengono uccise, discriminate.
Tutto quello che sto facendo nel mio percorso non ha nulla a che fare con l’appropriazione di ciò che non è mio, non parlo mai di me stessa. Non lo sto facendo per me e gli altri lo stanno facendo con me. È collettivo. Tutto il mio lavoro è collettivo. Non dà spicco a una persona piuttosto che a un’altra. Non vuole mettere in luce una problematica piuttosto che un’altra. Parliamo di tutto e lo facciamo collettivamente. In maniera organica, naturale e con tanto trasporto.
I Think Fluid, così come Hibe, la piattaforma che lo ospita, sono funzionali in qualche modo a tutto il Gender Project.
Una parte del ricavato generato da I Think Fluid ma anche dall’abbonamento a Hibe, verrà donato al Gender Project per continuare il percorso che stiamo facendo.
Esiste anche la possibilità di contribuire, per chi lo volesse, in maniera autonoma?
Nel sito di Gender Project c’è l’apposita sezione in cui chiunque, sentendosi libero, può contribuire con una donazione. Così come ci sono i nostri riferimenti mail per chi vuole collaborare al progetto o altro ancora.